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Tratto da

Il mio 8 settembre '43 ebbe inizio il 25 luglio '43

Autore

Orfeo Gagliardini

Tempo di lettura

6 minuti

25 Aprile 2025

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Farinacci
Durante il trasbordo delle valige, il gerarca fu visto recarsi nel prato e bruciare delle carte.

Il 27 aprile 1945 è stata una giornata particolarmente dura per i nostri distaccamenti, ma anche degna di essere menzionata. Già da tre giorni la nostra provincia era invasa dalle truppe tedesche e dai fascisti provenienti da zone operative incalzanti dagli alleati che avevano già oltrepassato il Fiume Po e pressati dai partigiani che li attaccavano da ogni parte. All’improvviso un partigiano ci portò una notizia che ci rallegrò tutti. Gli americani erano giunti sul posto e stavano già trattando la resa con il Comando tedesco asserragliatosi all’Albergo Sole di Merate. Nella stessa giornata verso le ore 15 una colonna fascista transitava da località Brivio (CO) e arrivata al paese di Calco abbandonava la statale 36 per imboccare la strada per Como. Dopo circa due chilometri un gerarca (ancora sconosciuto) a causa di una foratura alla gomma, scendeva dalla propria macchina e requisita un'altra del suo seguito saliva con altre due persone.Durante il trasbordo delle valige, il gerarca fu visto recarsi nel prato e bruciare delle carte. In quello stesso momento alcune macchine della colonna furono fatte segno a colpi d'arma, altre proseguirono per Como e una ritornò verso il percorso precedente. Nello stesso istante io con altri quattro compagni eravamo giunti al distaccamento di Calco per prelevare alcuni fascisti che avevano abbandonato la colonna e fatti prigionieri dai partigiani del luogo. In quel momento vedemmo sfrecciarci sotto il naso un auto Aprilia mimetizzata. Intimavano l'alt, ma inutilmente. Montammo tempestivamente sulla nostra macchina, una Opel, e ci mettemmo all'inseguimento, qualche sparo di intimazione ma l'Aprilia continuava la sua corsa verso Lecco. Fu allora che le pallottole le indirizzammo alle ruote e all'interno della carrozzeria. La macchina comincio a sbandare e si arrestò a pochi metri della portineria dello Stabilimento di tessitura Rivetti di Beverate. Scendemmo dalla nostra macchina, ma gli occupanti dell'Aprilia non si fecero vivi, ci avvicinammo e solo allora l'uomo che era al volante si mosse, tentò di scappare ma un perentorio ordine di fermarsi lo bloccò sui suoi passi. Il nostro prigioniero non tirò mai fuori la mano di tasca e noi, credendo che tenesse un'arma in mano, gli intimammo di tirarla fuori e di mostrarci i documenti. Ebbene, solo in quel momento venimmo a conoscenza che il nostro prigioniero era il "famoso" gerarca Farinacci, prima, nessun partigiano l'aveva riconosciuto.

Mentre Farinacci veniva fatto salire sulla nostra auto una folla sopraggiunta nel frattempo tentava di linciare il prigioniero. Fummo costretti a sparare in aria per disperdere gli scalmanati.

Fatte le relative verifiche all’interno dell’Aprilia, trovammo uno sconosciuto privo di qualsiasi documento. Si era suicidato con un colpo di pistola alla tempia. Stringeva ancora l’arma in pugno. Farinacci ci disse che era il suo segretario ma il nome non lo svelò. Nel sedile posteriore della stessa Aprilia, giaceva una donna gravemente ferita dalle nostre pallottole: era la marchesa Medici del Vascello, amante di Farinacci e nota gerarchessa Fascista. Essa morì dopo 18 giorni all’Ospedale Circolo di Merate, dopo che i partigiani del distaccamento di Beverate avevano predisposto il suo ricovero. Mentre Farinacci veniva fatto salire sulla nostra auto una folla sopraggiunta nel frattempo tentava di linciare il prigioniero. Fummo costretti a sparare in aria per disperdere gli scalmanati. Preso in consegna il prigioniero e dopo aver accordato con il conte Prinetti di Merate, fu deciso di nasconderlo nella sua villa. Giunti sul posto il conte lo ricevette come un ospite di riguardo, non solo, ma qualche ora dopo tentò attraverso una telefonata di prendere accordi con un personaggio di alto grado affinché Farinacci venisse liberato. Ma i partigiani, posti alla sua sorveglianza lo dissuasero dal prendere tale iniziativa. Alla sera, sempre del 27 aprile, verso le ore 21 il Commissario di Brigata, compagno Mafaldo, si recò dal prigioniero ed ebbe un lungo colloquio che dure fino al mattino del giorno 28. Troppo lungo sarebbe elencarne il dialogo, ma da quanto seppi dal compagno Mafaldo, posso garantire che il ministro di Stato si comportò meschinamente e da vigliacco anche nei confronti di chi lo sorresse fino alle ultime ore del suo mandato fascista. Per ordine del comandante di Divisione, compagno Bassi, l'esecuzione del prigioniero avrebbe dovuto aver luogo in piazzale Loreto, ma una Staffetta partigiana giunse a darci notizia che regnava confusione nella zona, fu così che per evitare qualche spiacevole sorpresa si decise di portarlo a Vimercate (MI). Si giunse al Municipio dove si era costituito il Tribunale del popolo. La piazza era gremita di gente. Entrammo nel Palazzo comunale portando Farinacci di fronte ai giudici composti esclusivamente di familiari dei caduti. Il Commissario di Divisione gli lesse l'atto di accusa e chiese per lui la pena di morte. Poi si rivolse ai giudici per sentire il loro parere, un solo grido si levò nell'aula, a morte! a morte!!.

Prima di recarsi dul posto per giustiziarlo, Farinacci chiese di poter scrivere una lettera a sua figlia. La richiesta gli fu accordata. Esso chiese pure di poter confessarsi. Anche questa richiesta venne esaudita. Intanto, la notizia che Farinacci era a Vimercate si era sparsa in tutta la zona, una folla enorme, nonostante la pioggia, si era adunata in ogni via del Paese. Erano trascorsi 15 minuti, quando appariva Farinacci accompagnato da due preti. Farinacci venne collocato contro un muricciolo di cinta. L'ex ministro di Stato si mise con la faccia verso il plotone d'esecuzione, ma un partigiano gli si avvicinò e lo girò con la faccia al muro. Un fatto particolare: nell'istante in cui Farinacci si girò per gridare con voce disperata.. VIVA L'ITALIA, la barba le si imbiancò di colpo, un ordine secco, i colpi della scarica delle armi e giustizia era fatta.