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Logo Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Autore

Cino Ghigi

Anno

1972 -1973

Luogo

Forlì Cesena/provincia

Tempo di lettura

6 minuti

Un anno in Estremo Oriente - dal jet alla bicicletta

Ho ritrovato i soliti tipi di sempre in questa tumultuosa parte di mondo, stavolta indonesiani, allegri, vocianti, mal ridotti che logore vesti all’europea non potevano affinare.

SUMATRA (11.19 marzo) .-

Belawan é un modesto punto d'approdo di pescherecci e di gusci come il Rhamat; sarebbe troppo chiamarlo porto di Medan, popolosa città dell’interno che non ha comunicazione col mare, nonostante che vi passi il fiume Dili navigabile ai natanti di piccolo tonnellaggio, nel cui estuario si trova quell’inqualificabile luogo marino-fluviale. Data la precarietà delle forze, frutto di uno non appropriata alimentazione, non ho avuto il coraggio di mettermi in sella, sebbene mi separassero soltanto una ventina di chilometri da Medan. La costa bassa e piatta non mi ha permesso che di vedere grandi piante tropicali oltre a palme e a banani fra cui si addentrava la rotabile diretta al capoluogo, straordinariamente ingombra. Era un ritorno alle malfamare strade indiane che non scorderò mai: gente appiedata, sgangherati automezzi primo fra tutti il mio bus, ciclisti, ricsciò a tre ruote, animali domestici, una baraonda animata che creava esasperanti ingorghi, che si muoveva nel tono più dimesso e disorganizzato. Ho ritrovato i soliti tipi di sempre in questa tumultuosa parte di mondo, stavolta indonesiani, allegri, vocianti, mal ridotti che logore vesti all’europea non potevano affinare.  È bastato che smontassi dalla corriera alla periferia cittadina ed iniziassi le manovre d’aggiustamento della pieghevole, cioè della bicicletta, per adunare una folla di sdaffarati che quasi mi soffocava. Quando accade così durante i miei movimenti, è segno indubbio che sono in un paese sottosviluppato, tanto per usare un termine in voga. Mi son subito diretto alla cattedrale, e qui un frate cappuccino in elegante saio marrone ben stirato, apparso sulla porta, si è poco meno che scandalizzato alla richiesta di ospitalità che non doveva certo darmi gratis. Decisamente non mi ha visto di buon occhio, prescindendo dalle umane regole di asilo, io così trasandato rispetto a lui, perché ho opposto perfino rifiuto a prendermi in consegna il sacco, il che mi avrebbe permesso di andare più spedito alla ricerca di un albergo nella città molto affollata di pomeriggio. Nessuno che non provi, può immaginare quando sia penoso doversi mettere in cammino, nel mio caso riprenderlo, quando si è stanchi spossati, per trovare non dico un letto ma qualcosa di piano su cui sdraiarsi, e per di più in un luogo sconosciuto, dove vigono ignoti usi, del quale non si sa neppure la lingua; nella fattispecie inoltre, essendomi illuso di avere già raggiunta la meta. Non ho potuto fare a meno di dirgli che dove un miserello viene aiutato, lì c’è Dio, com’ebbi modo di dire ai miei frati di Singapore; ma che Egli era essente nella sua casa. Anche a Pnom Penh, anni fa, fui trattato nello stesso modo da parte di missionari francesi a cui mi ero rivolto dopo un turbinoso percorso in moto attraverso le strade cambogiane; non tanto per ragioni di economia, quanto per restare con persone a me più vicine; così credevo. Di malfattori ce n’è tanti che girano, avrà pensato anche quel bellimbusto curiale.

Anche la più insulsa delle nostre canzonette, come quella udita qui, è stata capace di commuovermi perché sono in Sumatra, perché è la voce lontana dei miei e della Patria.

Ho incominciato a spendere rupie indonesiane. Una rupia equivale circa ad una lira e trenta centesimi; con un dollaro qui se ne ottengono 420. Tutto costa meno in Sumatra che nella vicina Malesia, salvo i prodotti stranieri; mi riferisco ai servizi in genere: una camera passabile per averne godute di peggio, l’ho pagata 400 rupie; il bus Belewan-Medan, 100; un caffè anche se non eccellente per un italiano, 20; una cena tanto per riempire lo stomaco, 275; e così di seguito. Anche la più insulsa delle nostre canzonette, come quella udita qui, è stata capace di commuovermi perché sono in Sumatra, perché è la voce lontana dei miei e della Patria. Dopo essermi riposato (11/3), faccio un giro per Medan, poi me ne andrò. Da alcune strade centrali zeppe di negozi che smerciano le più viete cianfrusaglie del mondo, si passa a bei viali fiancheggiati di giardini e di case fatte col legno che hanno magnifici spioventi a mattoni neri; è l’accenno d’una tipica architettura che credo si sviluppi pienamente nell’interno. Tolta una modesta moschea, Sumatra è musulmana in prevalenza, non c’è molto in questo capoluogo situato ai margini di dense foreste. Anziché spingermi fino ad Atieh nell’estremo Nord, dato il tempo assai incerto, preferisco recarmi subito al lago di Toba dalla parte opposta, località turistica si un certo richiamo. Odio attrazioni del genere, ma Toba ed i suoi dintorni così lontani da noi, spero siano accettabili. Mi conduce alla sua principale città rivierasca, Parapat, un estroso autobus, “due passi avanti ed uno in drè” strabocchevole di viaggiatori dentro e di fardelli sul tetto. Anche in queste condizioni il percorso di oltre 150 chilometri sarebbe vario e ricco d’interesse nei riguardi di chiunque non avesse mai veduto le piantagioni dei Paesi caldi inerenti la gomma, l’olio di palma, i “coconut”, gli stessi campi di riso distribuiti a terrazze. Ma si fa per dire; un simile paesaggio è così significatico che non lascia mai indifferente chi lo conosce, se poi ha con se una macchina fotografica. Dopo un tratto pianeggiante si incontrato le alture in mezzo a cui sta la zona lacustre di Toba; vi fanno la loro comparsa gli abeti che non mi aspettavo davvero, una incoerenza. Purtroppo viaggiare come faccio ora trasportato dagli altri, ho poche possibilità di ritrarre ciò che mi passa accanto, innegabile vantaggio che traggo dal mio mezzo che riposa in Singapore. Mi consolo pensando alla pessime strada che avrei dovuto affrontare se l’avessi traferito qui.