DIMMI di Storie Migranti
Il progetto DIMMI di Storie Migranti
 
L’esperienza, nata nel 2012, ha dato vita a cinque edizioni dell’omonimo concorso riservato alle storie di cittadini di origine o provenienza straniera che vivono in Italia e nella Repubblica di San Marino. Fin dagli inizi il progetto è stato sostenuto dalla Regione Toscana con l’obiettivo di sensibilizzare e coinvolgere i cittadini sui temi della pace, della memoria e del dialogo interculturale. Il progetto ha portato alla creazione di un fondo speciale dei diari migranti istituito presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.
Nel 2018-2019, su proposta di Un Ponte Per… e il sostegno di 47 associazioni, centri di accoglienza e autorità locali,  Diari Multimediali Migranti si è trasformato nel progetto nazionale DIMMI di Storie Migranti finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). Il suo obiettivo principale è stato costruire una nuova narrazione sui temi della migrazione basata sul punto di vista dei migranti. Il progetto si è articolato su tre livelli: la formazione e il coinvolgimento di un’ampia platea di beneficiari, la raccolta e la conservazione delle storie dei migranti, e una campagna di comunicazione per la valorizzazione e la diffusione di queste storie verso un pubblico più ampio.  
 
Il Comitato Scientifico del concorso è formato dalle seguenti organizzazioni: Archivio diaristico Nazionale, Arci, Amref Health Africa, Archivio delle memorie migranti, Circolo Gianni Bosio, Comune di Pontassieve, Comune di San Giovanni Valdarno, Centro di ricerca sull’emigrazione Università della Repubblica di San Marino, Comitato 3 Ottobre, ISMED/ CNR, Rete italiana di cultura popolare, EPALE Italia, Oxfam Italia Intercultura, Unione dei Comuni della Valdera, Un Ponte Per… 
Il Comitato Scientifico è completato da due rappresentanti individuati dagli autori e dalle autrici che hanno partecipato alle edizioni precedenti del Concorso DiMMi.
 
A partire dal 2019 il Concorso Di.M.Mi. si svolge nell’ambito del progetto “DIMMI di storie migranti”. Dall’edizione 2022 DIMMI opera in stretta connessione con il progetto Horizon2020 “ITHACA – Interconnecting Histories and Archives for Migrant Agency” portato avanti da una rete di università e organizzazioni di diversi paesi mediterranei guidata dall’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Dal 2023, al fine di aprirsi a nuove lingue e paesi, l’iniziativa si allarga anche ad altri contesti mediterranei con un secondo concorso, DiMMi International – ITHACA Diary Contest, prima edizione, sviluppato con il progetto europeo di ricerca ITHACA – Interconnecting Histories and Archives for Migrant Agency: Entangled Narratives Across Europe and the Mediterranean Region (www.ithacahorizon.eu), finanziato dalla Commissione europea all’interno del programma Horizon 2020.
 
Per introdurre il percorso di questo mese, ci affidiamo alle parole di Alessandro Triulzi, storico e africanista di fama internazionale, Presidente dell'Archivio Memorie Migranti, profondamente legato all'Archivio Diaristico Nazionale e al progetto DiMMi. Grazie alla sua collaborazione con l’Archivio Diaristico Nazionale, le testimonianze di chi ha attraversato confini e frontiere per approdare in Italia sono diventate parte del patrimonio collettivo dell'Archivio e del Paese, e offrono uno sguardo prezioso sulle nostre identità in movimento.
Con il suo lavoro Triulzi ha aperto uno spazio di ascolto e di memoria, dove ogni voce migrante può essere custodita e condivisa, gettando un ponte tra storie individuali e storia collettiva, la nostra. 
 
Ma ora è tempo di lasciare spazio alla sue parole, pubblicate in introduzione al volume edito nel 2018 da Terre di Mezzo, Parole Oltre Le Frontiere e che riproduciamo qui con l'autorizzazione dell'autore e dell'editore. 
Buona lettura!
 
Introduzione al volume Parole Oltre Le Frontiere, Terre di Mezzo, 2018
Alessandro Triulzi
Erano tutti lì, quel venerdì 15 settembre 2017 nel Teatro comunale di Pieve Santo Stefano, i finalisti del Premio DiMMi, il concorso nazionale dedicato ai racconti di vita delle persone migranti residenti o anche solo soggiornanti in Italia. E faceva una certa impressione osservare quei dieci uomini e donne, alcuni molto giovani, prendere la parola uno a uno, alcuni incespicando altri in piena confidenza con la lingua italiana, per dirci come erano arrivati tra noi e cosa avevano lasciato o subìto per cercare un futuro diverso in un Paese straniero. Un silenzio attento e partecipe accompagnava le loro parole nel teatro gremito di pubblico. Accanto ai finalisti, a mo’ di guida e incoraggiamento, stavano i rappresentanti delle comunità di accoglienza, i territori che avevano contribuito a creare il particolare contesto di ascolto e che avevano sollecitato, seguito e incoraggiato la voce dei migranti fino a Pieve.
“Mandateci i vostri racconti di vita e di migranti, in forma scritta o orale e attraverso qualunque supporto.” A questo appello lanciato dall’Archivio diaristico nazionale ai primi di febbraio 2017 hanno risposto in pochi mesi novantanove persone, tra cui sedici adolescenti, (ottantuno testimonianze sono pervenute in forma scritta, diciotto in formato multimediale), in rappresentanza di ventisei Paesi: quattordici dall’Africa (Burkina Faso, Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Mali, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Somalia e Tunisia), sei dall’Asia centrale e orientale (Afghanistan, Filippine, India, Pakistan, Sri Lanka, Yemen), tre dall’America Latina (Brasile, Colombia, Venezuela), tre dall’Europa orientale (Albania, Polonia, Ucraina).
Il progetto DiMMi, acronimo di Diari Multimediali Migranti, finanziato dalla Regione Toscana in due occasioni (nel 2012 e 2017) e sostenuto da una rete di partner che operano nell’accoglienza e inclusione dei migranti, ha risposto con insperato successo alla costruzione di una “banca dei diari” di Pieve Santo Stefano capace di custodire e diffondere la variegata memoria collettiva e popolare che sta emergendo sul territorio della penisola. Così la banca dei diari si arricchisce di nuove testimonianze multilinguistiche e multiculturali che ne coltivano il patrimonio e ne diversificano i formati e i linguaggi. Il progetto DiMMi sta crescendo: da raccolta puramente regionale di racconti di vita si è trasformato nel 2017 in una raccolta nazionale, e per il 2018 è sostenuto da una cinquantina di associazioni, istituzioni, centri, comunità di base e autorità locali e nazionali attraverso un percorso pubblico di educazione alla cittadinanza globale finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
L’appello che il fondatore dell’Archivio, Saverio Tutino, aveva lanciato nel 1984 (“Avete un diario nel cassetto? Non lasciate che vada in pasto ai topi del 2000”) riecheggia oggi in più modi nei racconti autobiografici dei migranti che vivono o hanno vissuto nel nostro Paese. Ci raccontano di loro ma anche di noi, di come l’Italia cambia non per leggi o divieti ma per pratiche e modi di sentire, di immedesimarsi, di solidarizzare, che soli possono sconfiggere il silenzio e l’indifferenza dei nuovi “topi del 2000”. Perché questi nel frattempo si sono moltiplicati per genere e forme e oggi assediano i diritti di migranti e richiedenti asilo erodendo le conquiste della nostra stessa società, e cancellando la memoria delle molte emigrazioni del suo recente passato.
Le storie qui raccolte fanno riflettere su quanto complesso e articolato sia il processo di rielaborazione dei vissuti personali di migranti e richiedenti asilo, così diversi tra loro pur nella comune condizione di chi espatria nel nuovo millennio. I testimoni-protagonisti del progetto DiMMi raccontano storie di disastri politici, economici e ambientali, gli “spaesamenti” di tutti gli “arrivanti” di ieri e di oggi, la straordinaria determinazione e ingegnosità nel non lasciarsi abbattere, la voglia di raccontare se stessi e dei macigni che hanno trovato sul loro cammino, il trauma del viaggio e dell’arrivo, la mancata accoglienza, la difficile interazione con la lingua, la popolazione, la cultura per loro “altra”, quella nostra, e quella che gli opponiamo contro ogni qual volta loro non ci sembrano abbastanza allineati ai nostri modi di vivere e di sentire. È solo questa vis narrandi, questa voglia di condividere e articolare la loro voce insieme a quella di altri narratori anch’essi ai margini della cultura e della lingua italiana, che ha permesso all’Archivio diaristico nazionale sei anni fa di creare il fondo speciale di diari migranti che è alla base del progetto DiMMi.
Queste storie vengono offerte pertanto come testimonianza, e fonte di maggiore conoscenza e consapevolezza, per chiunque voglia approfondire e conoscere più da vicino il vissuto, i timori, le speranze di chi è costretto nel XXI secolo a lasciare il proprio Paese e a migrare lontano dalla propria terra e famiglia per ricominciare da capo e fondarne una nuova, consolidarne le basi, irrobustirne le radici, dare vita a nuove forme di identità e di appartenenza.
Questi racconti di sé sono la storia vissuta dell’Italia dalle molte lingue e culture che cresce lentamente, quasi sotterraneamente, intorno a noi con spinte e pulsioni che a volte determinano reazioni di paura e chiusura, ma altre volte coinvolgono comunità, gruppi, individui e istituzioni che fanno dell’accoglienza la cifra più visibile del loro stare nel mondo contemporaneo, l’esserne parte senza “coincidere perfettamente con esso”, come scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo (Nottetempo, 2008). Le storie di DiMMi fanno parte di questo stare nel mondo in forme mobili ma razionali di molti stranieri tra noi che, favoriti da particolari contesti inclusivi, hanno potuto esprimere liberamente la propria soggettività e i propri bisogni in modo che fossero condivisibili con quelli di altri.
Come per ogni diario conservato nell’Archivio di Pieve Santo Stefano, si è ritenuto di mantenere la scrittura originale dei componimenti in lingua italiana, ma si è voluto anche incoraggiare il deposito di testi orali e scritti nelle lingue di provenienza, poi tradotti in italiano, per conservare il doppio registro linguistico che lega il qui e il là di ogni migrazione. Si è voluto così lasciare una traccia visibile degli importanti processi transculturali che queste scritture evidenziano, e i percorsi, i tracciati umani, le strade seguite (routes) prima di affondare nel suolo straniero le proprie radici (roots) linguistiche e identitarie. Un processo non facile, come annota Judith, infermiera, arrivata in Italia con i suoi due figli dal Camerun: “Io a volte ho l’impressione di vivere in un incroccio....non lo so Vengo da un paese che nella storia rappresenta tutta l’Africa. Il Camerun è l’Africa in un miniatura, vuol dire che dove si trova tutte le culture dell’Africa e ogni tipo di clima, e anche perché in Camerun si accoglie tutti. […] Ed io sono di padre francese e di madre inglese. Son immigrata in Italia dove i miei figli (anche se lo stato italiano non riconosce) sono italiani [e] la nostra vera identità qual è? Mi pongo ogni tanto questa domanda anche perché c’è una minaccia di guerra civile nel Camerun tra l’Inglese e il francese. Ed io? chi sono? i miei figli [?]”
Le parole di Judith colpiscono per la consapevolezza del dilemma identitario tipico di chi appartiene a più culture fin dal Paese di origine, come è il caso di molti migranti africani, e che non cessa nel limbo definitorio del Paese di arrivo, dove la cittadinanza italiana per molti è ancora un miraggio e l’integrazione passa per tappe progressive di rifiuto/accettazione. Elona, arrivata bambina dall’Albania dopo una dolorosa separazione dal proprio Paese, scopre presto gli ostacoli burocratici e culturali che le impediscono di sentirsi a casa propria: “Arrivata a Caravaggio dovetti scontrarmi con i pregiudizi della gente del posto. La mia iscrizione presso il liceo del paese fu rifiutata malgrado, per legge, ci fosse l’obbligo scola[s]tico fino ai 15 anni e io ne avessi quindi pienamente diritto. Il Preside della scuola, dopo avermi fatto sostenere gli esami di inglese e italiano, mi disse che non poteva accettare la mia iscrizione poiché non ero in possesso del permesso di soggiorno. Per lui e lo stato italiano ero clandestina, difforme alla legge: ero inesistente”. Segue quindi una fase che Elona definisce di iperintegrazione (“Nascondevo ciò che ero per far vedere agli altri quello che loro volevano che [io] fossi”) prima di approdare all’auto-riconoscimento di sé come persona: “A questo mio conflitto personale non sono riu[s]cita a trovare una soluzione però ho capito che la diversità ci rende unici. Ho la fortuna di vivere dentro due mondi, due culture completamente differenti, di arricchirmi dell’una così come dell’altra e questo mi dà una marcia in più… Non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie. Ora ho 31 anni, ho vissuto tutto ciò e molto altro. Dopo 17 anni di residenza in Italia penso che non potrò mai essere italiana, assimilarmi completamente agli Italiani. Penso che tanti italiani, come me, si sentono inquieti, estranei, soli, non integrati in Italia, stranieri. Abbiamo sogni e paure comuni che non dipendono dalla nazionalità. (…) L’Italia mi è più ‘casa’ dell’Albania, in essa ci sono le persone che amo, ma non è questa l’Italia che sogno per i miei figli!”
Cosa sia “casa” per un immigrato è questione ampia e complessa. A volte è un luogo fisico, come per molti di noi più “stanziali”, ma più spesso è uno spazio di interazione mentale, di riconciliazione con se stesso, dove la soggettività riesce a percepirsi e a esprimersi in modo libero, cioè paritario, con il mondo circostante. Il racconto di sé, scrive Paolo Jedlowski ne Il racconto come dimora (Bollati Boringhieri, 2009), è “un ritorno del soggetto a se stesso, in (…) modo tale da attribuire senso a ciò che ha vissuto”, è la capacità di creare uno spazio di memoria e allo stesso tempo di abitarlo, un rivivere il passato in forma nuova, in qualche modo “esperirlo” una seconda volta ma a livello narrativo. Per chi non ha dimora il racconto di sé diventa l’unica dimora possibile.
Narrare la propria storia permette a Faiz, sedicenne egiziano, di rielaborare il momento più drammatico del suo viaggio in mare (“quando è arrivato il barcone ho corso veloce nella l’acqua e sono caduto sotto c’erano sassi grossi non sabbia mi sono fatto male al ginocchio l’acqua si faceva più alta e ho chiesto a un ragazzo di aiutarmi lui mi ha detto stammi lontano che anche io non so nuotare ma li non toccavo e mi sono preso a lui”). Per Ghayas, ventenne pakistano, è intorno alle parole cura e amore che si svolge il racconto della famiglia lontana e il ricordo del padre cacciatore di aquile, e della nonna Gulmadara: “Ogni anno c’è stagione di aquile, lui ha un amore per andare di là e prendere le aquile. Lui le ama le aquile, perché sempre va per prendere le aquile, per cacciare. L’amore non si prende, è reciproco, la persona che ama deve dare il valore a questa persona, fa di questa persona eccezionale. Scambio, tu non puoi prendere amore. Puoi prendere le cose, ma non puoi p[r]endere le persone. Prendere come prendere cura”. Della nonna Gulmadara (da gul che vuol dire “fiore”), morta novantenne, ricorda il suo vestire sempre di nero: “Lei abitava con noi, sempre vestiti grande camicia e pantaloni larghi, sempre vestiva il nero perché anziani vestiva così, dopo di 60 anni nostri anziani non vestiva molto colorati, non si vede bene, perché loro sanno che noi adesso vecchio, non molto rosso, bianco. Il mio nonno è morto 33 anni prima. Qualcuno quando marito morto lei per 40 giorni non vestiva colorato e non si trucca… Sempre lei porta i vestiti neri, ai piedi ciabatte nere, quando entri nella stanza c’è un piccolo posto e tutti mettono le scarpe, lei dentro sta senza scarpe. Non porta niente: collane, orecchini, anelli. Mia nonna ha avuto nove figli: sei maschi, tre femmine. La mamma di mio padre è”.
Sono storie “d’oltre frontiera” semplici e immediate come queste che permettono a Hassan, sessantenne somalo, di rivivere in un impeccabile italiano il suo ritorno a Mogadiscio dopo ventisette anni di assenza per salutare la madre morente, e ricordare gli anni della guerra in casa, mai cessata dal 1991, quando, dottorando all’Università L’Orientale di Napoli, aveva dovuto interrompere le sue ricerche per fuggire da un Paese in preda al caos. Oppure a Mohamed Reza, adolescente afghano, di ricordare con grande precisione in novanta pagine fitte in lingua farsi ogni tappa del lungo viaggio iniziato appena quattordicenne verso la Svezia passando per l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Italia. Ed è qui, di passaggio a Civico Zero, un centro romano per minori non accompagnati, che Mohammad viene incoraggiato “da un uomo anziano” a scrivere la sua storia (“Quell’uomo anziano mi diceva sempre ‘perché non scrivi anche tu?’ e io gli rispondevo ‘Perché per la mia storia non basta un foglio! Quando raggiungerò la mia destinazione allora scriverò la mia storia e te la manderò”), cosa che fa due anni dopo da un piccolo paese innevato del Nord della Svezia rimpiangendo l’ospitalità della “mamma italiana” che per prima l’aveva accolto e accudito a Otranto come un figlio. E poi ancora a Melanny, venezuelana, rimasta per caso in Italia perché qui si trova come turista mentre cambiano le regole di ingresso per gli studenti stranieri in Irlanda e dunque è costretta a vivere la sua migrazione forzata nel nostro Paese vivendo di ospitalità saltuarie e di lavori ai limiti dello sfruttamento.
Due storie colpiscono per il particolare livello di consapevolezza che mostrano i loro autori, rispettivamente Azzurra, una ragazza nigeriana albina oggi poco più che ventenne, e Dominique, uno studente di Lingue, Letterature e Civiltà della Costa d’Avorio, che scrivono entrambi lunghi e dettagliati resoconti del loro accidentato percorso migratorio.
Azzurra, malgrado la forte protezione affettiva della sua famiglia, è vittima di soprusi nel suo Paese a causa dei forti pregiudizi contro l’albinismo. Viene trascinata con la forza in un doloroso commercio di tratta da cui esce a fatica con grande determinazione, e oggi, inserita in un programma di protezione, riesce a scrivere la sua storia articolando il dolore ancora vivo in una grafia ordinata e a tratti ridente. “Quindi eccomi qui a raccontarvi tutto su di me, non perché voglia suscitare pena o pianti in mio nome. Credetemi, i miei giorni di dolore sono ormai passati. Vi racconto di me affinché possiate capire cosa significa lottare e non mollare, essere una sopravvissuta e non una vittima, lottare nelle grandi battaglie, piangere se piangere serve a non fermarsi e non mollare, rimanere calmi e concentrati. Ohhhh Azzurra, presentati e basta parlare!” E ancora: “Scrivere è qualcosa per cui mi sento nata, è un luogo in cui mi sento a mio agio. Scrivere mi porta via il dolore e mi dà pace. Nei mesi scorsi sono riuscita ad unire la mia capacità di scrivere con il mio amore per la musica e ho scoperto di riuscire a scrivere anche qualche piccolo testo per le mie canzoni. Mi piace scrivere con la musica alle orecchie”.
Se Azzurra, abusata fino all’inverosimile nella società di origine, oggi ama scrivere la sua storia “con la musica alle orecchie”, in analogia con i suoi coetanei in Italia, Dominique è fin dall’inizio concentrato sul tentativo di capire, e di spiegare, quello che gli succede personalmente e collettivamente, e insieme a lui al Continente di cui reclama la mancata indipendenza e il continuo assoggettamento politico-economico: “Ah, mamma Africa, la culla dell’umanità, terra di ospitalità, riserva potenziale delle risorse naturali per nutrire il mondo intero. Quando i tuoi figli saranno liberi dalla schiavitù? Dalla colonizzazione? Dalla povertà? Dall’umiliazione? Dalle guerre? Ma chi è responsabile di ciò? (…) Ah, gioventù africana persa ogni speranza del suo continente, volge lo sguardo verso la boutique colma di beni che è l’Europa, la boutique protetta da vetri spessi, la boutique difesa da muri insormontabili, da un poliziotto armato di manganello”.
Arrivato in Italia, insieme alla felicità di avercela fatta dopo lunghi mesi di privazioni e di degrado, Dominique non abbandona lo sguardo critico e la consapevolezza che lo contraddistingue: “Si, ero certamente in Europa ma non tutto era stato vinto. Avevo chiuso con la civiltà araba ed ora dovevo avvicinarmi a quella europea. Ormai non si parlava più di sobah hill, di salam allium kum, e di dinari ma si diceva piuttosto ciao, buon giorno, grazie ed euro.
Le donne, gli uomini, i bambini quasi nudi tutti in spiaggia. Un paese dove ognuno bada a se stesso, ognuno è stressato, ‘buongiorno’ per strada e molte persone che si fanno accompagnare da un cane”.
L’Italia è uno strano Paese cui queste storie restituiscono preziosi sguardi e modi di vedere provenienti dall’esterno: insieme ai ringraziamenti per l’ottenuta accoglienza, questi racconti contengono molti ammonimenti sui percorsi di accoglienza, anche essi accidentati, come le pratiche cosiddette di integrazione una volta accolti. Così Dominique chiude il suo diario: “Sono un viaggiatore venuto da lontano, nel mio bagaglio ho messaggi di vita, un messaggio sulla democrazia, in nome di questa democrazia numerosi africani muoiono ogni giorno”. Gli fa eco Ibrahim, ventunenne della Liberia portato in Italia praticamente a braccia a seguito delle ferite inflittegli in Libia da un gruppo di miliziani (Asma Boys), che per due volte lo imprigionano prima che lui, aiutato dai suo compagni, riesca a imbarcarsi. Viene soccorso in mare, e rimesso letteralmente in piedi all’Ospedale di Lentini in Sicilia: “Questa è la mia [storia] scritta da me Ibrahim Jalloh. Scrive[r]la mi ha fatto rivivere periodi della mia infanzia e della mia adolescenza che porterò sempre nel cuore. Quando tutto sembrava finito, quando ormai disperato invocavo la morte a gran voce perché credevo che solo la morte avrebbe risolto i miei problemi, come per incanto mi trovo in Italia! Mi sta sembrando di vivere un sogno! Amo sinceramente l’Italia, approfitto di queste righe per esprimere quanto profondo e sincero è il sentimento che nutro per lei… Ringrazio Iddio onnipotente per avermi dato la forza e il coraggio per scrivere queste righe”.
A nome delle quarantasette associazioni, gruppi di ascolto, centri di accoglienza, istituzioni nazionali e locali, e comunità le più varie sparse per la penisola, accomunate dalla voglia di costruire intorno al progetto DiMMi le basi di una nuova scrittura diaristica di inclusione, credo sia giusto restituire questo ringraziamento agli autori di queste parole d’oltre frontiera, oltre che ai territori che le hanno ascoltate, che ci parlano di un’Italia che cambia e che accoglie, anche se ancora a macchia di leopardo e più sul terreno delle pratiche che non, o non ancora, su quello dei diritti.
TAPPE