Autore
Dante CrescioliAnno
1991Luogo
Arezzo/provinciaTempo di lettura
6 minutiI ricordi di un emigrante pievano
E' logico che era tutta una questione di meningi: la conformazione della pianta delle Logge del  Grano, comprendeva, e comprende al suo interno, simmetricamente delle colonne centrali, le quali  favorivano la nostra azione furtiva. Venivano dal Comune di Caprese e dai Caldini, numerosi contadini ogni lunedì per vendere i loro prodotti, consistenti come si è detto di castagne e loro derivati. Arrivati al punto di scarico alleggerivano la soma dei loro somarelli ( o micce) a ridosso delle colonne. Succedeva così che mentre, un paio di più scaltri ragazzi, con qualche soldo in mano tenuto in evidenza intratteneva con chiacchiere più o meno interessanti, inerenti la qualità, il prezzo dei vari prodotti, con il proprietario, mettendo in atto la furberia nel costringerlo anche solo ad una momentanea distrazione e cercando addirittura di fargli voltare le spalle alla sua merce. Quello era il momento degli altri due amici nascosti dietro la colonna che entravano in azione, trasferendo nel loro sacchetto tutto ciò che gli capitava fra le mani. Succedeva perciò che dentro il sacco della refurtiva finivano mescolati insieme, fagioli, castagne secche e fresche, farina dolce e tutto ciò che capitava fra le mani. Tutto questo, una volta allontanati non rappresentava nessun problema per la cernita dei prodotti. Inoltre eravamo sempre in quel tempo stagionale pronti per le spedizioni a rubare le castagne ai Caldini e a Caprese. Anche questo problema era stato attentamente studiato e risolto con estrema facilità, in modo che lo sforzo ed il sacrificio notturno fosse sicuramente ben compensato. Il metodo era il seguente invertire la notte con il giorno. Si partiva dalla Pieve a circa l'una di notte, per arrivare con una marcia di circa due ore sul posto designato per l'operazione, in poco meno di un ora si riempiva i sacchi del peso di una quarantina di kg e amò di zaino ce lo infilavamo svelti svelti in spalla, dimodochè raccogliendo le castagne non già in ordine sparso, così come cadono, ma bensì acciaccando le peglie sulle barche di pegliai potevamo in un batter d'occhio a piene mani raccogliere castagne per quante ne volevamo, naturalmente a rischio e pericolo di imbattersi sulla collera giustificata del proprietario il quale se ci sorprendeva non ci avrebbe risparmiato forti randellate, ma noi avevamo tutto calcolato, poiché nulla si ottiene senza prezzo. Sapevamo, però, anche che i proprietari prima delle 4 o 5 del mattino, in autunno a quell'ora è buio non sarebbero arrivati sul posto del loro castagneto, mentre noi a quell'ora, già da un pezzo, eravamo sulla strada del ritorno, avendo superato una discreta distanza di sicurezza, oltre il camposanto di S. Casciano e forse anche il Poggio. Cosichè con un po' di astuzia, un po' di coraggio e un po' di sacrificio, fortunatamente senza incorrere in cattive reazioni, mangiavamo anche noi, non proprietari, abbondantemente castagne e loro preziosi derivati per tutte le stagioni di ogni Anno, anche se in gergo capresano venivamo chiamati "i sacchettoni". Stà di fatto però, che noi credenti o no, o credenti a modo nostro, applicavamo e tenevamo scrupolosamente fede agli insegnamenti Cristiani la dove si dice che "la roba dei campi è di Dio e dei Santi". Si giustificava perciò in parte, a quell'epoca assai dura, che i padroni, cioè i signori, non erano poi cosi tanto duri e cattivi, tanto da annullare la nostra ardita perspicacia eccedendo nel loro chiuso e autoritario egoismo.
Tutto sommato, e non è poco, girando per il mondo, nel bello bello e nel brutto, nessuna impacciante o emotiva meraviglia mi ha mai sorpreso o insegnato più di quanto nel mio paese io abbia già conosciuto e vissuto. Esso aveva avuto in me il potere immaginario e convincente di conoscermi in anticipo realtà importanti, e stimolato il mio essere verso la ricerca del superamento del non sempre facile. Sopratutto nel lavoro avevo imparato a capire quanto sia importante dopo la capacità, la serietà e l'impegno per il rispetto dei tempi di consegna, in ciò imparai ad essere scrupoloso e a trame i relativi vantaggi. Nel tornare noiosamente a dilungarmi nel ricordo di tante, tante cose care, che pochissimi attualmente conoscono e men che meno ad altri possono interessare, ma che era la realtà e la vita della Pieve, impersonata in una simbiosi unica ed inconfondibile dai personaggi di quell'epoca al Paese. Chi ricorda il Micciaio padre della Tilde con la stalla dei suoi muli di fronte al portone della Gigina Capaccini, poco prima del portale dell'allora Colonnello Lamponi, che con i suoi odori stallatici emanava un che di agro dolce con il lusso aristocratico dei Lamponi? ...Chi sa ricordare il barrocciaio Cecco Matto della Ciocia che con i suoi due malandati muli, ogni giorno, da mattina presto a sera tardi, copriva il percorso a piedi tra Pieve e Sansepolcro con un tracciato stradale lungo e pessimo, con ogni tempo, procacciando puntualmente tutte le necessarie e già ordinate derrate per la vendita a tutti i commercianti? ...E il macellaio Giogia con il negozio vicino al banco di erbe e frutta della cara Zoppina, il già menzionato Giogia a quei tempi aiutato dai famigliari era sempre intento a spennare le Oche, per la vendita al dettaglio. E chi ricorda Santi Brazzini e sua moglie genitori della Cecca con l'albergo "Ponte Nuovo"... esso era di statura grosso e alto, sempre con il naso e viso rosso, tipico di chi ama onorare il Dio Bacco. E poi la [Fatalcina, il Gintale, Bippulino, Gennarino] con le sue brice ed il suo pesce. Tiburzio sempre grassoccio e piuttosto basso con il davanti dei pantaloni sempre aperti, il Cambi austero e non confidenziale, il Sor Settimio sempre scherzoso e fischiettante, balzellante e somigliante ad un tarchiato passerotto in giannetta.? Ma chi finirebbe di colorare il mio paese. Quella era l'insieme della unica e vera identità degli anni 20 in poi, fino alla seconda guerra, poi tutto ciò e sparito, perché è sparito quel Paese.