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Autore

Claudio Luciano

Anno

1996

Luogo

Roma/provincia; Rovigo

Tempo di lettura

6 minuti

Pensieri a pedali

Vado in bicicletta per salvaguardare la mia libertà di espressione, per consentire al mio spirito accidioso di dare segni della propria presenza in un corpo chino su un manubrio, in due gambe mulinanti, in un viso piegato dallo sforzo e su cui mi immagino passare il tanto o il poco che di questa vita, la mia, vorrei testimoniare.

C'è un crampo del pensiero, una stasi che trattiene ogni giudizio, ogni parola che dica del mondo e dei modi del nostro abitarlo. C'è questo e la fragile ideuzza che una possibilità residua per sottrarsi a questo autismo incalzante possa risiedere in gesti in grado di risarcire la parola della sua smarrita facoltà di alludere a un senso. Vado in bicicletta per salvaguardare la mia libertà di espressione, per consentire al mio spirito accidioso di dare segni della propria presenza in un corpo chino su un manubrio, in due gambe mulinanti, in un viso piegato dallo sforzo e su cui mi immagino passare il tanto o il poco che di questa vita, la mia, vorrei testimoniare. Ci si può affidare a molte cose per attraversare l'esistenza con un'aria un po' meno attonita e instupidita di quella che ci è consegnata dalla nostra incerta natura, carica di una comicità involontaria tutta inscritta nelle mille posture del quotidiano, tanto più goffe quanto più volitive e tese a insinuare· il tarlo della sicurezza che controlla e si aggiudica il mondo avvalendosi di protesi luccicanti: potere, successo, aggressività, denaro, .... Per me le cose si sono disposte in modo tale che nel corso di questi anni, dopo aver perso per strada il mio raffazzonatissimo armamentario ideologico-culturale, disseminandolo lungo un percorso popolato di dispute politiche e dottrinali, proselitismo intellettuale, smaniosità pseudo-artistiche, aspirazioni un po' velleitarie a comunioni eroticospirituali, mi sono ritrovato solo, con un corpo in movimento guidato dai sensi, dalla curiosità di guardare e non molto di più credo. Nonostante ciò ho cercato di mantenere un'accettabile dose di attenzione verso il minaccioso affacciarsi di una metafisica del corpo, verso la ricorrente tentazione di una retorica della fisicità, quella specie di vitalismo para-hemingwaiano così funzionale come mito deteriore a più di una generazione. Perché un corpo messo alla prova non salva e non riscatta da fallimenti pregressi, descrive con minori paludamenti, spero, lo stato del nostro esistere, fiacca la presunzione di dare sistemazione al caos, ci riconsegna alla percezione dei nostri limiti. Ciò che si acquista non è niente di più che disciplina e stile. Sono qui e tutto quello che posso fare è andare, accettando il lungo snodarsi di una strada e delle sue capricciose altimetrie come le imprevedibili manifestazioni della meteorologia, con paziente tenacia, senza protervia, senza fretta. Se potessi alleggerirmi dall'uso della parola, dal ricorrervi comunque inevitabile, proverei a concentrarmi nel mettere assieme una sequenza di volti. Già, chissà se i ciclisti sono consapevoli dei loro volti? Il ciclismo a volte sembra poter dare espressione a significati che trascendono i suoi protagonisti, come un'arte che prendesse per mano i suoi adepti e lì rendesse inconsapevoli artefici di immagini scolpite nel tempo e nella memoria. Fotogrammi in bianco e nero di cinegiornali del dopoguerra, l'Europa che a fatica torna a vivere e quelle carovane di uomini su strade polverose con i tubolari a tracolla; fango e terra sulla faccia in una qualunque Roubaix; Coppi e Bartali sul Galibier e una bottiglia che passa di mano; il corpo inerte di Casartelli e le dita al cielo di Armstrong. Sono attimi che fissano un universo, sono preghiera e grida, rabbia e pena. "Svegli come animali e puliti come sassi", c'è un bisogno inespresso di essenzialità, di radicalizzazione di un modo di essere e una bicicletta non misura solo distanze chilometriche, aiuta a tracciare un solco fra una vita fagocitata dalla moltitudine di cose che ci attorniano e a cui tutto viene delegato e una vita che prova a sottrarsi e si affida al poco che può rendere accorti lo sguardo e il pensiero. Etica ed estetica della sottrazione.

Ho iniziato ad andare in bicicletta come tutti, come molti, per il piacere, per divertimento, magari anche per malcelato spirito di emulazione.

Dunque una via ciclistica all'ascesi, filosofemi da tubolare, o ancora una volta l'ennesimo tentativo di fare della mediocre letteratura, appesantendo con qualche melassa retorica la sobrietà, forse la banalità, contenute da un colpo di pedale? Niente di tutto questo, vorrei. Evitare ogni rischio di magniloquenza non fosse altro per una questione di rigore espressivo, se si acconsente all'idea che ciò che si dice sia in buona parte il come lo si dice. Forma e contenuto, vecchie cose insomma. Se si può indicare un metodo, direi che l'importante è stare ai fatti, riprendere, annotare ciò che accade portando l'occhio su un dettaglio piuttosto che su un altro; adottare per quanto possibile una tecnica documentaristica, non perché non ci sia un'intenzione che guida la descrizione, ma perché ciò che è descritto dovrebbe essere messo in condizioni di mostrarsi da sé, senza premeditazione, senza recita. L'idea è: Robert Bresson al seguito del Tour. Ho iniziato ad andare in bicicletta come tutti, come molti, per il piacere, per divertimento, magari anche per malcelato spirito di emulazione. Poi, un po' alla volta, la cosa ha assunto valenze inaspettate, reagendo forse con una certa idea dello spazio, del movimento, di un corpo in rapporto col mondo esterno. L'andare in bicicletta assecondava il corso e i tempi di scorrimento del mio pensare. Mi sembrava che un mezzo meccanico diventasse il tramite fra il dentro e il fuori, fra l'occhio interno e l'occhio esterno e fra il loro raccordarsi in quel punto in cui sulle cose si riverbera la nostra volontà di rappresentarle. Credo sia per questo che la dimensione agonistica, seppure ce ne fossero state le capacità, non mi ha mai attratto, apparendomi come una forma di degenerazione vile di quello che per me principalmente esprimeva l'andare per strada su due ruote. Per traslazione di esperienze e di significati, la bicicletta era diventata il mio personale luogo del "vero sentire" e non c'era nulla di più antitetico dell'idea di competizione con il suo portato greve di retorica sportiva, rivalità, fama agognata e soldi.