Tratto da
Come un arco tesoAutore
Eugenia Dal BòTempo di lettura
12 minutiDecennio 2012-2022
8 novembre 1940
 
Sì, comincia una nuova vita; nuova perché illuminata da l’amore felice e perché non sono più sola a sostenerne il peso: siamo in due ed è come fossimo una persona sola. Prima il dovere mi guidava; ora è anche il dovere, ma non ne ho io soltanto la responsabilità. Mi par di camminare in un raggio di luce e sono tanto felice! Da Livorno, per mare, a Genova, ove fui accolta da amici, colleghi e scolare con tanta festa che me ne sentii commossa: prima di partire, volli adunare all’albergo qualche amica, e la riunione riuscì gaia e simpatica sì che mi meravigliai fortemente, quando furono partite le ospiti, che un fondo di amarezza mi fosse rimasto nell’animo. Era il distacco dalla vita che avevo fino allora vissuta? O era, invece, il senso di aver ferito qualche anima sensibile, senza volerlo, con l’aperta manifestazione della mia felicità? Ne ho avuto il dubbio, e credo di non essermi sbagliata: è la mia ipersensibilità che mi conduce per mano in questi casi e, quasi sempre, coglie nel segno. Che viaggio delizioso fu quello da Genova ad Aden! Per me tutto era novità, e mio marito godeva della gioconda meraviglia in cui vivevo e, com’era nel suo carattere, mi punzecchiava, spesso cercando di suscitare le mie paure di novellina nei viaggi di mare. [...] Il trovar casa ad Aden, anzi a Steamer Point era cosa difficilissima, quasi impossibile; e, d’altra parte, la vita d’albergo era quanto mai disagiata, a quei tempi. C’era il vantaggio che all’Hotel d’Europe si riunivano quanti Italiani fossero in Aden e si passavano spesso delle simpatiche serate in buona compagnia. In genere, erano passeggieri – in massima ufficiali –, i quali attendevano il piroscafo che li portasse in Italia, o quelli che, giunti dall’Italia, attendevano di poter andare alla loro destinazione. Fra questi ultimi conoscemmo Maurizio Rava, che si fermò a lungo in Aden aspettando un piroscafo che lo portasse in India, ove intendeva recarsi per la caccia grossa: quella sosta all’Hotel d’Europe fu la genesi di una lunga e buona amicizia. Fra i passeggieri che erano in viaggio di ritorno in Italia, conobbi Ugo Ferrandi – di cui avevo molto sentito parlare – che, per la semplicità dei suoi modi e del suo carattere, sapeva farsi amare da tutti. Non gli piaceva parlare di sé, anzi se ne schivava sempre o quasi; ma io ero abilissima a condurlo, senza che se ne accorgesse, a trattare argomenti interessanti come il viaggio, e le maniere, ed il carattere di Bottego, di cui egli era stato compagno. Quante belle e buone ore abbiamo passato assieme sulla veranda dell’albergo a chiacchierare e, sopra tutto, a farlo chiacchierare, e noi a sentirlo con ammirazione ed entusiasmo!
C’era allora in porto la nave “Staffetta” in campagna di studi idrografici, e spesso passavano, fermandosi qualche giorno, altre navi da guerra italiane, reduci da l’oriente: quindi avevamo spesso l’occasione di incontrarci con ufficiali di Marina, che erano molto lieti di trovare un po’ di patria a mezza via. E, quando finalmente potemmo avere una casa nostra, furono nostri ospiti graditissimi. Ricordo fra i tanti l’ammiraglio Robin de Cervin che morì durante la Grande Guerra, sulla “Benedetto Brin”, a Taranto; Enrico Millo, l’eroe dei Dardanelli; Andrea Bapile, poi medaglia d’oro, ed altri molti, che facevano sosta a casa nostra tutti, con piacere. Quando arrivava una nostra nave da guerra nel porto di Aden, il medico di bordo era assediato da Inglesi che volevano consultarlo o che desideravano una sua visita per un caro ammalato: anche all’Ospedale Militare la visita di un medico italiano era sempre desiderata: e questo segno di stima e di fiducia per i nostri sanitari si estendeva anche ad altri professionisti, di cui la presenza era sempre ricercata. Avevo notato all’albergo la frequente presenza – quando c’erano ancorate in porto navi italiane – di marinai italiani e non era raro il caso ch’essi, con accompagnamento di chitarre e mandolini, facessero sentire qualche bella canzonetta e fossero applauditi con piacere dai presenti. Seppi che soltanto ai nostri marinai era permesso di scendere a terra anche di sera, mentre ciò era vietato per tutte le altre marine, compresa l’inglese: gli Italiani che non si ubbriacano e non danno vergognoso spettacolo di sé come fanno Americani ed Inglesi: che non sono rissosi e non danno noia alle donne, come – per lo più – fanno i Francesi, erano graditi ospiti, sempre. C’erano ad Aden (o meglio in un sobborgo di Steamer Point) delle saline, organizzate in modo perfetto, ed erano spesso meta di passeggiate e di riunioni: siciliani tanto i proprietari quanto il personale dirigente che si valeva di mano d’opera indigena, essi facevano onore alla nostra patria come quegli Italiani che erano nel commercio e, sia per la probità loro sia per la genialità della loro organizzazione, erano molto stimati. Sono cose che, a chi vive lontano dalla Patria, danno grande soddisfazione, specialmente, poi in quei tempi in cui l’Italia era, pur troppo, la cenerentola delle nazioni! Oggi si può viaggiare all’estero a testa alta portando fieramente il nome di Italiani, per merito di chi governa il nostro Paese e lo fa rispettare ovunque; ma allora non era così e le soddisfazioni di amor proprio nazionale, cui io ho accennato, avevano una grande importanza per noi. La vita trascorreva tranquilla e varia per me, cui tutto era nuovo ed interessante: non mi stancavo mai di osservare ed ammirare. Ricordo di aver ammirato, come cosa artisticamente notevole, quegli Arabi, giovani – quasi fanciulli – che dall’interno arrivavano alla costa montati sul dorso di cammelli senza sella, e facevano correre le cavalcature ch’essi governavano con una semplice cordicella, più con la voce che con la frusta. Sembravano delle statuine di bronzo viventi: i capegli lunghi, alla nazzarena, lisci, non crespi, il profilo finissimo; una fascia di color azzurro cupo ai lombi, un’altra dello stesso colore a mo’ di turbante sul capo e via come il vento! Erano veramente belli e degni di essere ammirati: sopra tutto perché avevano nella loro persona e nel loro atteggiamento un certo non so che di libero, di audace, di forte, che faceva pensare al deserto ed a quella vita nomade che era certamente la loro.
 
Aden era piena di gente di tutte le razze: Ebrei dalle lunghe zimarre a colori vivaci, dai riccioli spioventi alle tempie; Indiani – quasi tutti occhialuti – dallo sguardo intelligente e penetrante, con qualche cosa di misterioso emanante dal loro aspetto, seri, chiusi in se stessi, dignitosi sempre e vivendo una loro vita, separati completamente da tutti sia arabi che europei: greci, mercanti avidi ed astuti, Abissini, Dancali, Somali: i Somali si distinguono per la loro pulizia e per le originali acconciature: sempre vestiti, o meglio ammantati di bianco il cui candore spicca sul vestiario degli altri indigeni non ugualmente pulito; i giovani hanno spesso i capegli decolorati e, per ottenere ciò, si assoggettano almeno per una settimana ad aver la testa tutta impiastricciata di calce. Quando tolgono quella... muratura, i loro capegli sono di un biondo rossiccio bellissimo su quelle spalle di un nero d’ebano e quei loro corpi snelli e perfetti. Pettinati accuratamente, quei capegli crespi e folti formano proprio un’aureola attorno ai loro volti dai lineamenti finissimi. Noi avevamo un Abissino ed un Arabo per camerieri, un vecchio Somalo per cuoco – il buon Ismail che aveva imparato in Eritrea la cucina italiana – ed una donna indiana che veniva la mattina a scopare e ad altre faccende. Essa aveva sempre il suo bambino in braccio: quando le era necessario aver le mani libere lo metteva in terra e quel cucciolo non dava nessuna noia ed era bello e simpaticissimo: poiché era nudo, diedi alla mamma la stoffa per fargli delle camicine ed un vestitino. Come mi fu grata quella donna! Era una paria, l’infima delle caste indiane, e si meravigliava che io mi occupassi di lei e del suo bambino: i paria sono disprezzati dagli Indiani e più ancora dagli inglesi; ma anch’io mi meravigliavo di trovare, in quell’infima classe della società, tanta gentilezza e tanta dignità: nell’incedere sembrava una dama e portava così bene quei due stracci che formavano il suo vestito, da farla parere una signora. Il bimbo aveva preso confidenza con me che gli usavo qualche gentilezza e gli davo di tanto in tanto la chicca, e la mamma temeva sempre che mi desse noia, ma io leggevo nei suoi begli occhi neri la riconoscenza per le carezze ch’io facevo alla sua creatura! Un giorno il piccolo venne a me con una graziosa gabbietta in cui erano chiusi due bengalini che io accolsi con entusiasmo, ed ella me ne fu silenziosamente grata. Il “dabby”, il lavandaio cioè, – un Arabo intelligentissimo – mi fece ridere, un giorno, annunziandomi che era arrivata in porto “una Marco Polo”: questo nome della prima nave da guerra italiana che era passata da Aden, era rimasto a tutte le navi da guerra nostre, per gli Arabi, come un nome comune; e l’arrivo di una “Marco Polo” era avvenimento sempre gradito agli indigeni che trovavano negli Italiani quella comprensione che nessun altro marinaio aveva per loro. Il cameriere arabo – Abdullah – mi disse un giorno che gl’Italiani e gli Arabi erano della stessa cabila, cioè della stessa famiglia; e questa convinzione era appunto data dalla cordialità, dall’affiatamento dei nostri verso l’elemento indigeno. Gli Arabi, del resto, per il loro tipo fisico e per l’intelligenza sono, più delle altre razze, affini all’europea, benché Semiti. Ci sono delle gentilezze di sentire nei loro costumi che commuovono. Mi ricordo che, un giorno, vidi Abdullah lasciare in asso ciò che stava facendo e correre giù per le scale: mi affacciai alla veranda e lo vidi seguire un accompagnamento funebre che passava salmodiando; lo vidi prendere, per qualche minuto, il posto di uno dei portatori a spalla della bara, poi lasciare ad un altro sopravvenuto il posto e tornarsene in casa. Seguendo io con l’occhio la bara, la vidi passare di spalla in spalla, perché tutti i passanti sentivano il dovere di onorare così il defunto, ignoto a loro tutti; ma fratello ad ognuno. Un’altra gentilezza della gente araba mi fu raccontata dalla sig.ra Cremaschi, che aveva a lungo soggiornato in Hodeida. Gli Arabi, colà, guardano sempre con molta curiosità gli Europei incontrandoli, per via – e specialmente, poi, le donne che, molto raramente, si vedono in quei luoghi – ma se la signora – e questo era spesso accaduto alla mia narratrice – ha sul volto un velo anche leggerissimo, essi volgono la testa da un’altra parte e passano senza guardarla, perché quel velo sembra loro voler esprimere il desiderio di lei di non essere guardata. Santo candore! Una gentilezza squisita che farà ridere qualcuno, forse, ma che potrebbe dar lezione di civiltà alle genti che, in confronto di quegli arabi semplici e naturalmente gentili, si credono tanto superiori! Conviene però osservare che, nelle grandi città, il gentile costume non è più osservato.