Tratto da
Balilla blues. Diario di una liberazioneAutore
Ivano CiprianiTempo di lettura
10 minutiAmore
Eravamo appena tornati dalle vacanze, quando il primo settembre del 1939 scoppiò la guerra mondiale e i settantotto milioni di morti che si sarebbe lasciata alle spalle quel giorno erano ancora vivi, accudivano alle loro faccende, dormivano, lavoravano, andavano a scuola, litigavano, si innamoravano o mettevano al mondo dei figli. Qualcuno non era ancora nato. Questa volta tutti gli abitanti del nostro casamento entrarono in agitazione, si formarono dei capannelli nel cortile, il portiere, quello dell’Ovra, si affannò a passare dagli uni agli altri e sul pianerottolo la signora Rosa, una donnetta che abitava proprio di fronte a noi, piangeva e ripeteva: “Il mio Gigi, il mio povero Gigino... lassù a Cuneo”. La consolava un’altra donna che non avevo mai visto prima: “Sta’ tranquilla, Rosa, Mussolini non è matto, vedrai che terrà l’Italia fuori da questo bordello...” Il dibattito sulla salute mentale del Duce dilagò rapidamente. Chi diceva che non era matto e la guerra non l’avrebbe mai fatta e chi diceva che invece era matto e noi ci saremmo ritrovati nel bel mezzo del conflitto, da un giorno all’altro. E allora chissà cosa sarebbe successo. Sembrava, in quel frangente, che la preoccupazione degli italiani stesse tutta in questa scommessa, se noi saremmo restati neutrali, oppure no; il resto, la guerra, i tedeschi, i polacchi, i francesi e gli inglesi non interessavano a nessuno. Babbo era uscito dai suoi mutismi e, in anticipo di cinque anni, vaticinava sconfitte catastrofiche per le forze tedesche: ma per ora le notizie della radio erano diverse e parlavano di panzer che dilagavano in Polonia e di Stukas che bombardavano Varsavia, di cariche di cavalleria polacca contro i carri armati e di centinaia di migliaia di prigionieri. Mamma piangeva in silenzio, come faceva lei in questi frangenti, e la Lea se ne stava seduta in cucina senza parlare. In quei giorni mangiammo soprattutto minestrine e uova sode con l’insalata, come se fossimo tutti in punizione. Dopo tre giorni di dieta Ivo si presentò a casa con un cartoccio di carne e per quel giorno mangiammo fettine, fritte da lui. Buonissime. Io, in quegli ultimi giorni di vacanza, andavo in giro con Tonino e Sario oppure andavamo insieme al cinema entusiasmandoci per le immagini del cinegiornale, per le divise nere dei carristi di Hitler o per i fanti con l’elmetto in testa che uscivano dalle trincee in mezzo al fumo, lanciando quelle bombe a mano con il bastone corto che avevano loro. E speravamo che il Duce non fosse così matto da lasciare l’Italia fuori dal conflitto.
Una quindicina di giorni dopo capitò infine qualcosa che mi lasciò del tutto indifferente, ma che travolse invece i miei in un mare di facce lunghe e di parole in libertà. Perché i miei, che fino a quel giorno erano sempre stati zitti quando avevamo vissuto particolari eventi politici o militari, questa volta parlavano senza curarsi troppo della mia presenza e, per la prima volta, si interessarono alle mie domande. Spesso le risposte erano lacunose o poco pertinenti, ma pur sempre qualcosa al posto dei silenzi del tempo passato. Così venni a sapere che un certo Stalin, un russo capo di un paese chiamato Unione sovietica, cheda sempre era stato nemico di Hitler e Mussolini, questa volta si era messo d’accordo con “baffetto” e aveva invaso anche lui la Polonia, ma da oriente. Mamma arrivò a chiamarlo un traditore, mentre gli altri le dicevano che forse non sapevamo come stessero esattamente le cose perché i giornali e la radio erano dei fascisti e questi raccontavano un mucchio di bugie. Rimasi di stucco: una battuta così non l’avevo mai sentita dire da loro, davanti a me. La sera ascoltammo Radio Monte Ceneri, senza che qualcuno mi mandasse in camera a fare un disegnino per la zia di Pistoia. Radio Monte Ceneri era svizzera e forse, essendo quelli neutrali, diceva la verità. Ma anche gli svizzeri confermarono che le truppe russe marciavano verso occidente, su territorio polacco. Ivo domandò a Leo, tornato proprio allora dal lavoro, che cosa dicessero al deposito delle ferrovie di questa faccenda. Al deposito? pensai io, ma che c’entra il deposito? “Non ci capiscono niente neppure loro”, rispose Leo, “dicono che è un vero disastro...”. “Tutta politica”, chiuse il discorso mio padre, “è solo una mossa politica”. E dopotutto aveva storicamente ragione.
Il giorno dopo Oruccio venne a casa mia a passare il pomeriggio. C’era da raccontarsi quello che avevamo fatto nell’estate, lui in Sicilia, dai nonni, e io alla Cugna e da commentare gli ultimi avvenimenti, ma Oruccio teneva in mano, in un involto di carta, un disco. “Prepara il grammofono, mi disse subito, che ho una cosa straordinaria da farti sentire”. Io, lui e gli altri del nostro gruppo, a parte Tonino che a quelle cose si annoiava mortalmente, avevamo la passione per le canzoni di cui l’Eiar era prodiga. Parteggiavamo tutti per l’orchestra di Cinico Angelini che aveva tratti un po’ convenzionali, ma anche momenti di vero swing (una parola inglese proibitissima che avevo imparato a leggere e a scrivere). A scuola ci battevamo a cartellate con i nostri avversari e qualche volta ci scappava anche un calcio negli stinchi. Loro erano sostenitori dell’altra orchestra dell’Eiar, quella di Pippo Barzizza solo in apparenza più moderna della nostra. Io tenevo sempre a portata di mano il Radiocorriere che non pubblicava soltanto l’ora dei concerti di Angelini, ma anche tutti i titoli della canzoni che avrebbe suonato. Sottolineavo quelle che non potevo perdere per nessuna ragione al mondo e al momento giusto mi precipitavo ad ascoltarle. Il mio idolo era Alberto Rabagliati che cantava con Angelini, anche se mi dispiaceva che non fosse gradito al Duce che una volta, mi raccontò Oruccio, aveva rotto un suo disco urlando che se ne andasse in America, questo Rabagliati, visto che gli piaceva tanto quel paese e che noi non avevamo bisogno né di lui, né di Toscanini (che pare fosse un direttore d’orchestra abbastanza bravo).
 
Oruccio scartò con grande attenzione il disco, poi, prima che leggessi la scritta, mi disse. “È Saint Louis Blues, capisci? suona e canta Armstrong...” Aspettò una mia reazione, ma la reazione non ci fu perché io non conoscevo né questo Saint Luis, né questo Armstrong.
Mi finsi indaffarato a mettere la puntina al grammofono nuovo di zecca, regalatomi da babbo per il mio compleanno, ma che poi, in famiglia, usavamo tutti insieme per sentire i dischi di Petrolini che a babbo piaceva moltissimo. Quei dischi erano pubblicati dalla Voce del Padrone, con l’etichetta verde e il cagnetto pezzato, bianco e con le orecchie nere, che guarda dentro l’altoparlante a forma di tromba. Li ho rivenduti anni dopo per quattro soldi e continuo ancora a non perdonarmelo. In casa si scherzava su quella storia della “voce del padrone”, strizzando l’occhio e indicando babbo con la testa, ma li si usavaspesso perché Petrolini era proprio divertente, specie nella parodia del Duce, con tutto il rispetto.
 
Forte delle mie esperienze musicali fatte con il maestro Angelini mi misi all’ascolto di Armstrong con un certo scetticismo. La puntina gracchiò un poco sul bordo del disco poi trasmise un urlo di tromba alto, sempre più alto, prepotente, che mi strinse insieme le viscere e il cervello. E quel suono cominciò a modularsi, cambiare, rovesciarsi, evocare, dialogare, sgusciare, colpire in ogni dove e ad ogni altezza e la melodia musicale si aggrovigliava, si scioglieva e tornava ad aggrovigliarsi, e poi saliva, saliva, saliva, in un canto di liberazione. Credo che fu soprattutto quel suono di tromba a far saltare per un attimo il lucchetto delle mie catene invisibili, del mio servaggio psicologico, e mi scatenò sulla sedia a picchiare il palmo delle mani sul tavolo fino a farmi male, segnando il ritmo insieme a Oruccio. Infine, venne la voce arrochita e greve di Armstrong, di cui non capivamo una sola parola, ma che ci lanciava segnali ed allarmi da terre lontane, da spazi siderali, che ci gridava di essere liberi. La tromba tornava ad urlare altissima: vuoi il mondo, ragazzo? vallo a prendere!
 
Mamma entrò di colpo: “Ma siete ammattiti?” gridò, “vi si sente fin dal cortile...”. Io le indicai il disco che girava ancora e le dissi. “È Armstrong, mamma, un negro americano...” “Questo disco chi te l’ha comprato?” chiesi ad Oruccio. “Mio padre” rispose lui. Io insistetti: “Ma dove? Che mestiere fa tuo padre?” “È un militare”, disse evasivo. “L’ha preso a Parigi, prima che scoppiasse la guerra”. Solo più tardi seppi il mestiere che a quel tempo faceva il padre di Oruccio. Era un alto ufficiale, un dirigente del Sim, i servizi segreti dell’esercito italiano del tempo, un monarchico di ferro.