Questo sito usa cookie di analytics per raccogliere dati in forma aggregata e cookie di terze parti per migliorare l'esperienza utente.
Leggi l'Informativa Privacy completa.

Logo Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Tratto da

Chiesi a mio nonno: è solo un sogno?

Autore

Gaddo Flego

Tempo di lettura

10 minuti

Decennio 2012-2022

Leggi il mio diario
Nyamata
Sono tutte ferite inferte col machete, tagli netti alle caviglie, ai polsi, spesso anche sul cranio, dove non sono poche le fratture che non riescono a guarire per perdita di sostanza.

Alla fine giungiamo a Nyamata: è una cittadina finalmente abitata, anche se anche qui prevale la sensazione di un cataclisma che si sia abbattuto su di essa. Arriviamo all’orfanotrofio che ci ospiterà per i primi giorni, e veniamo accolti dal logista e dall’infermiera del pool d’urgenza. Li vediamo solo per poche ore, poi ripartono per Byumba. Il logista è vestito come un turista, pantaloni corti, scarponcini, maglietta e un berretto con visiera indossato alla rovescia. E’ decisamente scosso, e la sensazione è che beva troppa birra e parli sempre un po’ sopra le righe. Ci dice che è la fine del suo periodo nel pool d’urgenza, e in effetti sembra avere un gran bisogno di riposo. Al contrario l’infermiera, una ragazza svizzera di lingua italiana, sembra avere trovato il modo di trasformare l’emozione in efficienza, e mi porta a vedere il cosiddetto ospedale, che in effetti è una scuola, dove sono ricoverati i malati. La struttura è una costruzione con all’interno un cortile, le aule si affacciano su di esso. Le aule non sono molto grandi, ognuna di esse ha una lavagna sul muro. In Africa le lavagne si fanno dipingendo una tavola di compensato con una speciale pittura nera opaca, e così sono queste. I pazienti sono su delle stuoie (alcuni non hanno neanche quelle) lungo le pareti. Ognuno di essi ha un pezzo di carta che tiene piegato e che mi mostra quando glielo chiedo: è la cartella clinica. La maggior parte ha delle ferite in via di cicatrizzazione, l’infermiera ha già formato qualcuno a fare le medicazioni e hanno fatto un gran lavoro, le bende sono pulite e danno dignità a questi poveri corpi mutilati. Sono tutte ferite inferte col machete, tagli netti alle caviglie, ai polsi, spesso anche sul cranio, dove non sono poche le fratture che non riescono a guarire per perdita di sostanza. Vedo ragazzi a cui sono stati amputati entrambi i piedi, altri senza una mano e con una profonda ferita sul cranio, che mi mimano il gesto di proteggersi la testa dal colpo di machete, rallentato dall’ostacolo frapposto del braccio e quindi alla fine non fatale. Una donna è stata colpita sul collo e riesce a tenere la testa solo in una strana posizione reclinata. La cosa che colpisce, ora, è che sembrano tutti stare bene, a parte le ferite. In realtà sono i sopravvissuti alla caccia all’uomo, gli sprinteur, che si sono salvati perché ogni giorno hanno corso più forte dei loro aggressori, perché questi ultimi, quando sono riusciti a prenderli, erano esausti e non sono riusciti a finirli, perché sono sopravvissuti alla malaria e alla dissenteria che, nella paludi del Bugesera, in quei sessanta giorni dall’inizio del massacro sembra abbiano concesso una tregua. Il problema principale ora è nutrirli e medicarli con attenzione, e per questo siamo, e ci proponiamo di essere sempre di più attrezzati. Ma ogni giorno successivo arrivano altri pazienti, esausti, sull’orlo dello sfinimento. Giungono i dissenterici, gli anemici, i malnutriti, le ferite infette tenute nel fango delle paludi, da cui questi uomini e queste donne sono emersi come revenant. Hanno vinto, per ora, la gara della sopravvivenza, ma a quale prezzo: sperduti, senza più casa né famiglia, minati nel corpo e nello spirito, hanno lo sguardo della morte. Per giorni vedo la loro vita sfuggire con quel liquido chiaro e rosato che si allarga sotto la stuoia, la dissenteria bacillare, nonostante gli antibiotici, le flebo, le soluzioni per la reidratazione orale. Spesso non riesco a trovare la terapia giusta, chiedo aiuto a Claus perché ci dia l’acqua migliore che può, osservo i minimi cambiamenti per trovare l’antibiotico a cui la Shigella sia ancora, o di nuovo sensibile.

[...]

Mi hanno già raccontato che in quella chiesa, dove gli innocenti si erano accalcato cercando scampo sotto gli occhi del Signore, sono state uccise migliaia di persone (forse 10.000).

Nella mia mente si susseguono mosse precise: si cacciano i Tutsi, i Tutsi si preparano a rientrare e vivono il rientro come la loro missione esistenziale. All’interno del Rwanda aumenta il pregiudizio culturale (molti intellettuali sono coinvolti). Nasce l’FPR che raggiunge un’ottima preparazione militare e occupa quel tanto di territorio che consente l’avvio dei negoziati. Il regime si mostra partecipe del percorso di pace ma, forte dell’appoggio militare francese, coltiva l’idea della soluzione finale, armando e addestrando le milizie interahamwe. Poi…salta l’aereo del presidente del Rwanda di ritorno dai negoziati, viene data la colpa ai tutsi dell’interno del Paese, assimilati ad agenti infiltrati dell’FPR, comincia la pulizia etnica, i bianchi scompaiono, l’FPR entra, arrivano le riserve: l’ufficiale medico, le volontarie. Poiché la guerra è totale, nessun Rwandese, in Rwanda o fuori, può dirsi neutrale. L’ONU si riduce ai minimi termini, il suo comandante sul posto Romeo Dallaire continua a telefonare a New York ottenendo soltanto risposte evasive, gli Usa non vogliono che si dica che si tratta di un genocidio, Mitterrand e suo figlio ne parlano soltanto in qualche stanza segreta dell’Eliseo. Da parte dei bianchi questa volta non c’è distrazione, ma volontà di tacere. Quasi tutti i Paesi sono intervenuti militarmente da poco prima a poco dopo il 7 aprile 1994, data d’inizio della strage, data della transizione, per i tutsi, da una vita pericolosa alla morte certa, con aerei e truppe scelte (gli Italiani con la Folgore), non per arrestare il genocidio (forse a quel punto si poteva ancora parlare di prevenzione) ma per trarre in salvo i bianchi e, in alcuni casi, rwandesi coinvolti a livello almeno politico nella strategia genocidaria. C’è bisogno di un grosso sforzo da parte di chi ci accoglie per non girare il capo dall’altra parte. I nostri riferimenti locali all’inizio sono un prefetto (militare FPR) che ci parla con fredda cortesia e che ci fa capire di avere altro a cui pensare (in fondo la guerra è ancora in corso, si sentono in lontananza i cupi rimbombi dei mortai di Kigali), il suo vice Maurice, ironico e disponibile, anche se con qualche distinguo, col quale riusciamo a stabilire un ottimo rapporto, e un enigmatico personaggio chiamato Doctor B*. Anglofono, alto, perennemente con occhiali da sole e stivali di gomma, è considerato l’autorità sanitaria locale e gestisce in qualche misura l’ospedale e, soprattutto, i viveri del PAM. In qualche modo (credo attraverso le confidenze delle ragazze a Claus) vengo a sapere che non è un medico ma un laboratorista, poi si sparge la voce che è stato visto chino su una delle ragazze nel magazzino, sui sacchi di fagioli, dove era andato per fare l’inventario… Insomma, la sua credibilità col nostro arrivo perde colpi e, prima che la cosa si faccia pericolosa, definisco con lui un accordo. Si occuperà sostanzialmente dell’orfanotrofio (tanto le suore non si fidano di noi) mentre io starò in ospedale. In ogni caso lo terrò informato delle mie attività e condividerò con lui i programmi futuri. Chiediamo al prefetto di darci uno spazio per i nostri magazzini (MSF sta cominciando a far arrivare le cose che abbiamo chiesto) e le dovute garanzie di rispetto di quanto contenuto e, con la mediazione di Maurice, otteniamo tre bellissimi stanzoni proprio di fronte alla prefettura, con ampi accessi esterni chiudibili con lucchetti. Realizziamo un deposito sanitario di medicine e presidi, uno per il cibo e le coperte, uno logistico per i materiali. Siamo di fianco al magazzino dell’FPR, pieno di birre e sigarette. Nyamata sembra essere stata una bella cittadina, punteggiata da numerosi edifici pubblici e religiosi. L’orfanotrofio dove stiamo noi è un po’ in collina, per scendere verso il paese si attraversa un bel prato verde, e si arriva alla chiesa, una vasta costruzione di mattoni rossi con un tetto di lamiera ondulata. La piazza davanti è di terra battuta, ci sono vestiti impolverati, avanzi di falò e spazzatura di vario genere: in mezzo c’è la carcassa di una cassaforte grande come un comodino, aperta chissà come, sventrata. Il saccheggio e l’avidità sono sicuramente aspetti importanti di quello che è avvenuto, ovunque sembra sia passata una furia che un po’ distrugge, un po’ cerca quello che si può trovare di qualche valore. Sembra che il futuro non sia stato tenuto in alcuna considerazione, né l’idea di conservare qualcosa che non fosse immediatamente consumabile o asportabile. Un po’ più a monte c’è un altro edificio, credo che fosse un convento di preti. Una recinzione costeggia la strada che separa questa costruzione dalla chiesa: la rete è coricata sulla strada, i paletti metallici ricurvi come erba bagnata. La folla che era rifugiata lì deve essere fuggita nel terrore verso la chiesa, travolgendo tutti gli ostacoli. Mi hanno già raccontato che in quella chiesa, dove gli innocenti si erano accalcato cercando scampo sotto gli occhi del Signore, sono state uccise migliaia di persone (forse 10.000). Mi avvicino all’entrata con grande timore, quello che abbiamo sempre: la paura che dietro quella porta, in quella stanza o in quel campo ci siano ancora corpi scempiati. Ma la chiesa è vuota: sono rimasti dei vestiti, il rosso ruggine del sangue, un colore diverso, più scuro, delle pareti fino ad altezza d’uomo per tutto il perimetro. La luce disegna dei raggi sottili che passano da piccoli fori sul tetto di lamiera. La gente qui è stata finita all’arma bianca e con le granate. Qualcuno, creduto morto, è sopravvissuto: alcuni sono i pazienti della scuola-ospedale, quelli amputati o con il cranio spaccato. Il crocefisso è appoggiato a un muro. Chi ha ripulito il posto lo ha lasciato.