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Autore

Antonina Azoti

Anno

1992 -2001

Luogo

Palermo/provincia

Tempo di lettura

5 minuti

Ad alta voce

Nel mio cuore un tumulto di sentimenti indistinti; ma ce n’è uno che prevale sugli altri: è rabbia.

Non posso fare a meno di pensare ai tanti morti sconosciuti e dimenticati mentre il 23 Giugno 1992, a un mese dalla strage di Capaci, sono lì, come tanti, davanti al Palazzo di Giustizia a dichiarare il mio debito di riconoscenza a Giovanni Falcone e agli altri morti con lui. Sono con mio marito. Ci scambiamo sguardi d’intesa, espressioni e sensazioni. Avverto un’emozione nuova, in crescendo continuo. Cambio i miei vicini occasionali, hanno facce mai viste: uomini, donne, tanti bambini, giovani e anziani. Stringo mani innumerevoli e sempre diverse. Sento che allentano la stretta giusto per riprenderla subito con più forza. Vorrei stringerle tutte, come per una tacita solenne promessa di impegno reciproco. Ogni stretta mi dà la misura dell’emozione che vibra e che pervade tutti. La sento, passa e scorre senza esaurirsi. Mi guardo intorno: drappi, striscioni, gonfaloni. Scritte e slogan testimoniano rabbia, sdegno, speranza, impegno.

Dal Palazzo di Giustizia il corteo si snoda per due chilometri fino alla casa del magistrato ucciso, fino all’Albero Falcone, divenuto già il simbolo della Resistenza dei palermitani onesti. Ma l’onda va oltre. In via Notarbartolo, il fiume di gente si trasforma in un immenso lago che cresce a dismisura e straripa invadendo traverse e vie adiacenti. Della marea faccio parte anch’io, ma sento che la mia è un’onda lunga, spinge da molto lontano. Per troppo tempo contenuta, la mia onda ha sempre cercato di defluire ma è stata repressa. Ora sento gli argini spezzarsi e scoppiarmi dentro, in un’esplosione che incalza e dirompe, che mi dà dolore fisico. Avverto una fitta al cuore che mi distacca da quella marea. Ma dura poco. Riguardo la folla e vedo i più piccoli a cavalluccio sulle spalle dei loro papà... Si guardano intorno con occhi curiosi. Non tutti sanno e non tutti capiscono, ma ci sono.

Il pomeriggio è assolato e l’asfalto sotto i piedi scotta. La folla si infittisce ancora e, dopo ogni applauso, è difficile riportare le braccia lungo il corpo. Non trovano spazio. Siamo stretti, accaldati, sudati, ma non stanchi. E siamo felici di esserci. Accanto all’Albero ci sono una pedana e un altoparlante dove si alternano oratori improvvisati che scandiscono frasi anch’esse improvvisate:

“Non più mafia!”, “Alla mafia diciamo basta!”.

Siamo migliaia. Mi unisco al ripetuto grido dei nomi delle vittime: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro. I miei applausi scoppiano primi nella folla, anche se a volte i miei pensieri corrono altrove. Mi sento sbattuta tra passato e presente. Istante dopo istante, la mia partecipazione a questo presente di tanti, si carica e grava di un passato solo mio, sempre più pesante, sempre più pressante.

A ogni applauso mi trovo ultima a far tacere le mani: le dita mi bruciano, le sento gonfie, dolenti: sono il mezzo più immediato di espressione. Nel mio cuore un tumulto di sentimenti indistinti; ma ce n’è uno che prevale sugli altri: è rabbia. Mi ribolle dentro e mi sconvolge. Sento il cuore che mi scoppia e una gran voglia di piangere, gridare, liberarmi.

 

Sento la mia voce: “Ascoltatemi, anch’io ho qualcosa da dire...”

Guardo per un attimo Zino: “Devo andare -gli dico devo andare. Anch’io ho qualcosa da dire!”. Colto alla sprovvista mio marito mi fissa chiedendomi senza parole: “Dove vai, cosa fai?” E mentre gli rispondo con lo sguardo, muovo già i primi passi per guadagnare la pedana accanto all’Albero. Zino impallidisce, balbetta qualcosa, allunga la mano per fermarmi, mi afferra per la maglietta. Un solo strattone e sono già scomparsa tagliando la marea di gente. Nessuno mi ostacola. La risolutezza mi rende libera la via. Una donna ha appena finito di recitare una sua poesia in dialetto “La morti di la mafia”, in cui sogna che la mafia non c’è più. Ma è un sogno che al risveglio rende ancor più dolorosa e triste la realtà. 

Arrivo alla pedana e mi ritrovo a stringere il microfono fra le mani. Non riesco a tenerlo fermo, tremo come mai mi era accaduto. Le gambe non mi reggono. Qualcuno mi sostiene, qualcuno che ha forse percepito la tempesta che è in me e mi incoraggia: “Parla, parla, non preoccuparti!”. Sento la mia voce: “Ascoltatemi, anch’io ho qualcosa da dire...”

 

Di colpo silenzio. E posso ascoltare la mia voce che trema: “I morti di mafia non sono soltanto questi che oggi piangiamo. La mafia non uccide solo ora. La mafia uccide da sempre. Ha ucciso anche mio padre, un giovane di trentasette anni, anche lui pieno di vita e di speranze con un futuro tutto da vivere. Aveva moglie e figli. E sapete perché è stato ucciso? Perché rivendicava giustizia, libertà e condizioni di vita più umane per i lavoratori della terra. Era il 21 dicembre del 1946, il suo nome era Nicolò Azoti, io sono la figlia e non l’ho conosciuto”.

Le parole mi sono uscite dalla bocca a valanga. Mi fermo. Scoppia un applauso lungo e commosso. Ora mi sento leggera, senza peso. L’ho detto! Il mio cuore è ancora in tumulto ma l’ho detto! Leggo sui tanti volti espressioni di compiacimento e mi sento stretta in un abbraccio di solidarietà mai conosciuto prima. Sono fiera di mio padre e di me. Per la prima volta nella mia vita, ho trovato il coraggio di parlare pubblicamente di Nicolò Azoti e di denunciare la mafia assassina.

Antonina Azoti nel 2004
Antonina Azoti nel 2004