Se all’inizio eravamo assolutamente i soli stranieri a Nyamata, gradualmente si intensificano i passaggi di altre ONG e, in una certa misura, i nostri obblighi di ospitalità. Nella fase immediatamente precedente l’apertura della missione Rilima abbiamo dovuto accogliere un po’ di personale del CICR, poi Piero della Cooperazione Italiana che è venuto un paio di volte con il figlio, poi un ex militare inglese di Care Australia, poi due medici di Physicians for Human Rights, poi Sentinelles, poi Zoa – Refugee Care, poi OXFAM… la nostra vita familiare non riesce a reggere tutto ciò, tanto più che i profughi che vivono e lavorano con noi spesso vengono trattati come personale di servizio e assillati da continue richieste. Claus decide che bisogna organizzare l’accoglienza e fa montare due tende TRIGANO, da una dozzina di posti l’una, costruire una cucina vicino a casa, che verrà rifornita con i generi di prima necessità, e alcune latrine. Metteremo questa struttura a disposizione di tutti quelli che ne avranno bisogno, garantendo anche l’acqua calda per lavarsi (il giardiniere è sempre più impegnato in questo compito), riservandoci così la possibilità, e non l’obbligo, di ospitare ai pasti o a dormire le persone con le quali abbiamo voglia di condividere qualcosa di più delle necessità di base. Poiché la distribuzione dell’acqua ormai viene effettuata con vari mezzi, gli autisti, che vengono prevalentemente dal Burundi e dall’Uganda, si sistemano in una stanza della maternità, che finiscono di pulire. Ad uno di loro, particolarmente fidato, Claus dà la responsabilità della gestione complessiva e soprattutto del rifornimento in generi di prima necessità anche del “campo di accoglienza”. L’area della maternità ormai è “normalizzata”, gli autisti finiscono l’opera passando un’intera giornata a lavare muri e pavimenti sotto il coordinamento del responsabile mussulmano, con frequenti interruzioni di preghiera. Le persone che si fermano da noi più a lungo sono forse i medici di “Physicians for Human Rights”. Uno dei due è uno psichiatra che passa il giorno a raccogliere testimonianze e la sera ci rimprovera di non sapere niente delle immani sofferenze che hanno patito anche le persone che lavorano con noi, fumando in continuazione. E’ vero, noi non chiediamo nulla, ma davvero non sappiamo? Quando Emmanuelle mette il figlio Marc di più di tre anni ancora al seno, o quando Maria Assunta ci dice in un chiacchierare leggero che non le serve un marito, che non starà mai con un uomo, c’è forse innocenza in questo non dire? Le enormi fosse comuni, che i nostri coordinatori non verranno mai a vedere e che invece sono sempre all’interno dei nostri percorsi, rendono veramente il massacro meno visibile dei cadaveri esposti nella chiesa di N’tarama? La donna che non riesce più a tenere la testa eretta per il colpo di machete che le ha sezionato i tendini del collo non rimanda forse direttamente al gesto di un assassino affaticato dal troppo colpire, a un corpo esanime che cade su un mucchio di cadaveri? Noi ci muoviamo su campi di cadaveri, viviamo con sopravvissuti: non occorre investigare per essere consapevoli di questo immane crimine, occorre farlo, e con pazienza e determinazione, per individuare – e punire - i complici e i colpevoli, ovunque. Particolarmente inquietante è l’equipe di Sentinelles: una ragazza dai jeans attillati, che si lamenta che è troppo tempo che non si fa una doccia, e un tizio dal piglio marziale che ci dice di essere una guardia del corpo ingaggiata da questa associazione, creata dal fondatore di Terre des Hommes, per trovare orfani da salvare portandoli via dal Rwanda. Quello che colpisce è l’equidistanza proclamata da Hutu e Tutsi, come se l’idea genocidaria fosse speculare ed equamente ripartita. E poi, quello che veramente non riusciamo a capire: abbiamo 2200 orfani, dov’è il senso di individuarne alcuni?
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La vittoria della battaglia di Kigali ha fatto fuggire FAR e milizie anche da Butare, ad ovest. Io e Claus vorremmo andare a fare una missione esplorativa, molti profughi che sono da noi vengono da quella zona, ci piacerebbe capire se ci sono le condizioni per il ritorno. Vagheggiamo di partire con un’autocisterna, in modo da rifornire d’acqua chi ne avesse bisogno nel tragitto, con viveri e coperte, ma alla fine il coordinamento di Kigali decide che andrò solo io con un’auto loro, con a bordo l’autista e un logista olandese che lavorava con MSF B nei campi dei profughi Hutu burundesi nel sud del Rwanda e quindi conosce le zone, e sarà il capo della missione, mi precisano. Partiamo di mattina, facciamo le strade note fino al superare il fiume, fino a Busoro, il nostro avamposto sanitario. La situazione sembra essere migliorata, c’è meno affollamento, la gente si è in qualche modo organizzata, mi sembra di percepire una forte aspettativa di rientro rapido nei propri luoghi. Oltre Busoro entriamo in una terra per me incognita, ed iniziano i problemi. Il capo missione sembra più interessato a visitare i campi profughi dove lavorava, così facciamo una sacco di deviazioni dalla strada principale, per scoprire che i campi profughi sono deserti, e che la gente si è portata via quello che ha potuto (plastic sheeting etc.), cosa che sembra incredibilmente stupire l’olandese. Alla fine io e l’autista riusciamo convincerlo che è bene riprendere la strada in direzione Butare, altrimenti arriveremo tardi. Attraversiamo un susseguirsi di piccoli villaggi deserti, circondati da terre intensamente coltivate, dove si trovano solo poche sparute galline e qualche cane. L’arrivo questi piccoli villaggi è preannunciato dall’odore di morte, di carne putrefatta, qui la fretta degli assassini di fuggire non gli ha lasciato il tempo di occultare tutte le salme. Lo stesso odore aleggia nei pressi dei cumuli di vestiti che si trovano ai lati della strada, dove prima c’erano i posti di blocco per la verifica dell’etnia di appartenenza. In uno di questi la strada è bloccata da un cadavere di traverso quasi in mezzo alla carreggiata: è il corpo straziato di una contadina, bocconi, vestita di una camicetta, un pagne dai colori sbiaditi per i troppi lavaggi, le scarpe di plastica arancioni da due soldi, il cranio scoperchiato da un colpo, o da qualche animale. Mi chino su di lei con le lacrime agli occhi, mentre l’olandese fotografa cose se fosse un perito forense (“bisogna documentare”, mi dice). Quando mi rialzo mi guardo intorno, e trovo poco distante i bossoli sparati dal FAL dell’assassino: ne raccolgo uno e provo a metterlo in tasca, ma non ne sopporto il contatto e lo rimetto a terra, esattamente dov’era. Continuiamo la strada facendo un’altra deviazione, saranno le quattro e alle sei viene buio, non sappiamo bene dove siamo e la strada sembra troppo stretta per essere una via principale. Mentre mi preoccupo, vedo in una stradina parallela un uomo in bicicletta e, sebbene vada in direzione opposta alla nostra, mi rincuora, almeno riguardo al rischio di imboscate. Appena più avanti passiamo davanti a una grande casa, arretrata di una decina di metri dalla strada, al vertice di un tornante. Con la coda dell’occhio vedo una piccola sagoma bianca con un debole movimento e faccio fermare l’auto. Torniamo un po’ indietro e lo vediamo: è un bambino. Scendo dall’auto e gli vado incontro: lui non si sposta e mi guarda. Avrà tre anni. E’ vestito con una specie di tunica logora, sporca di terra. Anche lui è coperto di polvere, nella mano stringe un tozzo di manioca, le piccole unghie sono lunghe e sporche. Ha l’aria pallida e un po’ gonfia dei bambini malnutriti. Lo lascio con l’autista e faccio il giro della casa: è tutto distrutto, trovo sacchi di farine e tuberi rovesciati a terra, ma per fortuna non ci sono cadaveri. Ritorno dal bambino, ha dato la mano all’autista e, quando gli tendo la mia, la prende, un po’ meccanicamente, senza emozioni. Mentre stiamo pensando a cosa fare, arriva di corsa un pick-up pieno di soldati dell’FPR. Sono giovani, in piena forma, hanno baschi colorati con diversi tipi di stemmi e t-shirt colorate, a parte quello che sembra essere il capo che è vestito con un’uniforme mimetica. Sono armati pesantemente, sul pick up hanno anche un mitragliatore a treppiede (uno di loro infatti resta nel cassone, appoggiato a questa arma). Si avvicinano e capisco che qualcuno ha bevuto, sono un po’ troppo spavaldi, sopra le righe. Abbiamo tutti le t-shirt bianche di MSF e non penso ci faranno del male, ma sono a disagio. Ci circondano e ci chiedono bruscamente come mai siamo lì. Il capo missione risponde che stiamo andando a Butare, e loro rispondono che quella non è certo la strada principale. A questo punto il capo missione inizia ad alzare la voce, a dire che se siamo là è per fargli un piacere, che è il loro ministro che ha chiesto il nostro intervento….insomma i toni si alzano, vedo l’autista che inizia a defilarsi, il capo dei militari ci accusa di voler rubare il bambino. Solo a costo di un’ampia sottomissione riesco a riportare le cose a un livello più ragionevole, e alla fine partiamo tra i sorrisi e gli incoraggiamenti, con il bimbo. In macchina non mostra stupore, solo ogni tanto un gemito, in occasione delle buche peggiori. Lo tengo seduto sulle mie ginocchia. Dopo un po’ arriviamo a Save, che è il posto che ci hanno indicato i militari. E’ una delle più vecchie missioni cattoliche del Rwanda, e c’e’ un orfanotrofio. L’olandese e l’autista vanno a chiamare qualcuno, io rimango lì con il bambino. Dopo un po’ arriva una suora, che non mi sembra né colpita né contenta, e non mi fa domande. Prende il bimbo che è quasi il tramonto, e il mondo mi sembra così triste che non riesco neanche a capire se sia meglio sopravvivere o morire. Se quello di oggi è un salvataggio, è una salvezza senza gioia…e questa vita, che disperata sciocchezza! E’ tardi, andiamo a dormire a Kigali in una bella casa di MSF, a Butare ci andremo domani.