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Autore

Gaddo Flego

Anno

2012 -2013

Luogo

Firenze

Tempo di lettura

4 minuti

Chiesi a mio nonno: è solo un sogno?

Potrebbe sembrare la periferia del mondo, ma per me era dove il flusso della vita si sentiva più forte.

Sono un medico, nel maggio del 1994 avevo trent’anni e stavo tornando da cinque anni in Africa. Avevo vissuto e lavorato per tutto quel periodo nelle zone rurali del sud del Ciad, mettendo a frutto quanto avevo imparato all’Università ed imparando ancora altre cose, dai miei pochi colleghi ciadiani, dalle persone, dal mondo intorno. Se penso a quegli anni mi accorgo quanto fossi innamorato: del Sahel mi piaceva tutto, la savana, il modo di guardarsi negli occhi e di sorridere negli incontri, addirittura il clima, anche quando si iniziava a sudare al tavolo della colazione, in veranda, alle otto di mattina! Potrebbe sembrare la periferia del mondo, ma per me era dove il flusso della vita si sentiva più forte. Lavoravo molto, spesso mi ammalavo, ma avevo il privilegio di sentire ogni giorno che stavo facendo la cosa giusta. Ma gli innamoramenti, più passa il tempo e meno sono sostenibili. Nell’incertezza di una scelta incombente (Africa? Italia? E come?) mi organizzai per andare a studiare un anno a Londra, un master fatto apposta per il primo e il terzo mondo che potesse rinviare la scelta senza darlo troppo a vedere. Ma la mia inquietudine restava intatta così, tornando a fine maggio 1994 in Europa feci sapere alla grande associazione umanitaria per la quale avevo lavorato che ero disponibile per una missione breve, che mi consentisse il ritorno in Italia entro la fine di agosto e quindi la partenza per il mio master a settembre. Le missioni brevi sono quelle d’urgenza, e sapevo che dare quella disponibilità in quel momento era come dire: voglio andare in Rwanda. E infatti mi lasciarono una dozzina di giorni, giusto il tempo anche per loro per capire come muoversi, e mi fecero partire.

Il primo contatto con l’Africa anglofona per me è stato l’aeroporto di Entebbe, esattamente un doganiere un po’ alla Mc Call Smith, elegante nella sua divisa stirata, la camicia azzurrina a maniche corte, l’impeccabile cortesia con la quale ci chiede “your destination?” e, alla nostra risposta, ci rende i passaporti timbrati senza indugiare in ulteriori controlli e, con aria fraterna, ci dice “thank you. I hope you’ll come back alive”.

Che cosa sapessi di quello che era accaduto e stava ancora accadendo in Rwanda non me lo ricordo: voci di massacri, sicuramente, ma soprattutto il viaggio appena fatto con un collega rwandese nel nord del Ciad, il suo silenzio ostinato, il volto teso, i due pacchetti di sigarette fumati in poche ore. I pochi giorni tra il mio arrivo in Italia e il Rwanda li ricordo come una strana scansione di climi, mondi e simboli: un trascorrere quasi incosciente nel grande flusso di eventi pubblici e privati, il borsone già pronto nell’ingresso della casa dei miei, in attesa di una telefonata che sarebbe sicuramente arrivata e mi avrebbe detto dove e quando ritirare un biglietto aereo e fare il check-in, un lasciarsi andare tra Genova, Bruxelles e Africa, tra aeroporti, pensioni e maisons de passage, che nella memoria confonde la vista di Genova dalle alture degradanti fino al mare, il cielo mediterraneo terso come può esserlo soltanto in primavera, il traffico verso l’aeroporto e la pioggia sottile di una grigia giornata belga, la giungla e la notte oltre l’immensa vetrata dello scalo di Bujumbura dove, confuso dal sonno interrotto sono davanti a un enorme buffet circondato da businessmen africani supereleganti in una hall resa fredda dai condizionatori, mentre sento che oltre un vetro che il clima è quello giusto, c’è l’Africa. E poi riparto e dopo un po’ arrivo ad Entebbe, l’aeroporto di Kampala, in Uganda, e sono passato 20.000 metri sopra quello che per tutti è un buco nero, non ancora il posto dove si consuma un orrore indicibile. Il primo contatto con l’Africa anglofona per me è stato l’aeroporto di Entebbe, esattamente un doganiere un po’ alla Mc Call Smith, elegante nella sua divisa stirata, la camicia azzurrina a maniche corte, l’impeccabile cortesia con la quale ci chiede “your destination?” e, alla nostra risposta, ci rende i passaporti timbrati senza indugiare in ulteriori controlli e, con aria fraterna, ci dice “thank you. I hope you’ll come back alive”. Noi siamo tre (io, Claus e Elena, la mia ex moglie infermiera) e sappiamo che torneremo, e forse iniziamo a pensare che questo viaggio ci cambierà la vita.