Scheda di dettaglio
Antonio Cocco
Ridotta Isabelle
Nella Legione Straniera Senza ritorno da Dien Bien Phu Epistolario 1952-1954
Estratti Diario: 5
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1952. Antonio Cocco è un giovane studente al terzo anno di ragioneria. Vive a Venezia con la sua famiglia, una famiglia numerosa e unita. Ha una vita normale, fatta di giornate sui banchi di scuola, cene in famiglia, balli con gli amici. Un giorno però gli va male un’interrogazione e la prospettiva di un rinvio a settembre o, peggio ancora, di una bocciatura, lo umilia e gli fa compiere una follia. Scappa in Francia con un amico, senza documenti. Alla frontiera viene fermato dalla gendarmerie e si trova davanti a un bivio: tornare in Italia e affrontare il carcere oppure arruolarsi nella Legione straniera. La paura di procurare un dispiacere ai genitori facendosi arrestare, lo spinge ad arruolarsi. Da questo momento inizia una fitta corrispondenza con il padre, che tenta disperatamente di far liberare il figlio e di farlo tornare in Italia. Invano. Antonio morirà a soli vent’anni a Dien Bien Phu, in un giorno della primavera del ’54, mentre difende, suo malgrado, le posizioni dell’esercito francese durante la guerra d’Indocina. 
 
Le lettere di Antonio hanno vinto il PREMIO PIEVE SAVERIO TUTINO nel 2017 e sono state pubblicate da Terre di mezzo nel 2018 con il titolo  “Ridotta Isabelle. Nella Legione straniera senza ritorno da Dien Bien Phu. Lettere 1952-54”.
 
Prefazione
Umberto Gentiloni Silveri
Lettere dal Novecento
L’epistolario di Antonio Cocco non è soltanto una narrazione individuale, una scrittura intensa e drammatica, è anche un pezzo di storia del secolo scorso. Una vicenda umana inserita nel difficile contesto che si apre in Italia e in Europa dopo il 1945. Un giovane nato a Padova e cresciuto a Venezia che per un brutto voto a scuola, un’interrogazione andata male, decide di cambiare vita, mettendosi in gioco fino a rompere con l’ambiente che lo circonda: ha poco meno di vent’anni quando inizia un itinerario che lo porterà ad attraversare tre continenti, incrociando, suo malgrado, le pieghe della grande storia nel cuore del Novecento. 
Diversi, sotto questo profilo, i piani di lettura che in filigrana attraversano le pagine delle lettere del giovane Cocco. 
In primo luogo, la Legione Straniera e la storia dell’arruolamento forzoso subito da tanti nostri connazionali. Fondata nel 1831 da Luigi Filippo allo scopo di coadiuvare le forze francesi impegnate in Algeria, la Legione viene successivamente impiegata nelle principali campagne come corpo aggregato all’esercito nazionale. Dalla Crimea del 1853 all’indipendenza italiana, combattendo contro l’impero austriaco; dalla guerra franco-prussiana del 1870, alla Grande Guerra. Durante il secondo conflitto mondiale la tredicesima Brigata si schiera a fianco del generale de Gaulle, impegnandosi in Norvegia, Africa, Italia e partecipando alla liberazione della stessa Germania. La sua storia – e soprattutto quella dei suoi legionari - è ricostruita in un volume di Gianni Oliva (Fra i dannati della terra. Storia della Legione straniera, Mondadori, 2017) che evidenzia lo spirito e l’ambiente nel quale deve essere stato catapultato Antonio Cocco a conclusione del suo primo tratto di strada fuori dai confini nazionali. Dopo il 1945 passaggi rilevanti traghettano il corpo nei nuovi equilibri geopolitici del secondo Novecento, accompagnando, idealmente, la crisi dell’impero coloniale francese e la sua complessa destrutturazione: la guerra di Indocina, che trova nella battaglia di Dien Bien Phu del 1954 uno dei suoi momenti apicali più drammatici; lo scacchiere algerino, Paese nel quale la Legione mantiene dal 1931 al 1961 il suo quartiere generale, a Sidi Bel Abbes. La presenza di Cocco nelle file della Legione non è casuale e va ben al di là delle ragioni e dei contesti di un’interrogazione finita male nell’ultimo anno di ragioneria nella primavera del 1952. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta della fortezza di Dien Bien Phu del maggio 1954 sono alcune migliaia gli italiani inquadrati. Non era una novità. Si stima che tra il 1831 e il 1961, su circa 490.000 soldati appartenenti a questo corpo siano stati circa 60.000 gli italiani aggregati. Come ricorda Sandro Rinauro, nel 1954 sono ancora cinquemila quelli impegnati nella guerra di Indocina (Geografia, dimensioni e vicende dell’emigrazione clandestina italiana nel secondo dopoguerra, Milano 2006). L’arruolamento nella Legione poteva avvenire su base volontaria o “forzosa”. Ed è proprio questo il destino di Cocco. Come molti coetanei, fugge dall’Italia cercando una nuova opportunità in Francia. Ma l’arrivo degli italiani, lavoratori irregolari, è considerato dalle autorità motivo di apprensione e di allarme sociale. La conseguenza dell’arresto dei clandestini è la detenzione o l’arruolamento forzoso nella Legione come via alternativa al carcere. La questione è nota nell’Italia di allora e talmente diffusa da essere ripetutamente posta all’attenzione della stampa negli anni Cinquanta, fino a portare deputati del Psi e del Pci a presentare diverse interpellanze parlamentari agli inizi del 1961, come ricordato da Amoreno Martellini in un recentissimo volume (Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, il Mulino, 2018).
È Cocco stesso - si firma Toni rivolgendosi alla famiglia - a raccontarci le tappe del suo arruolamento, descrivendo al padre nella sua prima lettera del 18 giugno 1952 il percorso compiuto nel passaggio dall’Italia alla Francia: 
“Dunque sono partito da casa il 24 alle ore 6 dal piazzale Roma. Ho preso o meglio abbiamo preso il treno a Padova diretti a Milano e Torino alle 21. Abbiamo passato la notte in treno e siamo arrivati a destinazione alle 9. Di lì poi siamo andati a Bardonnecchia ultimo paese sul confine. Lì abbiamo deciso di andare in qualche albergo per tentare di passare il confine il giorno dopo. Difatti così abbiamo fatto. 3 erano le nostre possibilità di riuscita. la prima era il treno tentar di farcela alle spalle dei contrabbandieri, questa ci andò male. La seconda era quella di passare attraverso delle montagne alla sinistra del paese anche questa andò buca. L’ultima carta, tentata il giorno 27 ci riuscì ed era la più difficile. 28 ore di cammino abbiamo fatto vestiti come eravamo con le scarpette attraverso nevai immensi, di notte bracconati dalla finanza con Paolo che aveva la febbre senza sapere dove era la meta. Due o tre volte fui sul punto di rinunciarci di tornare indietro ma per fortuna un contrabbandiere ci aiutò un pezzo e noi ci demmo l’orologio. Ho detto un pezzo perché perché nel più duro quando eravamo su un nevaio e con sotto un salto di 2 o trecento metri la finanza ci dette il chi va là. [...] Insomma alle 6 del mattino mezzi morti siamo arrivati a Modane e ci hanno presi. [...] Abbiamo passato la notte lì per terra alle 5 del mattino siamo partiti per Chambery lì ci han messo in una spece di prigione e dopo aver passato una visita medica e aver fatto due o tre firme ci han fatto come al solito lavorare. Lì ho trovato degli altre reclute tutte remi da galera era una caserma di soldati molto bella con un bellissimo campo di equitazione. Non rammento bene quanti giorni sia rimasto lì tuttavia si stava abbastanza bene levando quelle volte che dovevo far il sevro [servo]. Se non erro dopo 4 giorni ci hanno sbattuti a Marsiglia e di quì è cominciato l’inferno”. 
Il secondo piano di lettura, sullo sfondo della corrispondenza è l’Italia degli anni Cinquanta, il contesto della ricostruzione. La storia di Cocco è parte delle contraddizioni di un decennio nel quale prende forma il miracolo economico destinato a cambiare il tessuto sociale del Paese: l’emigrazione sostiene una parte non irrilevante della forza lavoro dell’epoca. La ricerca di un impiego e di una nuova vita all’estero è uno dei tratti caratteristici della storia italiana del Novecento, almeno fino a quando la modernizzazione del Paese e la piena diffusione degli effetti della golden age non cominceranno a frenare il fenomeno. Dopo il 1945, l’emigrazione in Paesi limitrofi o vicini ma all’epoca ancora separati da frontiere e dalle eredità irrisolte delle guerre del Novecento, torna a essere un’opzione diffusa e possibile. Seppure rischiosa e carica di interrogativi e incognite. Ma le necessità contingenti e le aspettative future superano anche remore e incertezze. Soprattutto nelle zone del Mezzogiorno e del Nordest da cui proviene Cocco. La sua fuga in Francia pur essendo a quanto ne sappiamo motivata non da ragioni economiche, ma da una difficoltà personale contingente, matura in un contesto che la rende possibile e realizzabile. Cocco si lascia alle spalle un’Italia in cui la dignità e il pudore si sposano con tratti di austerità, dove la paura di una bocciatura o di un’umiliazione a scuola può apparire insostenibile. Scrive il 18 giugno 1952 da Sidi-Bel-Abbes: 
“Caro Papà, non so nemmeno come cominciare questa lettera e se avrò il coraggio di spedirla perché mi sento tremendamente vigliacco. Avrei voluto scriverti sin dal primo [momento] che entrai in Francia clandestinamente ma non potei se non al porto di Marsiglia e di nascosto. Non ti scrissi prima perché dovetti iscrivermi subito alla legione straniera e tu saresti senz’altro venuto a prendermi, non che mi dispiacesse perché lo desideravo con tutto il cuore, ma avresti dovuto spendere un sacco di quattrini per venire in Francia e pagare una forte multa per uscire dalla Legione e poi avrei dovuto fare del carcere in Italia perché ero clandestino. Spero capirai il perché del mio silenzio anche perché tu conosci il mio carattere d’avvertire sempre in tempo [...]. Quando me ne sono andato da casa avevo ancora l’animo preso dall’ira non avrei più sopportato la presenza di qualche professore dinnanzi a me ero esasperato al punto di preferire d’andarmene da casa conscio di quello che mi avrebbe aspettato piuttosto di rimanere ancora 20 giorni a scuola”. 
E ancora, il 25 agosto dello stesso anno sulle ragioni delle scelte che lo hanno portato in modo inconsapevole verso l’ingresso nella Legione: “Mi sono lasciato trascinare da un sentimento di esasperazione e di rivolta verso un sistema di scuola che non potevo più sopportare e da un desiderio folle di libertà e di indipendenza al quale non ho potuto sottrarmi. Poi non ho più saputo tirarmi indietro, pervaso com’ero dallo sciocco orgoglio di dimostrarmi forte, e di fronte alla prospettiva di dover subire due o tre mesi di carcere in caso di rimpatrio forzato (così m’era stato detto dalla polizia francese che mi fermò) ho scielto l’arruolamento alla Legione Straniera”. 
Un gesto tipicamente adolescenziale che stride con la compassione e l’affetto che da subito gli rivolgono il padre e la famiglia. Da questo Cocco matura una propria consapevolezza; traspare chiaramente nell’epistolario l’evoluzione tra le lettere delle prime settimane - un ragazzo spaurito - e quelle dell’ultimo anno, in cui emerge la figura di un giovane uomo, costretto a diventare adulto troppo rapidamente in un contesto che mai avrebbe immaginato. Proprio qui il collegamento con il terzo, fondamentale punto di osservazione dal quale leggere le lettere di Cocco: la questione della penisola indocinese e della sua complicata e controversa decolonizzazione. La battaglia di Dien Bien Phu, posizione strategica tra il Vietnam e il Laos, segna la vittoria definitiva dei việt minh. Il riassetto dell’area viene ratificato dalla Conferenza di Ginevra del luglio 1954, quando la Francia accetta di ritirarsi e il Paese viene diviso all’altezza del diciassettesimo parallelo. Un passaggio decisivo per traghettare la zona verso quelle conflittualità e divisioni destinate a sfociare nella futura lunga guerra del Vietnam. Dien Bien Phu, dove Cocco perderà la vita, passa alla storia come uno degli scontri più drammatici dell’intero conflitto. Una batta- glia di logoramento, che si protrae per quasi due mesi, dal 13 marzo al 7 maggio 1954. Fin dalle prime battute i việt minh appaiono determinati e bene organizzati; gli effetti dei violenti bombardamenti e degli assalti dei primi giorni si ritrovano nelle lettere scritte da Antonio Cocco a suo padre. Furono quasi tremila le perdite francesi, a fronte dei circa cinquemila vietnamiti; oltre diecimila (tra cui molti Legionari) i prigionieri catturati dai việt minh in quello che progressivamente diventa un lungo assedio contro le forze francesi asserragliate in agglomerati cui vengono assegnati nomi di donne: Anne-Marie, Béatrice, Claudine, Dominique, Éliane, Françoise, Gabrielle, Huguette, Isabelle. 
La vicenda è ricordata in ricostruzioni e memorie autobiografiche. Bernard Fall, in un celebre volume del 1966 (Hell in a Very Small Place) pubblicato in Italia due anni dopo da Rizzoli (I terribili 56 giorni), attraverso lo studio della documentazione militare francese e intervistando i sopravvissuti (che aveva affiancato aggregandosi come corrispondente all’esercito francese tra il 1953 e il 1954), ricostruisce, giorno per giorno, le diverse fasi di quella battaglia, restituendo al lettore tutta la drammaticità dell’evento. Già la dedica del libro spiega molte cose: “A mia moglie Dorothy che ha vissuto con i fantasmi di Dien Bien Phu per tre lunghi anni”. Il testo, lungo e dettagliato, rappresenta la prosecuzione di un altro volume, forse meno noto in Italia, pubblicato da Fall nel 1961 dal titolo Street Without Joy, dove l’autore ricostruisce la storia della guerra di Indocina dedicando alla sua battaglia conclusiva un capitolo (Why Dien Bien Phu?) in cui si interroga sulle responsabilità e soprattutto sul significato di quella sconfitta per la storia del Vietnam del secondo dopoguerra. Fall collega la caduta di Dien Bien Phu alla più generale sconfitta delle forze occidentali in estremo oriente: “La guerra di Indocina non è stata persa per un qualche errore fatale o per il collasso del morale delle truppe. Come nella guerra di Corea, le forze anticomuniste si sono costrette in un angolo tattico la cui unica via di uscita avrebbe potuto essere un sensibile ampliamento delle condizioni politiche e strategiche in cui la guerra era combattuta”. Alla base della sconfitta, secondo Fall, non era tanto o soltanto la sequenza di errori militari compiuti, per la verità simili a quelli americani in Corea (le cui vittime, oltretutto, furono superiori a quelle in Indocina). Il punto secondo Fall, è che quella sequenza di errori andava ad adagiarsi su “una struttura politica francese decisamene più debole e precaria di quella degli Stati Uniti”. La crisi dell’impero coloniale, insomma, come parte della riorganizzazione della geopolitica del lungo dopoguerra. Come Cocco nelle sue lettere, anche Fall nel suo Hell in a Very Small Place descrive le ore iniziali dell’ultimo assalto dei việt minh. Il resoconto del 14 marzo 1954 riporta: “Così inavvertitamente come era cominciato l’artiglieria comunista cessò il fuoco su Gabrielle alle 2.30 del 15 marzo. Così anche l’assalto della fanteria. Gli algerini erano riusciti a resistere più a lungo delle truppe della Legione Straniera a Beatrice”. Il 6 aprile, data dell’ultima lettera di Cocco in Italia, è descritto da Fall come un giorno di scontri minori, dedicato all’inventario dei depositi. L’esercito francese è a corto di munizioni e granate. Manca ancora un mese alla fine della battaglia, ma emergono chiaramente i limiti della strategia occidentale, si va verso un vicolo cieco. 
Le stesse vicende sono raccontate quasi contemporaneamente da Jules Roy in un volume pubblicato da Mon- dadori nel 1968 (La tigre e l’elefante. Dien Bien Phu: le origini della strategia vietcong). Roy, personalità poliedrica, di origini algerine e amico di Albert Camus e Antoine de Saint-Exupéry, lascia nel 1953 l’esercito francese proprio in protesta contro la guerra di Indocina. Nel suo volume descrive la tattica di Võ Nguyên Giáp, comandante dei việt minh, con la metafora della “tigre” che riesce ad abbattere l’“elefante” (l’esercito francese) con una serie di attacchi brevi ma dolorosi, spesso notturni, che non lasciano all’avversario il tempo di rifiatare, indebolendone progressivamente la resistenza fisica e il morale. Una strategia sotto molti punti di vista anticipatrice di quanto accadrà anni dopo nello scontro con l’esercito americano. 
Non sappiamo quanto di questo contesto fosse chiaro ad Antonio Cocco. Proiettato nel volgere di pochi mesi da Venezia a Dien Bien Phu, in luoghi allora sconosciuti alla maggior parte degli italiani. Là dove la caduta degli imperi coloniali europei si sovrappone all’affermazione delle due super potenze e dei blocchi contrapposti della seconda metà del Novecento, in un incrocio tra il passato e il presente della storia mondiale. È certo però che il giovane padovano, legionario forzato, era perfettamente cosciente del dramma e dei rischi cui stava andando incontro. Nelle sue lettere traspaiono il senso di solitudine che deve aver vissuto, il rimpianto per ciò che è stato, la paura per ciò che avrebbe potuto essere. In una prosa spesso incerta, eppure efficace, Cocco si confida con il genitore descrivendogli le diverse fasi di quell’inferno che è costretto a vivere. Vuole raccontare il suo itinerario, cercare conforto e comunicazione. Il resoconto della sua condizione di militare si mescola ai ricordi, altalenando momenti in cui prova a rassicurare il padre ad altri in cui la penna sembra lasciare trasparire il flusso dei pen- sieri nel quale si confonde tra passato e presente, in una trama che ci porta da Marsiglia in Algeria, dal comando centrale della Legione straniera fino in Indocina. Centosessantacinque missive, scritte tra il 16 giugno 1952, giorno della partenza per l’Africa, e il 6 aprile 1954. Let- tere scritte principalmente al padre, ma non solo, nelle quali è raccolta la testimonianza di una vita, il senso di una tragedia individuale che attraversa tre continenti. Sin da subito Cocco sente che sta iniziando una nuova pagina della sua esistenza, la scrittura lo tiene legato a un passato che si allontana in modo inesorabile. Una pagina che rischia di essere senza ritorno:
“La vita quì a Sidi-Bel-Abbes è pressappoco come quella di Marsiglia forse peggio perché più rigida. [...] Ho già fatto la visita medica, abile purtroppo, e domani andrò all’interrogatorio del capitano. Spero che mi facciano abile come paracadutista perché questa è la mia intenzione anche se molto precaria. La media che in Indocina ci lasciano la pelle dei paracadutisti è sull’80% ma credo tu capisca il perché di questa mia decisione”. 
Nelle settimane successive le condizioni di Cocco diven- tano difficili, insopportabili. Ipotizza di fuggire mentre spera che il padre riesca, attraverso canali diplomatici, a riportarlo indietro. Il 10 luglio 1952, in una lettera a tratti drammatica, descrive al genitore lontano i giorni del suo addestramento e le umiliazioni cui deve sottostare: “Per quanto riguarda alla mia salute non preoccupatevi molto; il clima caldissimo che mi rendeva impossibile quì la vita ora lo sò sopportare e l’asma pure incomincia a far la brava, non mi dà più fastidio e sò fare come gli altri marce di chilometri e chilometri sulla sabbia col sole a picco, oppure attraverso l’acquitrinio e tra la boscaglia carichi come muli, di fucile, fucile mitragliatore, bombe a mano, borraccia piena di sabbia e aggeggi del genere. Insomma, per la salute non mi posso lagnare, perché ora comincio a mangiare tutti i più schifosi e strani cibi del luogo (es: Cous-cous); quello che proprio non so sopportare sono i trattamenti a cui il Legionario matricola è sottoposto. I pugni, le pedate e i ceffoni sono all’ordine del giorno. Usano i metodi che i Ricconi Romani usavano con i loro schiavi ci considerano delinquenti e come tali siamo trattati, tanto al Sergente come al caporale è permesso bastonare come le pare e piace, e guai protestare, io ne ho fatto personalmente esperienza”. 
Così scrive il 28 luglio: “Una rabbia intensa mi è venuta, perché, perche devo portare questo abito, perché devo mettermi questo berretto, perché devo condividere la giornata con dei delinquenti che non parlano che di cose schifose e si vantano dei loro atti di delinquenza, perché devo sottostare alla ai comandi di qualunque lurido e analfabeta di caporale, perché devo sopportare gli schiaffi e le pedate di sergenti disgraziati. Già perché... per uno stupido colpo di testa quanti dolori ho procurato a voi ed a me”.
Il passare delle settimane e la sostanziale fine di qualunque velleità di fuga portano Cocco a considerare lo stesso trasferimento in Indocina come una possibile, drammatica, via di uscita. Una possibilità concreta che si apre: 
“Carissimo papà, mentre ti scrivo, un centinaio di legionari stanno cantando a squarciagola più o meno tutti ubriachi e felici. Felici di partire per L’Indocina, felici di spargere il proprio sangue per una patria che non è loro, e che forse odiano. Anch’io odio la Francia e i francesi e tuttavia sarei contento di partire, partire ed andarmene lontano di lasciarci la vita, non importa, ma d’andare via da... questo Inferno, per provare un’inferno che forse è peggiore, ma d’andarmene”. 
Non mancano racconti anche vivaci dell’esperienza che sta vivendo. Una sorta di reporter di guerra improvvisato che unisce alle parole le immagini di fotografie che accompagnano le missive. Ma neanche queste esperienze riescono a mitigare la paura, la solitudine, il rimpianto: 
“Suez è pure una città che molte cittadine balneari Europee possono invidiare. Ci sono delle Case con 20 piani. Dei 3000 Km (credo) del Mar Rosso non posso dire gran che ho visto un sacco di delfini e due o tre pescecani. Mamma mia... che impressione. [...] Verso il golfo (se così si può dire) di Gibouti poi, siamo stati quasi assaliti dai pescecani [...]. Ma ormai comincio ad essere stanco della nave sono 10 giorni che si naviga e non ne posso più mi sforzo ad interessarmi in cose sei 6 mesi fa mi sembravano un sogno, ma mi annoio subito e le trovo inattraenti. Potessi ritornare a Venezia, tra le vecchie mura della mia casa, giocherellare con Gianni in Rimessa, poter dormire alla sera sul mio letto [...].Certe volte mi viene da ridere quando dico agli amici che rimpiango quei tempi, a 19 anni di solito non si può dire questa frase. Compirò a proposito 19 anni in Indocina... vi sembra poco?”. 
Pochi giorni dopo, la svolta. Cocco arriva a Saigon nei primi giorni di novembre per rimanere in Indocina quasi un anno e mezzo, fino alla sua morte. “Pensa - scrive il 5 novembre da Saigon - io sono il solo di tutti gli italiani che sono arrivati qui, a partire. Non so perché, so solo che finirò proprio in prima linea [...]”. Aggregato alla III REI, il 16 novembre 1952 racconta della sua prima mis- sione, orgoglioso e timoroso al tempo stesso: 
“Domani parto in operazione. Ci hanno dato il fu- cile personale, munizioni a sazierà, elmetto e zaino e vas-y in aereo a 100 Km da qui in prima linea. Io spero di non essere sì sfortunato da lasciarci la pelle la prima volta, ma se tu sapessi come vanno le cose quì non mi daresti torto! Io ci vado senza nemmeno pensare al pericolo sono un incosciente e lo ammetto ma che devo fare ormai ci vado e che Dio me la mandi buona”. 
Da questo momento le vicende della guerra cominciano a prendere il sopravvento nella corrispondenza. Tra il dicembre 1952 e il marzo 1954 le lettere spedite in Italia cambiano progressivamente forma. Il ragazzo diventa adulto e soldato. Si susseguono racconti di azioni militari, di operazioni spesso al limite, dei rischi e, in qualche modo, della rassegnazione. Il rimpianto per il passato si confonde con il disincanto e il fatalismo. I richiami alle operazioni si mescolano con la vita militare, le sue lunghe attese, le pause, le poche licenze e le scarse amicizie. 
La guerra lo avvolge e prende il sopravvento. Così, il 28 dicembre 1952:
“Carissimo papà, non so quando potrò spedirti questa lettera [...]. Mi trovo in piena operazione a 15 Km dal campo Na-San. [...] Non ho la minima idea di ciò che ci aspetti. Forse fra ore si ripartirà, può darsi attacchiamo o siamo attaccati, e nella migliore delle ipotesi domani si ritornerà al campo Na-San. Certo però che sono dei disonesti fanno fare tutto sempre alla Legione, e in special modo al 3 REI. Quelli della regolare arrivano sempre quando tutto è fatto e noi ci mandano avanti... già, avanti a lavorare per gli altri e quando sarà finita “en avant” ancora. Qui non sarà mai finita sino a che rimarrò. Ma ormai mi sono fatto mezzo filosofo piglio tutto come viene senza pensarci sopra”. 
Il 14 marzo 1954, parlando da quasi veterano, descrive l’inizio dell’offensiva finale việt minh:
“Continuano a apivere [piovere] colpi di mortai 81 e cannone 75 e 105 da tutte le parti del nostro posto, tutta la notte in allerta, in vari punti i Viet hanno cercato di far saltare il filo spinato. [...] Naturalmente i feriti sono molti e pure i morti comin- ciano ad aumentare. [...] Ieri notte hanno attaccato un posto prendendolo distruggendo 3 compagnie dei nostri (Colonello e comandante compreso) e due batterie di cannoni. Il morale mio nonostante tutto è alto. Certo che si aspetta anche noi l’attacco la loro tattica è di far più feriti e morti possibile, far saltare il filo spinato e poi dare l’attacco... [...]. Posso dire che questo è il periodo più critico che ho passato da che sono in Indocina. Mai visto tanto putiferio Mai sentito tanti ‘obus’ d’artiglieria e mortaio cadermi sotto la testa. Peggio di Na-San, molto peggio papà. [...] Il bello è poi che loro sono tra la boscaglia, ben nascosti e noi siamo nella valle a fare da bersaglio. Ma me la caverò anche questa volta ne sono certo pur ammettendo che se Dio non avrà misericordia di noi, sarà un vero massacro. Forse quando riceverai questa mia il pericolo sarà passato oppure... meglio non pensarci. Ti accludo dentro una fotografia, l’ultima che m’ho, spero le altre arriveranno. Su col morale va papà tanto è lo stesso. Io ti terrò continuamente informato. Solo che temo che molte lettere vadino perse... con tutti questi aerei che bruciano. T’abbraccio con affetto. Toni”. 
Infine, il 6 aprile 1954, l’ultima missiva poco prima di essere colpito a morte: 
“In base al nostro lavoro e alla manovra ben riuscita per una parte dei ‘chef d’equipe’ (ci sono anch’io) che non abbiano galloni di caporale ci sarà una proposizione di caporale. Non so se me la daranno ma ho buone ragioni per sperarlo. [...] Io sono sempre volontario per le imboscate o pattuglie di notte... non credere che rischi, è difficile che ti succeda qualche cosa quando fa nero. Delle imboscate poi è un gioco da ragazzini. [...] La prima volta è dura, anche adesso se vuoi, però un pò alla volta ti sembra una cosa normale, e nascondi la paura (perché tutti ce l’abbiamo). Beh... anche questa volta ho finito papà. [...]. Quì è sempre lo stesso, di Vietts ce ne sono, ma sembrano si tengano tranquilli. può darsi aspettino rinforzo. Ad ogni modo possono sempre venire. Ti abbraccio, Toni”. 
Sono queste le ultime parole lasciate da Antonio Cocco alla propria famiglia. Quali riflessioni può suscitare la lettura di un volume così intenso e appassionato? 
Ne vengono in mente innanzitutto tre. 
Il primo elemento di riflessione, forse più rilevante, il dato umano. Nelle lettere di Cocco traspare la disperazione dell’uomo, il suo affrontare un ambiente impossibile; prima la vita nella Legione e poi la guerra, fino all’epilogo peggiore. Si alternano momenti di sconforto ad altri in cui vuole rassicurare un genitore preoccupato e troppo distante. La lettera è un rifugio, un tentativo di mantenere una comunicazione preziosa, uno specchio per riflessioni intime, considerazioni dolorose, interrogativi esistenziali. Un epistolario straordinario che rompe gli schemi tradizionali della scrittura di guerra, supera confini e ambiti tra mittente e destinatario consegnandoci una trama di senti- menti, analisi e giudizi su un tempo lontano. 
Il secondo elemento di riflessione muove proprio da qui. Dalla consapevolezza che lo strumento epistolare, e più in generale le scritture private, rimangono una delle fonti privilegiate per lo studio della storia contemporanea. Si conferma la straordinaria intuizione che risiede dietro la fondazione dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e l’importanza che questa istituzione ha oramai assunto nel panorama nazionale. Certo, si tratta di fonti che hanno bisogno di una critica adeguata, attenta rigorosa: inserire il carteggio nelle compatibilità di allora, definire il perimetro dei luoghi toccati da Antonio Cocco tenendo conto delle motivazioni di chi scrive e legge e delle strategie dei diversi protagonisti. Valorizzare lo spazio e il tempo di una traccia che giunge dal passato per storicizzarla, darle un senso e un valore nel quadro di un’interpretazione a sostegno della lettura di un’epoca, di un episodio, di un passaggio storico. Non tanto il singolo foglio di una lettera quanto l’insieme di una corrispondenza prolungata e intensa, un ponte tra angoli del pianeta, vite in cerca di confidenti e interlocutori. 
Il terzo elemento vive nella sovrapposizione tra la grande storia e le vicende degli individui. Un tratto costitutivo di piani che sovrappongono letture e giudizi sul passato. Nel corso del Novecento, quando le fonti si moltiplicano e si diversificano, il pluralismo dei percorsi soggettivi s’intreccia con lo sfondo di avvenimenti e cesure che qualificano percorsi di ricerca e paradigmi interpretativi. Qui il pregio e l’interesse di questo volume che permette di avvolgere il nastro di una vita cercando eventi e circostanze del passato. 
Le lettere di Antonio Cocco, il diario che scrive a se stesso e alla sua famiglia, come tanti altri che l’Archivio di Pieve Santo Stefano ha il merito di conservare e diffondere, contribuiscono ad arricchire il dibattito di fonti e documenti per interrogare segmenti di passato. Storie, biografie e scritture che mettono in relazione le vicende personali con la storia che fa da sfondo: avventure, quotidianità, piccoli episodi di vita e grandi avvenimenti che incombono. 
 
Umberto Gentiloni Silveri insegna Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. 
 
Dal 24 maggio 1952 Antonio Cocco manca da casa e dalla sua Venezia. I genitori non hanno più sue notizie. Questa è la prima lettera di Antonio Cocco al padre.