Autore
Castrenze ChimentoAnno
2009 -2011Luogo
Palermo/provinciaTempo di lettura
6 minutiL'odissea della mia vita
Non so perché mio Padre mi ha las[c]iato, se questa è stata una sua decisione o una scusa per allontanarmi da lui. Eravamo in estate e un giorno mi disse: “Siedi, Cristannzzo, io ti voglio bene!” e incominciò a baciarmi, tenendomi stretto forte forte al suo petto, “Devi andare ad Alia per vedere se puoi trovare del pane, e se vuoi potrai ritornare domani”. Solo e scalzo, partii per Alia, ma non pensavo che mio padre avesse deciso di abbandonarmi al mio destino! Partii di corsa per ritornare presto e, arrivato in paese, chiesi del pane. Trovai un benefattore che me ne diede un po’ e di corsa ritornai da mio padre. Arrivato sul posto dove ci eravamo lasciati, incomincia a chiamarlo con voce sottile, dicendo: “Dove sei? perché ti nascondi? Fatti vedere!” Non vedevo nessuno, tranne alberi e pietre! Le ore passavano senza vedere mio padre e senza sentire la sua voce, più passava il tempo, più alzavo la voce, ma più si stringeva il mio cuore, più forte urlavo, dicendogli: “Fatti vedere!”. Ritorna ad Alia, a casa, ma non li c’era. Ritornai in contrada “Vacco”, piangendo e lamentandomi; il mio cuore era spezzato per la rabbia e il dolore! Se fece sera ed io mi sentii solo ed indifeso, in compagnia delle stelle e del buio. Vicino la trazzera del mio paesano Buscaino c’era un pagliaio e vi entrai per trascorrere la notte. Ma coricai sulla paglia per dormire, ma in piena notte sentii che qualcuno entrava nel pagliaio. Mi feci sentire, pensando che fosse il padrone del pagliaio, invece mi sbagliai, perché quando sentii la voce, capii che era Vincenzo, il figlio del signor Salvatore Ganci. La sua presenza un po’ mi rincuorò, perché avrei trascorso la notte in sua compagnia: era come se fosse venuto a trovarmi mio padre. Devo dire che Vincenzo aveva avuto la mia stessa sorte, con la differenza che i suoi genitori lo avevano portato in casa di rieducazione, da dove era scappato. Ecco perché quella notte ci siamo incontrati. Circavamo le stesse cose, avevamo lo stesso sentimento e provavamo le stesse emozione. Abbiamo trascorso alcuni giorni insieme vagando per le campagne. Ci nutrivamo di fichi, uva, ma[n]dorli e ci dessetavamo con l’acqua dei pozzi. Un giorno, Vincenzo ritornò dai suoi genitori, che abitavano nella casa dove nella notte mi era apparso l’asino.
Ricordo che erano venuti mio fratello Pietro con Salvatore Talamo, fratello di mia cogniata Lucia, moglie di mio fratello Ciro, morto in guerra. Il giorno dopo, mio fratello mi dà dieci lire per fare la spesa ad Alia e quanto sono ritornato, abbiamo cenato come meglio si poteva, come una grande famiglia. La gioia di stare insieme si è trasformata in delusione, perché la mattina seguente, all’alba, siamo stati svegliati dai carabinieri che avevano i moschetti puntati su di noi. Fu perquisito ogni angolo della casa, perché pensavano di trovare armi da guerra. Non trovando nulla, i carabinieri misero le manette a Salvatore Talamo e Pietro Chimento. Devo precisare che i carabinieri furono ma[n]dati da mio zio Ciro Chimento e dal suo compagno di lavoro Armenio. Entrambi erano campestri con il compito di tutelare le campagnie private di Alia. Il brigadiere B., finita la perquisizione, si rivolge a mio zio Ciro dicendo: “Possiamo?” “No” risponde mio zio, “dobbiamo portare anche Castrenze Chimento, fratello di Pietro”, “Perché io!”, risposi. “Tu sei quello che ci hai indicato la strada per venire in questo luogo. Ieri sera [sei] venuto a fare la spesa, perciò ti portiamo in caserma e ci dici tutto quello che non sappiamo”. Il brigadiere B. e gli altri carabinieri mi danno dei biscotti e delle caramelle per addolcire il mio carattere di bambino e in colonna per tre ci mettiamo in cammino. Quel giorno siamo arrivati ad Alia verso le dieci di mattina, Entrati nel paese ho visto lo spettacolo che tutte le persone ci osservavano stupite come per dire “siete ladri!”. Ma ladri di cosa? se non di fame e disperazione, perché ero stato abbandonato dai miei genitori e siamo una famiglia di sbandati, come pecore senza pastore! Comincia adesso il dolore fisico di mio fratello Pietro e di Salvatore Talamo, perché i carabinieri avevano il privilegio e la libertà di usare ogni tipo di tortura, perché questo era il fascismo. Usavano la frusta, l’olio di ricino, il sale: queste purghe facevano terrore allora e lo fanno ancora oggi. Sono entrato in caserma come ostaggio, per farmi dire ciò che non era vero e i carabinieri ci sono riusciti, perché per farmi spaventare, subito mi hanno messo in cella di isolamento. Ero confuso e piangevo perché pensavo a mio padre, a mia madre, ai miei fratelli e sorelle che erano disperazzati, affamati e senza amore dei genitori. Dopo una notte di isolamento, la cella viene aperta ed entra un carabiniere e mi dice: “Vieni, fammi compagnia. Hai fame? Avvicinati, cosi ti do da mangiare”. Mentre mangiavo, sentivo mio fratello e Salvatore che urlavano per il dolore delle torture. Ma il bello deve ancora iniziare perché mi fanno vedere mio fratello legato su una lettiga con un imbuto accanto. Appena mi vedi, mio fratello mi chiede: “Diglielo tu che non abbiamo armi da guerra”. Io, spaventato, risposi: “Si l’avete, perché le avete nascoste!” Ancora oggi [mi] sento colpevole, perché li ho condannati alla tortura. Voglia Dio perdonarmi, perché loro, oggi, non ci son più per colpa mia sono stati condannati scontando la pena sia nel carcere di Alia sia in quello di Termini Imerese. Oggi che sto scrivendo tutta la storia della mia vita ho pensato come chiedere perdono a mio fratello e a Salvatore, perché sono stato io il torturatore e li ho accusati di cose che non c’erano e che non avevano. Sono certo che voi mi vedete come io vi vedo e per questo chiedo la vostra benevolenza per far si che sorga la luce dalle tenebre, quella della trasparenza di questo pianeta Terra. Sono certo che gli uomini di cultura capiranno il mio pensiero e il significato del mio animo e sentimento.