Autore
Maria BrunettaAnno
1917Luogo
Pordnone/provinciaTempo di lettura
4 minutiVita vissuta
Ritorno con gioia, il rivedere la mia casa diletta mi apre il cuore; ritorno incurante dei boati cupi del cannone e del rumore della mitraglia. Ritorno. La mia casa è trasformata in un parco automobilistico; dicono che domani sarà un ospedale e posdomani una posizione di difesa per artiglierie. Ritorno: carico su due “charrette” i bagagli del carro, giro un’ultima volta per le stanze; sulla soglia della mia camera mi sento quasi svenire e resto lì, impietrita, istupidita quasi, finchè Carolina (la domestica e mia compagna di viaggio) mi avverte che è buio e che bisogna partire. Mi fò forza, bevo un cordiale presentatomi da un bersagliere ferito, poi fuggo come una disperata, senza più nulla vedere, stringendo le mani amiche che mi vengono offerte. Salgo sopra i bauli, piglio le redini e faccio “Via”. La cavallina si volta a guardarmi ed il suo sguardo ha qualche cosa di così umanamente triste che ma mia angoscia disperata prorompe in un pianto silenzioso. Addio casa adorata, salotti che conoscevate tutti i miei segreti, Madonnina dell’Oratorio che sapevi i miei piccoli, dolori addio camera bianca e verde che fosti testimone di tante fantasie bizzarre, di tante meditazioni, di tanti sogni dolci. Addio crisantemi del giardino, - fiorite, fiorite a dispetto alla malvagità dei tempi sulla tomba dei miei ricordi sacri, dei miei affetti perduti. Passo la piazza del paese. Tutti sono sulle porte e mi salutano commossi. Arrivederci, arrivederci, e mi guardano compiangendomi. Poi le case si perdono nella semioscurità, si dileguano come fantasmi che inutilmente abbiano rincorso e tentato di arrestare il nostro esodo. Soldati sbucano da tutte le parti, saltano vicino a noi, aizzano le cavalline che nitriscono chiamandosi. Con Carolina scambiamo poche, rade parole, coi soldati nessuna... Sono quelli della II a armata e de pure innocenti conservano l’onta della disfatta. Non possiamo subito perdonare. Quando arriviamo a Villacricola è buio profondo, una lucerna illumina la casa dei coloni che si moltiplicano per esserci utili. Arrivano delle nostre parenti pure fuggitive e con loro dividiamo la cena ed il letto.
31-10-17
È l’alba, un’alba triste, fredda. Si riparte. Cedo il mio posto ad Antonia e Paolo, un cuginetto, ed io faccio da battistrada in bicicletta. Incominciamo la Via Crucis con l’anima affranta ed il fisico abbattuto. Passiamo sugli eleganti ponti di Pasiano e Tremeacqua rotti in più punti a causa dei pesanti carriaggi. Poveri ponti, breve fu la vostra vita. La festa della vostra inaugurazione che doveva compiersi fra giorni non si compierà mai più: una mina vi distruggerà. A Oderzo il cammino si fa ancora più difficile ci incolonniamo fra due pesanti trattrici che ci assordano col loro rumore. Con la mia bicicletta m’attacco ora a l’una ora a l’altra delle “charrette” cercando di confortare i miei ancora più avviliti di me. Mi volto, la carrozza delle cugine non si vede più. D’v’è andata a finire?!?... Cerco di ritornare indietro. Una mano ferma il manubrio della mia bicicletta. Un capitano d’artiglieria mi guarda negli occhi, esclama: “Signorina, vi volete far ammazzare” e mi costringe a proseguire. Raggiungo i miei e cerco di consolare Paolo che ha gli occhi lucidi, lucidi. Alle 14 abbiamo passato il ponte di Piave e ci fermiamo a Pagarè. Bruno ha fame, molta fame e non si trova nulla. Io entro per ogni dove inutilmente. Un altro comando è presso il ponte, diretto a mensa; lo seguo e quando vedo i componenti assidersi chiedo loro del pane. Ne hanno poco, ma non importa, ognuno divide con me la sua razione, così che io ritorno serena. Papà intanto è riuscito a trovare della farina e un servo sta facendo la polenta. Alle 15 riprendiamo il viaggio e sull’imbrunire, pesti, stanchi indolenziti arriviamo a Treviso. La mia bicicletta è irriconoscibile e nemmeno tutta la buona volontà di Beppino riesce a migliorare le sue condizioni.