L’ultimo pomeriggio lo passiamo a staccare gli adesivi di MSF da tutto: casa, ufficio, cisterne, frigoriferi… mentre sono fuori a togliere quello sulla porta vedo una suora bianca che guarda verso di me, verso la casa, da dietro la siepe accanto al boschetto di bambù. Penso che sia una suora svizzera di quelle che prima stavano lì, e che mi venga incontro. Invece no, distoglie lo sguardo e lentamente se ne va, senza un saluto. Forse la fuga, l’atroce destino capitato a chi si è rifugiato nella maternità, le fanno sentire di aver perso ogni diritto su quei luoghi, o forse pensa che glieli abbiamo semplicemente usurpati. Ma mi sembra che ci sia un po’ di vergogna nei suoi gesti. L’ultima sera abbiamo organizzato un festicciola di addio sul prato davanti a casa: abbiamo messo le luci fuori, le sedie, il tavolino basso della sala con un po’ di birre e di bibite sopra, qualcosina da mangiare. Lo stereo fa suonare un po’ di reggae. C’è il personale locale, qualche ragazza e qualche ragazzo dell’FPR, in borghese, M*. La gente passa soprattutto a salutarci, beve qualcosa e se ne va. Marie e le sue amiche a un certo punto ci fanno vedere una cassetta, c’è scritto “Rwandese Traditionals” ed è una musica lenta e dolce, che iniziano a ballare con movimenti aggraziati. Avevamo già sentito queste musiche e visto queste danze nell’orfanotrofio, io e Claus avevamo anche cercato di fare un po’ di lezione di ballo, ma i nostri corpi maschili occidentali sono troppo rigidi e goffi. E comunque si fa tardi, la guerra è finita ma questo è un paese traumatizzato, in cui la notte fa ancora paura. Salutiamo tutti, mettiamo a posto, e andiamo a dormire, per l’ultima volta a Nyamata. Il programma è di dormire una notte a Kigali, per cui i preparativi non sono frettolosi, abbiamo anche poco da portarci dietro, meno di quello con cui siamo arrivati. Prendiamo la strada polverosa e forse non ci sembra neanche di partire per sempre, è una strada che abbiamo fatto più volte e dalla quale siamo sempre tornati. L’auto ha solo una fila di sedili, e io e Claus siamo di dietro, nel cassone, e sentiamo tutte le buche della strada; Claus è quasi abbracciato al “ghetto blaster”, che suona la cassetta di melodie rwandesi che è rimasta lì dentro da ieri sera. Verso l’uscita dalla città superiamo Sylvie che cammina sul bordo della strada, ci saluta con la mano e con un bellissimo sorriso al quale io rispondo, e forse vorrei saltare giù dall’auto e dire “io resto”, invece la vedo scomparire lontano, nella polvere, e sento morire un pezzo della mia anima e staccarsi un brandello di cuore… e Claus curiosamente mi chiede “ma tu ci hai fatto l’abitudine a queste partenze e questi addii? Io no…” ed io dico stupidamente “mah, non è che mi capiti molto spesso”, e già sento tutta la nostalgia del mondo spaccarmi in due e l’innocenza perduta per sempre e la certezza che la morte d’ora in avanti mi abiterà senza scampo. La sera a Kigali è così sgradevole, ci sentiamo così poco compresi nel nostro dolore di partenti che decidiamo di andare a letto presto e di andare via domani di primo mattino, anche se dobbiamo fare un po’ di cose, tra cui prendere Marie che verrà con noi ad aspettare a Kampala i suoi visti.
Stamattina fa un po’ freddo mentre andiamo da una delle numerose case di MSF verso l’ufficio, è presto e il sole è basso, ma sono comunque le otto passate. Quando arriviamo all’ufficio vediamo che ci sono i cancelli chiusi e una folla di diverse decine di persone che si accalcano lì. Scendiamo dall’auto per capire che succede, la gente si avvicina e vediamo Charles e Francine. Gli chiediamo che succede, ci dicono che sono lì per il colloquio di lavoro, che è il terzo giorno che li fanno venire lì tutte le mattine e poi non trovano il tempo di riceverli, che alcune delle altre persone lì dovevano essere ricevute ancora prima. Tutti ci dicono che non è serio, che a Kigali non ci sono autobus e che arrivare a piedi lì da certe colline significa camminare anche due ore…in quel momento arrivano due auto di MSF che si fanno largo tra la folla, i cancelli si aprono e le auto entrano nel cortile. Scendono i cooperanti bianchi di MSF, vestiti con i giubbetti bianchi multitasca con il logo rosso che noi ci siamo sempre rifiutati di indossare, con le magliette bianche con il logo, con le radioline al fianco, alcuni hanno occhiali da sole neri. Sembrano strani soldati bianchi, operatori umanitari che sembrano avere assunto in tutto la simbologia degli eserciti…..sono questi i famosi “urgentisti” di MSF di cui mi raccontavano, come di mondi inconciliabili, gli MSF “lungoterministi” con cui avevo lavorato in Ciad. Irrispettosamente mi frulla in testa “White punks on dope” dei Tubes… Claus è fuori di sé, fa entrare Charles e Francine e, sfruttando le sue conoscenze fiamminghe, riesce a far vergognare chi non se ne è occupato e a farli assumere seduta stante, poi riesce anche a far avviare i colloqui per gli altri. L’aria è comunque pesante, riesco a sapere dove lavora Emmanuelle, che voglio salutare prima di partire, e mi metto d’accordo con Claus: mi accompagnano lì, poi lui va a prendere Marie, ripassano a prendermi e partiamo. Emmanuelle sta in una bellissima casa su una collina, col giardino. Viene alla porta e mi saluta con un tipico abbraccio rwandese, caloroso e allo stesso tempo un po’ distante, formale. Ha sempre l’aria un po’ malinconica, mi dice che lì è spesso sola perché i capi lavorano in ufficio che è distante, non è come da noi. Vuole farmi mangiare qualcosa, anche se è presto, per il viaggio….poi lì c’è tanta roba, soprattutto carne. Così andiamo in cucina, mangiamo due bracioline saporitissime insieme parlando di ciò che è stato e ciò che sarà. Ora non è più tanto preoccupata per il figlio militare, ma dice che non ha più casa, e se ne vuole andare o almeno mandare via Marc appena sarà un po’ più grande, magari in Canada dove ha dei parenti. Questo è un Paese maledetto, mi dice, ormai è stato tutto rovinato...
Quando arriva l’auto con Claus ci salutiamo definitivamente, l’abbraccio è il solito ma la stretta più forte, ci baciamo sulle guance e sento tutto il dolore di quella donna forte. In auto (questa è a cinque posti) la presenza di Marie ci tira su il morale, ci ha portato due distintivi degli Inkotanyi, avremmo voluto lasciare il Rwanda – e i nostri capi – indossando le magliette dell’FPR con lo scudo coi leoni, ma sono andate a ruba e non si trovano più. La frontiera è triste come al solito, ci fermiamo a bere qualcosa (l’autista è mussulmano e beve solo Coca Cola, io prendo una birra e mi viene mal di testa): anche se ancora praticamente non ci sono formalità tra Uganda e Rwanda il rito dell’attesa sembra comunque sopravvivere. Attraversiamo l’equatore con le sue “buses” e finalmente siamo a Kampala, questa volta un po’ umida e piovosa, per un momento mi sembra già troppo Europa. La prima cosa è scrivere la relazione che serve a Marie ad avere l’asilo in Belgio. Mi racconta la sua infanzia di figlia di profughi Tutsi in Burundi, il ritorno con l’FPR, le cose viste e quelle sentite…ora che sa che avrà la possibilità di tornare in Rwanda quando lo vorrà desidera provare una vita diversa, studiare. Quanta sofferenza e discriminazione nella storia di questa bella ragazza solare che ha preso il cuore di Claus e non può guardarlo senza sorridere! Nello scrivere la relazione, e nel sapere poi che è stata accettata, sento un orgoglio tutto particolare, quasi un senso di paternità: che la vita ti sia feconda e leggera, Marie! Per un paio di giorni io, Claus e Marie facciamo i turisti. Loro aspettano i documenti, ma io sento che devo partire. Così una mattina, questa volta sì, di pieno sole, mi accompagnano all’aeroporto di Entebbe. Non sono riuscito a costruirmi il viaggio, ho dei biglietti aperti per Bruxelles, per Milano e per Genova. Per ora so che arriverò a Bruxelles, poi spero di trovare un passaggio in Italia: è il 13 agosto, rischio di trovarmi bloccato da solo per il ponte di Ferragosto, e non ne ho nessuna voglia! L’aeroporto è bello, il cielo azzurro: proviamo a bere qualcosa, ma io ho lo stomaco chiuso. Claus e Marie sono proprio belli anche loro, abbracciati; si staccano solo per salutarmi con grandi sorrisi ed incoraggiamenti. E’ un attimo e ho già fatto il check-in, e poi sono in volo. A Bruxelles l’Africa è già finita, riesco per miracolo (o meglio solo grazie a una “zia” della SABENA che ha capito che voglio tornare a casa) a prendere l’ultimo aereo utile per Milano, un Alitalia in ritardo, poi aspetto due ore e arrivo a Genova che è notte. Forse penso ancora di essere lo stesso di quando sono partito, non tarderò molto ad accorgermi che è tutto, irrimediabilmente, cambiato.