Autore
Claudio LucianoAnno
1996Luogo
Roma/provincia; RovigoTempo di lettura
3 minutiPensieri a pedali
Posso ricondurre tutto questo ad un luogo e ad una data precisi: col du Tourmalet - 29 settembre 1992. Su quella strada, in uno scenario pirenaico di suggestione rara, complici un sole tiepido ed un cielo terso di fine estate, ho avuto la mia illuminazione. Se mi sforzo un po' riesco ad avvertire ancora l'ebbrezza procurata dall'aria fresca respirata a narici e polmoni spalancati, a vedere attorno il verde intenso dei prati, gli animali al pascolo, il succedersi delle rampe e il silenzio scalfito solo a tratti da qualche auto di passaggio. In cima al passo mi ero sentito come trasfigurato, una sensazione di pienezza, di totale aderenza dei miei movimenti alle mie suggestioni, io finalmente restituito a me stesso. Poche volte ho vissuto con una tale intensità. Sono cose che restano e che possono segnare un inizio. Da quel giorno infatti scenari simili si sono riprodotti sullo Stelvio, sul Gavia, sul Grappa, sul Manghen, sul Rolle e su altre asperità meno note. E ogni volta si rinnova anche quello stato generale di acutezza percettiva, una specie di rapimento che ricolloca in un luogo altro mente e corpo, un luogo dai confini non facilmente evidenziabili ma in cui pensiero, muscoli, sangue sono una cosa sola concentrati nel tempo di un'ascesa. C'è qualcosa forse che richiama, più modestamente, le modalità di certe esperienze iniziatiche e che rende la salita un evento difficilmente comunicabile, un percorso da effettuarsi in solitudine. Una solitudine non necessariamente fisica ma che, in quanto espressione di una capacità a stabilire un contatto fecondo con la propria interiorità, rappresenta un passaggio ineliminabile anche per accedere a un'eventuale condivisione con qualche ideale compagno. Tanta cautela è però giustificata soprattutto dal rischio che l'affrontare in gruppo una salita inneschi quei meccanismi competitivi a cui è così facile indulgere e da cui non si è mai sufficientemente immunizzati. Un passo, una cima, non li si conquista, sono loro, forse, ad acquisire noi. Che il salire diventi una ginnastica dello spirito, che inibisca fino a liberarsene ogni pulsione predatoria, persistente retaggio evolutivo e ogni sua versione aggiornata, prima fra tutte l'idea dì conquistare, di annettersi qualunque cosa, compreso, per idiota che possa apparire, un punto nello spazio. Il passaggio cruciale è forse quello che consenta l'abbandono definitivo dell'idea di possesso per quella di appartenenza. Non possiedo il mondo, io appartengo ad esso; non conquisto la natura ma vi entro in relazione. Potersi sentire parte del tutto unicamente mossi da un desiderio di conoscenza e comunicazione. Disarmarsi. Non è solo l'idea di attività sportiva che va rivisitata, è il ben più ambizioso tentativo di rimettere in questione, impresa disperata me ne rendo conto, le premesse del nostro vivere culturalmente assimilate e spesso aprioristicamente accolte, in cui tutto è o vittoria o sconfitta, o successo o fallimento, così tra gli uomini e così tra questi e tutto il vivente. Ecco, quanto mi porto dietro nel mio andare in bicicletta è l'estrema pretesa di testimoniare tutto questo, in uno dei pochi modi che mi consentono di parlare a me stesso e di provare a ristabilire intese meno effimere con gli altri.