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Dal palcoscenico ai campi di sterminioAutore
Eno MucchiuttiTempo di lettura
10 minutiGiorno della Memoria 2025

Verso il tardo pomeriggio finalmente il treno si fermò in una stazioncina sulla quale campeggiava la scritta MELK++++++ Scesi dal treno solita conta e riconta finalmente salimmo una strada e ci trovammo davanti all' entrata del Campo, entrammo solite baracche una grande piazza appello dove ci radunarono. Tutto il Campo recintato con filo spinato percorso dalla corrente. Arrivarono Capi blocco molti Kapò e ci divisero per blocchi, avevano saputo che c'erano molti italiani chiesero se c'era qualcuno che sapeva cantare io non mi mossi, gli amici mi dissero fatti avanti cosa aspetti? alcuni tentarono ma furono presi a pedate.
[...]
Una sera al ritorno del turno di lavoro dopo l'appello ci bloccarono tutti e le SS incominciarono a perquisirci uno ad uno chi aveva un pezzo di carta addosso erano 25 frustate, fortunatamente quel giorno non ero riuscito ad organizzare (voce rubare del campo) alcun pezzo di carta, venne il turno del mio plotone eravamo come al solito in fila per cinque e mai avrei pensato ai lì a poco di assistere ad una morte così inumana eravamo ritti fermi sull'attenti due robusti SS mi perquisirono e poi passarono al mio vicino un giovane russo e gli trovarono addosso un grande pezzo di carta, pensai subito ora lo bastonano invece lo presero a calci e pugni fino che cadde a terra gridando, io ero lì fermo immobile come una statua e mi dissi ora lo portano via invece con quei pesanti stivali con il tacco di ferro incominciarono a calpestarlo a saltargli addosso con ambi i piedi tenendosi per mano sorridenti il povero russo si lamentava con voce sempre più  fioca invocando la mamma; questo martirio durò una decina di minuti, io pensavo come possono degli esseri umani diventare delle belve e dare la morte ad un povero essere scheletrito e per un pezzo di carta e ridere compiaciuti? il povero russo sfigurato ridotto ad un ammasso sanguinolento era già morto, quando si accorsero che non respirava più si strinsero la mano congratulandosi compiaciuti io avevo le lacrime agli occhi e non potevo far nulla e pensare solo domani può toccare a me. Venne poi il rompete le fila il povero russo lo lasciarono li per esempio. Quella era la vita del lager, il mio animo i miei sentimenti giorno dopo giorno s'inselvatichivano sempre più le morti a cui assistevo ogni giorno non mi toccavano più ero ormai inaridito. Quando il vento spirava verso il basso portando a noi il fumo acre orribile del Krematorium odore di carne umana bruciata pensavo c'è la farò ad uscire per il portone oppure anch'io uscirò da quel camino maledetto che fumava notte e giorno era più impressionante la notte con quel chiarore rossastro che andava verso il ciel oscuro. La vita si faceva giorno dopo giorno più difficile le forze mancavano sempre più la magrezza era spaventosa. La dissenteria era un pericolo mortale e continuo anch'io cominciai a star male e mi rammentai che un ottima medicina era il carbone vegetale però dove trovarlo? Mi venne un idea brillante (nel campo funzionava una macchina a vapore disinfestatrice contro i pidocchi ogni tanto ci ritiravano i vestiti lasciandoci nudi con una coperta per tutta la giornata per fare la disinfestazione, la disinfestazione a vapore distrugge il pidocchio ma non le uova che poi si dischiudono ed eravamo poi come prima) la macchina come detto funzionava a legna così non visto potei organizzare diversi pezzi di legna ormai divenuti carbone e farmi delle grandi mangiate in una settimana ero guarito i tizzoni di legna erano stati la mia salvezza, così mi salvai da morte sicura.
Il freddo ed il lavoro mi avevano portato via i miei amici colonnelli mi era rimasto un gran vuoto avevano lottato cercato di resistere ma aimè l'età poi essere sempre abituati al comando, e senza aver mai fatto lavori manuali gli aveva distrutti. Una mattina non riuscivo ad alzarmi, stavo malissimo, febbre; brividi per tutto il corpo pensai ci siamo ora tocca a me. Avevo il turno di lavoro ed il mio amico Fellner non vedendomi mi venne a cercare nella mi branda e vistomi in quello stato mi fece sostituire per il lavoro e mi fece ricoverare al Revier. Lì incombeva il pericolo Musikant ma quel giorno di turno c'era il dott. Sora medico della LUTFVAFFE che mi parlò in italiano e mi fece passare, mi fecero entrare in una stube puzzolente dove su dei pagliericci stesi a terra stavano dei poveri esseri febbricitanti come mè, con gambe gonfie, flemmoni, ferite purulente fasciature con carta igenica (mancavano fascie e medicine) mi presero i vestiti lasciandomi solo la camicia e per trovare un posto dovetti incunearmi su di un fianco altrimenti non ci stavo; miei vicini erano due fratelli polacchi che ogni tanto allungavano una pedata all'intruso. Chi comandava la stube era un medico italiano un romano scambiai qualche parola e capii subito che non era medico (ma bisognava pure salvarsi la vita). Aveva qualche aspirina cosii potei avere un pò di sollievo. Il mattino bisognava alzarsi prestissimo lavarsi e poi rimettersi al proprio posto certamente lottando. Di buon mattino si presentava uno strano personaggio un ebreo addetto a rilevare quanti erano deceduti la notte. Chiedeva quanti pezzi? I deceduti erano lì stesi a terra allora il suo compito era strappargli il numero che avevano al polso annotarlo su di un libraccio sputargli sul petto e con una matita d'anilina riscrivere il numero, ma non era finita ora bisognava controllare la dentatura se c'era qualche dente d'oro allora lo strappava con una lurida tenaglia tenedo fermo il morto con un piede sul petto, finito il tutto usciva fischiettando. Ogni mese i denti d'oro raccolti venivano mandati a Mauthausen lì penso venivano fusi o finivano in mano ai comandanti o servivano per la vittoria finale. Fortunatamente la febbre cominciò a scendere e stare li senza lavorare mi face va sentirmi meglio, ogni giorno passava la visita dell’SS Musikant che cacciava al lavoro a suon di frustate chi appena si reggeva in piedi. Piano piano io ed il medico italiano diventammo amici certo che aveva un bel coraggio spacciarsi per internista faceva qualche medicazione con il poco che aveva certo che qualcuno è stato aiutato e qualcuno nò sò che dopo la liberazione è stato a Roma un pò discusso ma io non voglio ora fare il suo nome. In una stanza c’era una specie di sala operatoria più che altro un ambulatorio un poco attrezzato qui lavorava un chirurgo greco un uomo eccelso che ha compiuto dei veri miracoli, curava flemmoni, incideva, puliva ferite e veramente ha salvato diverse vite, mi chiamava italiano Mussolini e mi voleva nel suo ambulatorio ad aiutarlo per tenere fermi quei poveretti, lui non aveva anestetici ma compiva ugualmente miracoli. LÌ c'era un fetore di pus, di marcio, fasciati poi con carta igenica io li riportavo nella loro stube qualcuno c’è la faceva, a qualcuno poi sopravveniva la setticemia ed era la fine. Il capo stube mi fece la proposta di fare l'infermiere, aiutare i malati pulire i pavimenti, ritirare il mangiare e distribuirlo un compito ingrato, eppure lo feci con tanta volontà per aiutare quei poveretti che soffrivano. Dovevo pure che non scappassero dalla stube che con gli occhi stravolti nudi scappavano dalla morte che giungeva inesorabile, dovevo il mattino preparare i deceduti per la cerimonia del numero e dei denti, poi dopo ore che stavano lì sul pavimento arrivava il traporto ultimo per il crematorio, se c'era qualche italiano tutti noi italiani presenti ci alzavamo in piedi per un ultimo saluto. Lì avevo conosciuto l'architetto Piagano, l'industriale farmaceutico Roberto Lepetit un amico meraviglioso, poi Nardini, Lavezzari, il Pedrini e tanti altri che non ci sono più. Certo che il mio lavoro era duro aiutare un centinaio di persone in stato pietoso, stare attento che non bevano l'acqua che tenevo in un secchio era acqua infetta de Danubio e questi erano arsi dalla sete con la febbre che avevano e facevano il possibile per eludere la mia vigilanza, bere quell'acqua voleva dire la morte, la notte sentivo che si trascinavano nel buio per avvicinarsi al secchio ma io ero implacabile mi pregavano a mani giunte e debbo dire che non sapevo che fare.
[...]
Un pomeriggio un italiano giovanissimo mi chiamò per nome e mi disse guarda fuori c'è una ambulanza della Croce Rossa sono venuti a prendermi, guardai fuori c'era solo una distesa di neve lo guardai aveva degli strani occhi fissi e capi che delirava divorato dalla febbre, stavo per piangere gli strinsi le mani e gli dissi: aspettiamo ci vorrà un pò di tempo, dovranno firmare dei documenti, mi teneva strette le mani e mi guardava tentando un pallido sorriso, ebbi la forza di dirgli ti porteranno in un bell'ospedale poi guarito andrai a casa; si no grazie di tutto ci vedremo in Italia, certo gli dissi, un attimo dopo non c'era più andai in un angolo dove nessuno mi vedesse e piansi un pianto liberatorio erano mesi che non piangevo, sentivo che con quel pianto dentro di mè era ancora rimasto qualcosa di umano, il Reich non mi aveva ancora distrutto.