Autore
Claudio LucianoAnno
1996Luogo
Roma/provincia; RovigoTempo di lettura
6 minutiPensieri a pedali
22 agosto, giovedì
C'è un breve ma intenso epilogo alla giornata appena trascorsa. Sulla strada del ritorno dirottiamo verso Tortona e da lì a Castellanìa, il paese dove Coppi è nato e dove riposa in un piccolo sacrario accanto al fratello Serse. Il borgo, arroccato su un colle del Monferrato, non manifesta segni di presenza umana. Poche case, nessun negozio o locale pubblico, solo l'insegna dell'abitato e un cartello giallo dove si ricordano i natali del grande ciclista. Non c'è un'anima in giro, nuvole basse e pioggia conferiscono al luogo un'atmosfera irreale. Il conducente di un bus in attesa di iniziare la propria corsa, ci indica pochi metri più in là il luogo dove sorgono le due tombe. Su un piccolo spiazzo pavimentato che si raggiunge dopo una breve scalinata, le vediamo: a sinistra Fausto, a destra Serse, nel mezzo un busto bronzeo di Fausto. Poco più discosto un minuscolo museo dove dall'esterno si intravede una bicicletta, probabilmente una delle prime su cui "il grande airone" iniziò ad aprire le sue ali. Alle pareti un gran numero di maglie di ciclisti, consacrati e non alla storia della disciplina, ma tutti ugualmente accomunati dal rispetto e da una sorta di laica venerazione per colui che più di altri ha contribuito a rendere epico il faticoso andare in bicicletta su strade e montagne. li segno più toccante di questo culto alla memoria che persiste negli anni, possiamo coglierlo da uno sguardo alla base della tomba di Fausto. Allineati, alcuni pezzi di roccia con piccole placche metalliche infisse e su cui si leggono parole di ammirato e struggente ricordo. Ognuno di questi singolari omaggi minerali proviene da quei passi alpini e pirenaici che lo videro, ingobbito e regale, attraversarli e superare. C'è una forte emozione che ci prende nell'essere lì e che avvertiamo pur senza che nessuno di noi riesca a darle espressione. Ci allontaniamo. Le nostre voci isolate, il rumore dei passi e della pioggia che continua a cadere, la nebbia che avvolge le case, tutto concorre a insinuare il pensiero che il paese viva unicamente di questa presenza silenziosa che lo pervade e sovrasta. Sento che questa mia frazione di vita non poteva che trovare qui la sua conclusione più congrua, al termine di questo lungo, travagliato e solitario inseguimento di un sogno. Non so se l'ambizione maggiore che ha suggerito e guidato queste pagine risieda nel pretesto da cui hanno preso le mosse, la "lunga marcia" da Cuneo a Pinerolo, o nell'intento mai del tutto reso esplicito ma che spesso mi ha preso la mano, di fare del ciclismo e del mio praticarlo una specie di metafora totale e, con minore premeditazione, anche un espediente letterario. L'irrimuovibile bisogno di rappresentare, di descrivere il mondo che ci appare, coincide con quello di offrire un segno di noi che ci sveli e nel contempo apra dei varchi ad una rinnovata possibilità di contatto e comunicazione. Tuttavia, in questo operare, il modo e gli strumenti che ci diamo non sono indifferenti e ci dovrebbe essere un obbligo a portare loro rispetto, garantendone una credibilità non fittizia.
La forma dell'annotazione periodica, quasi quotidiana, è quella che avevo individuato come la più rispondente a raccogliere quanto venivo facendo e a da e conto. Il pedalare è un movimento elementare, scarno, risolto in sé, ma quello che può generare, facendolo risalire dai muscoli alla mente, è qualcosa di più complesso. Così lo sforzo è stato quello di riuscire a restituire in tempo reale, senza elaborazioni eccessive, quegli scorci di interiorità che riuscivano a trovare luce, sempre nella consapevolezza che la rincorsa all'autentico può facilmente rovesciarsi nel suo contrario. C'è stato però un modello, un punto di riferimento che ho cercato seppure maldestramente di tenere a guida, provando a trasporre su foglio uno stile operante per fotogrammi. Quello che in Robert Bresson ho infatti sempre trovato mirabile e preziosamente raro, più ancora della qualità finale delle sue opere, è l'idea radicale di spingere fino alle conseguenze estreme sul piano stilistico e della scrittura visiva, il tentativo di raccordare coerentemente un punto di vista sul mondo, su Dio, sull'uomo e sui loro impenetrabili rapporti, con una forma di espressione artistica peraltro così pesantemente piegata alle esigenze di un'enfasi teatralizzante come il cinema. La sua scelta è stata quella di concentrarsi invece sui gesti, sui rumori, sugli sguardi, su tutto ciò che meglio si sottrae al protagonismo dell'interpretazione e della scena. Perché è negli interstizi del reale, nelle pause della vita che qualcosa può accadere e mostrarsi, negli spazi dove la volontà e la ragione cedono agli automatismi inconsapevoli e la parola si fa smarrimento silenzioso. Il mio andare in bicicletta, con proprie e approssimative modalità, cerca un accostamento assai ardito con quel rigore espressivo; nell'estenuazione di un corpo in uno li spazio insegue una libertà compressa dal sovrabbondante che soffoca le nostre vite, dall'insieme dei comportamenti e dei linguaggi che si contendono nel chiasso l'ultima parola sulle ragioni dell'esistere. Può anche darsi che sotto tutto questo si sottenda un'attesa metafisica che altrove ha trovato e trova più degna e compiuta formulazione, ma di certo e più modestamente, permette a me di dare consistenza ad un sentimento del mondo, ad un bisogno così ricorrentemente frustrato di sobrietà e immediatezza. E' il mio personale "non ci sto" che ha perso da tempo la facoltà di arsi parola pubblica e non ha trovato altra via che quella, rischiosamente velleitaria e un po' presuntuosa, di salire strade già percorse, magari con ben altre speranze, da grandi aironi che hanno ormai chiuso le loro ali e da altri che ora le spiegano.