Autore
Castrenze ChimentoAnno
2009 -2011Luogo
Palermo/provinciaTempo di lettura
8 minutiL'odissea della mia vita
Per non sminuire la figura di mio padre, devo anche dire che anche lui era alto, bello, aveva i capelli castani e portava i baffi, però era analfabeta. Questo era mio padre ed anche mia madre era analfabeta. Cosi vedo quest’uomo mettere la mano in tasca, prendere venti lire e metterle nelle mano del neonato Giuseppe. Dopo circa una settemana mia madre ci ha lasciati per andarsene con il suo uomo, ma lo strazio ed il pianto del mio cuore erano indescrivibili. Mio padre, allora, mi prende per mano e mi porta lontano in una campagna che si trova in contrada “Bosco”, lontana dal paese circa 5/6 chilometri. Li c’era una donna gentile e buona d’animo, viveva da sola perché era vedova. Ricordo che si chiamava Lilla ed io la chiamavo zia Lilla, perché conosceva l’odissea dei miei genitori e ci voleva bene. La donna ci diede la chiave della sua casetta di campagnia, pane e pasta per mangiare diversi giorni. Io mi sentivo solo senza la mamma e mio padre quando vedeva le mie lacrime mi prendeva in braccio e mi baciava, stringendomi forte al suo petto. Il dolore, però, era grande come lo è in questo momento che scrivo. Guardavo mio padre e vedevo che anche lui piangeva come per dirmi “io ho lo stesso destino”. Certo faceva finta di sorridere, ma voltava il viso e piangeva, perché sono certo che il suo pensiero era verso gli altri figli che non poteva accudire: questo era la sua responsabilità ed il suo tormento di padre.
Trascorsi circa quattro giorni, arrivò la zia Lilla a cavallo della sua asina di colore nero. Vestiva di nero anche perché piangeva suo figlio Luigi che era disperso in Russia e non sapeva se era morto o vivo. Ma lei affermava nel suo cuore sentiva che il figlio era vivo ed era vero, perché finita la guerra suo figlio Luigi ritornò a casa. Una sera siamo stati invitati a cena a casa del Signor Cortese, confinante della zia Lilla. Ricordo che per avere la luce accendevamo la candela con il moccio assorbito d’olio. Ricordo anche che era estate e preci[s]amente il mese di settembre e quella stessa notte il Signor Cortese per mangiare la carne aveva preparato delle trappole per i conigli. Il suo orto era coltivato a vigneto e nel centro c’era un pozzo e sara stata sicuramente la mezzanotte di quella maledetta notte, perché il ricordo è ancora vivo come io sono in questo momento, perché il Dio vivente mi ha conser[v]ato per testimoniare che Dio c’è così come ci sono io. Era una notte buia senza luna. Si vedevano solo le stelle e si sentivano le cicale frinire sugli alberi. Questo canto sembrava il canto di un’armonia celestiale per darmi forza per il miracolo della vita su questo pianeta Terra, perché, come credo e vedo, esistono dei pianeti abitati dove non ci sono guerre, ma solo pace e serenità. Quella notte di settembre del 1941 o 42 o 43 è un ricordo buio perché le tenebre hanno avvolto la mia infanzia, poiché sono entrato in coma per lo spavento. Stavo entrando nella casetta, quando con il piede sinistro ho schiacciato un serpente che si trova nelle nostre contrade di campagnia e, poiché ero scalzo il serpente mi diede un morso. Mi spaventai e ricordo che quando mi svegliai ero all’Ospedale dei bambini di Palermo. Quando mi sono svegliato è stato come se avessi dormito per tutta la notte, ma con una differenza che ero corcato su un letto che aveva le sbarre su tutti i lati. Chiesi di mio padre e piangevo come si mi scoppiasse il cuore, I medici, gli infermieri e la suora del riparto mi dicevano di stare buono, perché mia madre sarebbe venuta per portarmi a casa. Certo non capivo quello che mi era successo, solo mi accorsi di non avere più i capelli; per lo spavento il mio corpo aveva subito un trauma cosi forte che, mi hanno detto, rovesciavo tempesta e veleno, puzzavo come se fosse carne morta e nessuno poteva starmi vicino. La mia degenza in ospedale è stata lunga tre mesi e in tutto questo periodo non ho visto nessuno della mia famiglia, solo medici ed infermieri. Non sono mai sceso al letto, perché non avevo le forze, infatti, non andavo nemmeno in bagno, In ospedale si soffriva la fame: ogni mattina mi davano un po’ di latte e a pranzo si e no dieci fave. I medici erano convinti che avesse la malaria o il tifo e mi curavano per questi malattie. In ospedale c’era un mio paisano, il dottor Pitrozzella, allora giovane, e ricordo che quando doveva farmi l’iniezione la sua mano tremava e mi guardava e mi diceva di stare tranquillo, perché sarebbe venuta mia madre. Purtroppo, mia madre non l’ho mai vista! Forse lei si era dimenticata di avermi partorito e non ero più nei suoi pensieri, mentre io ogni stante e ogno minuto della mia vita la chiamavo. Penso che il pensiero e l’attenzione di mia madre fosse rivolta al suo uomo e, quindi, si era dimenticata di avere un figlio ricoverato in ospedale. Penso anche a mio padre che mi ha lasciato in quella casa solo e in coma.
Quale è stata la sua reazione quando non ho risposto al suo richiamo? Forse si è scoraggiato, si è confuso, ha pianto! Fatto sta che dalla contrada “Bosco” sono stato portato da mia zia Giuseppina, sorella di mio padre e, dopo diversi richiami, penso che mia madre sia dovuta venire per portarmi in ospedale. Questo è quanto mi racconta mio fratello Angelo. Devo, anche, dire che recarsi a Palermo era molto difficele, perché come mezzo di trasporto c’era un camion sul quale si viaggiava stretti e non ci si poteva sedere. Il viaggio era, inoltre, lungo perché si partiva da Alia e si prendevano passeggieri sia a Roccapalumba sia a Termini Imerese. Dopo tre mesi d’ospedale feci ritorno ad Alia. Ricordo che quel giorno faceva freddo e pioveva. Io indossavo un pantaloncino corto, una giacca lunga militare ed ero scalzo. Spesso lungo la strada vedevo dei camion di militari americani che ci superavano e ci salutavano, anche perché con me e mia madre c’era mia cognata Lucia, che era una bella ragazza. Ricordo che mia madre mi aveva dato un chilo di pane di frumento che aveva preparato lei e cotto nel forno a legna. Ero così affamato che non faccevo cadere una briciola a terra! Ma non è finita la mia odissea, perché mia madre il giorno dopo mi ha lasciato per ritornare dal suo uomo. Mi ha lasciato nudo e crudo nella sofferenza e nel dolore della mia crescita senza Dio né regno, disprezzato da chi non aveva diritto della mia vita. Quante volte sono stato bastonato e disprezzato da persone che non avevano scrupoli di coscienza, venduto come schiavo! Questo accadeva perché quando dicevano di [chi] ero figlio e chi erano i miei genitori allora si prendevano la libertà di farsi padroni e farmi lavorare come garzone scalzo e nudo.