Autore
Antonina AzotiAnno
1992 -2001Luogo
Palermo/provinciaTempo di lettura
6 minutiAd alta voce
Ero particolarmente felice quella sera. Avevo appena scoperto il dono che la Vecchia Natala, la Befana, mi avrebbe portato per il Natale ormai imminente. E avevo capito pure che a donarmelo sarebbero stati, in realtà, i miei genitori. Doveva essere una sorpresa, ma io avevo già intuito qualcosa e, sentendo mamma e papà parlare di un cappottino rosso, ne avevo avuto la conferma. Finsi di non capire e di non sapere e custodii quel segreto, tenendolo tutto per me, senza condividerlo neppure con mio fratello.
Ma solo per poco. Quando mamma ci mise a letto e ci diede il bacio della buona notte, aspettai che lei uscisse dalla stanza e confidai a Pinuccio quello che avevo scoperto: “Per me il cappottino rosso -gli dissi- per te il baschetto blu”. E per dimostrargli che stavo dicendo la verità, lo tirai per la mano invitandolo a spiare dalla fessura della porta socchiusa. Mamma era di spalle, sotto la lampada, e faceva volteggiare tra le mani il mio cappottino rosso. Cucendo, aspettava il rientro di papà che, come tutte le sere, si era recato alla Camera del Lavoro. Pinuccio insaccò la testa nelle spalle e sorrise, portandosi l’indice sulle labbra: “Ssst... ssst”.
Tornammo a letto con una gioia in più nel cuore. Ci addormentammo. Io ero nel lettone e lui nel lettino che papà gli aveva costruito quando era nato. Dormivo e già sognavo, quando spari improvvisi mi fecero trasalire: mi ritrovai seduta in mezzo al letto nella stanza buia e, prima ancora che potessi invocare la mamma, le sue grida strazianti mi ferirono le orecchie. Lei aveva riconosciuto nei lamenti provenienti dalla strada la voce di papà e gli chiedeva: “Cola, Cola, chi ti ficiru?”.
“Mimì, mi spararu”.
Ero impietrita e confusa. Com’era strana quella voce: a me non pareva quella del mio papà, non poteva essere la sua voce. Mi alzai e mi accostai allo spiraglio che qualche ora prima mi era stato complice nella scoperta più importante dei miei quattro anni di vita. Vidi la mamma tendere le braccia, protesa dal balconcino a petto quasi a voler raggiungere a volo papà, mentre continuava a gridare con la voce strozzata.
Papà arrivò trascinandosi a fatica per la breve salita che lo separava da casa e, sorretto dalla mamma, si abbandonò sul letto dove un attimo prima io dormivo beata. Vidi qualcosa di rosso, ma non era il mio cappottino. Grida e frasi mozzate dal pianto e domande convulse: “Cu fu Cola? Chi ti ficiru? Parra, dimmillu!”. Nomi, che nello stesso momento in cui venivano pronunziati morivano sulle labbra. La voce di papà, sempre più bassa, ora sembrava calma: “Mimì, nenti a nuddu haiu fattu iò, nenti a nuddu”.
La casa si affollò di vicini e parenti. Arrivarono pure i carabinieri. Erano vestiti di nero e di rosso. Com’erano alti! Tremavo di freddo e di paura, accartocciata di fianco alla porta. Qualcuno, imbattendosi contro due piedini, si era accorto di me, e sollevandomi da terra mi cacciò dentro il lettino con mio fratello. Lui non si era mosso. Era bianco, di marmo. E si guardava attorno con gli occhi sbarrati. Gli passai le mani sotto le braccia, lui mi cinse il collo e ci abbracciammo stretti, diventando più piccoli di quanto già non fossimo.
La gente ci impediva di guardare oltre la sponda del lettino. Non vedevamo più la mamma, non vedevamo
più papà. E mai più lo rivedemmo. Era la notte del 21 dicembre del 1946, e fu notte per sempre.
 
Rividi la mamma due giorni dopo, al suo ritorno dall’Ospedale civico di Palermo dove aveva assistito papà, grave, ma comunque lucido e cosciente. Insieme avevano parlato, imprecato, maledetto, sperato. L’agonia di papà cessò la mattina del 23 dicembre 1946. Tornarono insieme a casa, ma lui era dentro una cassa chiusa per sempre. E attorno molta gente.
Come in quel giorno di festa quando, a cavalluccio sulle spalle forti del mio papà, avevo dominato raggiante e vittoriosa un caldo bagno di folla. La mamma e io seguivamo la processione di Santa Fortunata. Da lontano avevo visto papà e gli ero corsa incontro. La mamma aveva tentato di trattenermi ma lui, infrangendo le regole della banda che lo avrebbe voluto schierato con i compagni, si era allungato verso di me raccogliendomi tra le sue braccia. 
Mi ero ritrovata alta sulle sue spalle, sorretta con una sola mano perché con l’altra reggeva il bombardino. Ero soddisfatta di riuscire a dividere le sue braccia con quel grosso strumento musicale che di solito me lo rubava cedendolo alla folla.
Ma adesso? Vedevo sì tanta gente, e anche la banda, ma lui? Non suonava con gli altri, non era al solito posto dove avrei potuto scovarlo per corrergli incontro. Invece sentivo la voce della mamma che gridava e chiedeva che il suo Cola ricevesse in chiesa la benedizione, prima di essere portato al cimitero. L’arciprete non l’ascoltava nemmeno. All’aperto spruzzò un po’ d’acqua all’indirizzo della bara e corse via in fretta, infastidito della richiesta della mamma. Una legge ecclesiastica, o forse un’usanza, proibiva ai “morti disgraziati” di entrare nella Casa del Signore per ricevere la benedizione estrema. Le vittime di morte violenta non erano degne di essere ammesse al cospetto divino. Anche Dio, alla stregua degli uccisori, lo considerava colpevole?!
Io non ero tra la folla, ma vedevo e seguivo da un balcone vicino, dove Giuseppina mi teneva stretta tra le braccia oscurandomi gli occhi, nel tentativo di sottrarmi a quello strazio. La mamma si disperava, invocava Dio, chiamava papà e gridava: “Giustizia di Diu, senza pietà né misiricordia!”. Qualcuno la sorreggeva perché non cadesse. Pinuccio non era con me e neppure accanto a lei. Perché ci facevano stare separati?
 
Quel corteo lunghissimo che portava via papà, ci strappava per sempre anche la nostra infanzia. Nulla rimase come prima nella nostra vita, tutto cambiò, persino il mio nome. Nicolina mi chiamai, come papà, e non più Ninuccia.