Autore
Furio AcetoAnno
1943 -1945Luogo
Cuneo/provinciaTempo di lettura
10 minutiIn cammino per la libertà. Diario dal 25 luglio 1943 alla Liberazione
8 settembre 1943
Ricorre oggi la festa della Madonna; prima della guerra la festeggiavamo al Santuario di Vicoforte, nella villa dei nonni Crosetti, Margherita e "Cichin", presso Fiamenga. Un tempo ormai lontano, era ospite durante l'estate anche "nonnetta" (Celestina Musso in Beltrandi, bisnonna materna).  Con loro noi bambini trascorrevamo una lunga villeggiatura, da fine giugno a settembre inoltrato, nel verde delle colline Monregalesi.Per questo anniversario giungevano da Mondovì i parenti Beltrandi: i prozii Sandro e Rico con la moglie Tommasina, ed i cugini Tina, Enzo e Mario, e, da Milano, zio Giovanni con zia Nini e la figlia Tinuccia. Era un incontro gioioso per tutti; noi ragazzi, in sette, pranzavamo sotto il lungo pergolato di vite americana e cenavamo insieme nell'austera camera da pranzo, alternandoci così con i "grandi". Seguivano giornate piene d'allegria, che rinsaldavano i vincoli familiari, già molto sentiti nel "clan", anche per la presenza straordinaria di "nonnetta", ineffabile e dolcissima personalità, che era l'anima degli affetti. Oggi invece siamo dispersi, e io non so quasi nulla, neppure dei miei fratelli.
◊  ◊  ◊
Nel pomeriggio la radio trasmette la notizia dell'armistizio ed il proclama del Maresciallo Badoglio, già Capo di Stato Maggiore, e dal 26 luglio Capo del governo. Ovunque è esultanza, commozione e grande agitazione, i soldati poi manifestano la loro gioia rumorosamente insieme alla popolazione, trascinando nella spensieratezza anche alcuni giovanissimi soldati germanici. Io invece sento una grande angoscia. Sono rattristato da oscuri presentimenti. Dico a Vittorina che il peggio sta per cominciare. Trascorriamo poche ore di sonno agitato e alle cinque del mattino la devo salutare, tentando di rassicurarla, dicendole che uscirò in ricognizione come al solito. Giunto allo squadrone mi rendo conto che i preparativi sono per una partenza totale; gli unici ordini riguardano l'occupazione di nuove posizioni. Mando l'attendente ad avvisare mia moglie: se non tornerò dovrà rifugiarsi a Roma dai Cuniberti, ai quali darò notizie appena possibile. Intanto si sente tuonare il cannone verso Manziana e poco dopo ci arriva l'eco di un notevole boato. Giungono notizie sui primi scontri con i tedeschi: un plotone di nostri semoventi, al comando del Ten. Fiore, ha fermato i panzer germanici, colpendone due; a Monterosi un giovane Ufficiale del Genio ha bloccato il nemico, facendo saltare un carico di esplosivi e sacrificando la propria vita per mantenere fede alla consegna ricevuta. A sera un nuovo ordine ci mette in marcia verso Tivoli. Sono preoccupatissimo per mia moglie, ora capisco che non potrò tornare ad Anguillara, neppure con un "salto" in motocicletta, perché i plotoni servizi ci hanno raggiunto a sgombero ultimato. Mentre cresce la mia angoscia con il rimorso di averla lasciata sola ed esposta al pericolo, un ordine di movimento mi inchioda al mio posto di comando poiché la marcia riprende velocemente. Percorriamo strade polverose, ad un bivio, un Colonnello, che porta l'aquila da generale sulla bustina, dirige personalmente il servizio di pochi movieri: mi colpisce quella alta e distinta figura nella sua impeccabile uniforme, il pallore del suo volto e l'espressione del suo sguardo mentre risponde al mio saluto. Proseguiamo nel polverone e nel sole; una "cicogna"³ tedesca ci sorvola, nessuno se ne cura, nessuno ordina di sparare. Chissà dove sarà ora il nostro squadrone contraereo e il mio fraterno compagno Guido Cesaretti. Non ricordo da quante ore non si mangia, ci dissetiamo spesso grazie a numerose fontane, alle quali i motociclisti si affrettano a riempire un'infinità di borracce. I lancieri sono disciplinati, consapevoli della gravità della situazione. La famiglia del Reggimento già plasmata dal Col. Fenulli, è veramente rimasta salda; ogni regione d'Italia vi è rappresentata, in maggior numero sono emiliani e sardi, riflettendo ciascuno le spiccate caratteristiche della propria origine. Si succedono notizie frammentarie e discordanti: i tedeschi hanno cercato ancora di forzare gli sbarramenti a Monterosi, Bracciano e Manziana, per puntare su Roma; i Semoventi del Reggimento Cavalleggeri di Lucca li hanno impegnati duramente. Si sente l'eco sorda di bombardamenti aerei, non sappiamo se germanici oppure alleati. Dalla torretta del mio carro armato, rivolgo una preghiera a Dio perché salvi Vittorina e assista i nostri commilitoni nell'impari lotta.
 
Mancata cattura del Colonnello Raby
L'alba del 1O settembre ci trova dislocati presso Bagni di Tivoli, a cavallo della rotabile Tiburtina; il mio plotone carri è schierato nel raggio di cinquecento metri, in condizione di controllare la strada e di reagire sui fianchi. Siamo mimetizzati tra pergolati e filari di vite della quale gustiamo senza complimenti un'uva deliziosa. In una locanda vicina è sistemato il Comando Reggimento, collegato tramite le radio di due dei miei carri con il Comando di Brigata (Gen. Fenulli) che si trova a Tivoli, e con i Comandi dei Gruppi Squadroni dipendenti, in posizione nei dintorni. Mentre sto curando i collegamenti, il lanciere Esposito mi si presenta agitatissimo, dicendo che hanno fatto prigioniero il comandante. Lo seguo di corsa e vedo un gruppetto di paracadutisti germanici presso la fontana. Alla curva, poco lontano, è fermo un loro autocarro, davanti al quale, sul bordo della strada, hanno piazzato una mitragliatrice. Nel gruppo presso la fontanella individuo il mio Comandante che urla e si divincola. Noto che è in maniche di camicia e sento che si rifiuta concitatamente di consegnare la pistola 6,35, che porta alla cintura dei pantaloni: «Quest'arma mi ha accompagnato e difeso in tre guerre, anche in Africa, e non la cedo! Voi non avete alcun diritto, avete infranto una tregua concordata dalle autorità superiori!». L'Ufficiale dei paracadutisti, giovane e distinto, appare visibilmente perplesso.  Forse è colpito dal rifiuto di un così coraggioso interlocutore che si oppone da solo ai loro mitra. Non perdo tempo. Chiamo uno dei fratelli Brenci (sono di Bolzano e conoscono il tedesco). Gli spiego in fretta: «Presentati con molta forma all'Ufficiale. Informalo che si trovano sotto il tiro di due carri armati. Che deve rilasciare subito il prigioniero. Chiamalo solo: "prigioniero". Non indicare assolutamente il grado!». Infatti spero che lo ritengano un Maresciallo, per l'età, per l'assenza di gradi sulla camicia, per le bretelle, per i calzoni grigioverdi privi delle "bande nere"⁴. Antonio Brenci si avvicina con passo marziale, saluta con energia e ripete in tedesco, ad alta voce, quanto gli ho detto. Provvidenzialmente, timoroso di qualche colpo di mano ostile, di nascosto nella notte precedente avevo fatto avvicinare al Comando due dei miei carri armati. Ora, in fretta risalgo in torretta. Ordino di accendere il motore anche all'altro carro. Muoviamo insieme per pochi metri, nascosti nella vegetazione. Quanto basta perché i cannoni escano minacciosi dalla copertura mimetica. L'Ufficiale tedesco risponde meccanicamente al saluto del Brenci. Si ritira con i suoi uomini verso la curva. Il Col. Raby, vistosi libero, con sorprendente agilità salta la siepe e rientra nella locanda. Avanzo col carro facendo intimare dal mio messo l'ordine di rientrare nelle loro linee. Al contrario, i paracadutisti si schierano prendendo posizione a terra. Grido al Brenci di ripetere l'ordine aggiungendo che la tregua ci vieta di sparare. Ma non desistono. Richiamo indietro l'inviato. Procedo lentamente col mio carro armato verso di loro.  Dall'interno della torretta noto che si spostano rinculando lentamente. Il cingolo destro schiaccia la loro mitragliatrice al suolo. Nel frattempo ho ordinato all'altro carro di danneggiare il loro autocarro, sospingendolo contro il muro. Solo allora i paracadutisti ripiegano velocemente. Come convenuto dagli ordini superiori non si è sparato un colpo. Ma i tedeschi, maledicendoci, si ritirano per una lunga e salutare marcia a piedi. Più tardi, il Comandante ricompare in perfetta uniforme e mi dice: «Grazie! L'ho passata bella! Certo non mi avevano individuato, ma con questo caldo infernale avevo proprio bisogno di rinfrescarmi!».
◊  ◊  ◊
Ritiratomi nella mia tenda, la momentanea euforia per lo smacco inflitto alla tracotanza nemica lascia presto il posto ad amare considerazioni: viviamo un periodo altamente critico, drammatico per tutti; non ho notizie di Vittorina e gli avvenimenti ci trascinano verso eventi imprevedibili. Il proclama del Maresciallo Badoglio mi sembra una dichiarazione diplomatica che risolva ben poco della nuova situazione: non ci sono o non vengono applicati "piani" alternativi, mentre i tedeschi conoscono, forse da mesi, i propri compiti. Lo si capisce constatando amaramente le misure messe subito in atto, che consentono loro di prendere l'iniziativa, ad iniziare dall'occupazione dei nodi delle comunicazioni più importanti. La nostra Divisione corazzata, la nuova Ariete, regge egregiamente e contrasta ove necessario per mantenere la sua libertà d'azione, ma, nel volgere di pochi giorni, constatiamo che non ci è possibile risolvere la situazione neppure localmente... A meno che Cadorna non ignori gli ordini "fumosi" e ci ordini di attaccare in massa. Ci vorrebbero però intese precise con gli Alleati e la loro cooperazione, almeno aerea; ma i contatti mancano del tutto. Ci troviamo di fronte ad una scelta di fondo più semplice per me, come per tutti noi della Divisione di Cavalleria, perché tutti i nostri superiori sono al loro posto. Non è così per gli altri militari, inquadrati da Comandanti meno provveduti. Le decine di sbandati che transitano ormai da molte ore ai nostri posti di blocco, narrano di ordini contraddittori o inesistenti, di abbandono gerarchico, della mancanza di alcuna guida, per cui non vedono altro scampo che raggiungere le proprie case dalle quali mancano da troppo tempo. L'abitudine pedissequa all'esecuzione assoluta e spesso passiva degli ordini e la diseducazione a qualunque iniziativa personale, che hanno impedito per venti anni ogni manifestazione di idee originali, non in linea con i programmi del "regime", pare abbiano paralizzato la mente della maggioranza.