L’auto che ci porta di gran carriera verso il Rwanda è il solito gippone bianco chiuso delle organizzazioni umanitarie, che si muove veloce lungo una strada pianeggiante che costeggia il lago Vittoria. Alla radio sintonizzata su una stazione ugandese si sentono canzoni che cantano l’Africa, lungo la strada si muove la bellissima folla africana. Ma avvicinandosi al Rwanda è come se l’atmosfera si facesse più cupa, complici anche le nuvole del pomeriggio. Attraversiamo l’equatore, segnato da due grandi cilindri di cemento ai lati della strada (le buses con cui in Africa si fanno i pozzi), che si fa polverosa e inizia a salire. La musica della radio è stata sostituita dal nostro autista (un logista belga che non dice una parola) da musica europea ad alto volume. Arriviamo ad uno specie di spiazzo terroso con qualche costruzione: vecchi autoveicoli fermi, autisti e passeggeri che bevono birra o coca cola, militari in divise dignitose ma raffazzonate. E’ il confine con il Rwanda, un confine all’apparenza informale, ma un vero confine. Al di là ci aspetta un altro mondo, anche se nessuno ci mette un timbro sul passaporto. Entriamo in una zona di guerra totale, dove lo stato, al momento, non esiste. Mentre andiamo su una brutta strada verso Byumba, la capitale della zona occupata nel 1990 dall’FPR, la luce si fa crepuscolare, ed incrociamo un’impressionante carovana di autoveicoli che procede in direzione opposta. Sembra una ritirata, e chiedo preoccupato al guidatore che sta succedendo. “C’est le cirque de l’humanitaire” mi dice interrompendo il suo lungo silenzio. E’ il circo delle organizzazioni umanitarie che, tutti i giorni, vanno fino a Byumba a discutere con le autorità militari il permesso per andare oltre, e dopo una giornata di tentativi infruttuosi, tornano a dormire in luoghi più confortevoli e sicuri. Il massacro è cominciato il 7 aprile, oggi è l’8 giugno. Sono passati più di 60 giorni. Gli ultimi bianchi hanno lasciato il paese il 14 aprile. Arriviamo alla casa di passaggio, una strana costruzione in muratura, bassa ma su più livelli. Byumba è una cittadina di montagna e fa freddo; non è il Sahel a cui sono ormai abituato. La casa è piena di gente, di bianchi che escono e entrano senza dirci dove vanno. Fa freddo anche di giorno. C’è un piccolo cortile dove io, Elena e Claus ci mettiamo a chiacchierare al sole. Una ragazza ruandese magrissima sempre con una giacca di piumino addosso è la cuoca, ma non c’è niente da comprare. Mangiamo liofizzati da astronauti del kit d’urgenza: si aggiunge acqua calda nella busta di stagnola e dopo un po’ vengono fuori il riso cantonese o la pasta con i broccoli, sempre con lo stesso odore di glutammato. Stiamo così tre giorni, ad aspettare che rientri il coordinatore che è andato all’interno del Paese. Siamo depressi ed annoiati, siamo dovuti partire di corsa dal Belgio e adesso siamo qui fermi. Io ne approfitto per studiare e chiedere documentazione al Servizio Medico di Bruxelles.
Un giorno un logista mi chiama per andare a parlare con un medico dell’FPR: sarà il Ministro della Sanità – mi dice. Andiamo in macchina davanti a un edificio, sembra una scuola. La densità di militari aumenta man mano che entriamo nei corridoi, accompagnati da un soldato. Alla fine ci fanno aspettare davanti a una porta, poi entriamo. Incontro un signore calvo, ben rasato, imponente anche se non si alza (qui non si alzano per salutare, sono militari ed hanno le loro gerarchie, nessuna cortesia in entrata). Mi dà la mano da seduto, è una mano ampia e sicura, ma liscia e morbida. Chissà perché mi fa venire in mente la mano di un dentista. Io chiedo quante persone ci sono in giro, qual è lo stato nutrizionale, quali le malattie più frequenti, ma lui risponde in modo evasivo. Penso che lo faccia apposta, tra me e me maledico il segreto militare. Poi capisco che questa gente non sa nulla, e forse nemmeno gli interessa: in questa fase sono concentrati esclusivamente sulla loro missione militare, e molti di loro non conoscono neanche bene il Paese. Intanto lo scruto, e quella che subito mi era parsa una divisa militare (e mi chiedevo come fosse stata assemblata, questo non è un esercito nazionale) risulta essere un costoso abbigliamento outdoor, delle migliori marche, acquistabile a caro prezzo in Europa, in un grande magazzino ben fornito. E allora mi immagino quest’uomo, probabilmente un esule bambino del ’59, che riceve una chiamata e lascia la sua ben avviata attività, la sua vita borghese, la casa in un quartiere residenziale di una città francese o più probabilmente belga, compra i vestiti nuovi da una commessa annoiata dalla grigia pioggia del pomeriggio, che non immagina che quelli siano abiti da guerra di straordinaria eleganza casual, abbraccia qualcuno e parte con un aereo di linea per l’Uganda, avvicinandosi sempre più a quel vortice di cui questo avamposto di Byumba è a malapena il margine. Ed ora siamo l’uno davanti all’altro, estranei anche al Paese che ci accoglie. L’Africa che ho conosciuto finora è un mondo rurale abitato da persone che sanno e ricordano la qualità della terra che lavorano, ogni cespuglio, ogni radice nascosta sotto la sabbia. Questo è un Paese dalla memoria devastata, un paese di fantasmi. Finalmente un pomeriggio arriva Alex, il coordinatore della missione di MSF. Claus lo conosce e non ne ha una grande opinione, “è un pompiere”, mi dice, “neanche laureato”. Gli chiedo se occorra essere laureati per coordinare un missione umanitaria, lui mi dice che studi ampliano gli orizzonti (scopro che Claus è un agronomo, anche se lo ha fatto solo per alcuni mesi in Malesia). In ogni caso anche a me Alex non fa una buona impressione: vestito tutto di nero, con pantaloni e gilet multi tasca, ai piedi anfibi anche quelli neri, sembra un soldato di un corpo speciale. I miei anni ciadiani mi hanno insegnato che non è mai una grande idea, in un paese in guerra o comunque con molti militari, vestirsi come un soldato – molto meglio magliette, pantaloni e scarpe da tennis colorate! In ogni caso ci concentriamo subito in una piccola sala riunioni per sentire le notizie. Alex ci racconta di un Paese costellato di cumuli di cadaveri, resti umani ovunque. Noi pensiamo che ci voglia impressionare, ma dentro di me inizia a insinuarsi la paura di trovarmi di fronte a qualcosa di insopportabile. Alla fine Alex dice che io, Elena e Claus partiremo l’indomani per Nyamata, dove ci sono numerosi sopravvissuti e dove sostituiremo un logista ed un’infermiera del pool d’urgenza che lui ha lasciato ad organizzare le cose. In quel momento MSF è presente in Rwanda soprattutto con il pool d’urgenza, un gruppo di persone di varia professionalità (logisti, medici e infermieri) che è disponibile a partire per brevi periodi con brevissimo preavviso, a volte di poche ore. Noi tre siamo uno dei primissimi gruppi che arriva per restare un po’ di più.