Autore
Ivano CiprianiAnno
2008 -2014Luogo
RomaTempo di lettura
9 minutiBalilla blues. Diario di una liberazione
Verso la fine della mattinata la signorina maestra ci dette due fogliettini a testa: su uno, ci spiegò, c’erano scritte le cose che dovevamo comprare per seguire le lezioni, quaderni, penna, matite colorate, righello, gomma, tempera matite, a quel che ricordo; sull’altro quelle che dovevamo comprare per partecipare il sabato alle manifestazioni, ovvero i pezzi della divisa da Balilla, quali eravamo diventati, ovvero fazzoletto blu, camicia nera, cappello con la nappa, fusciacca, pantaloncini e scarpe alte, medaglione con la faccia del Duce. C’era anche una nota particolare: portare tre lire per l’iscrizione alla Lega Navale, una società, ci spiegò la maestra, che voleva dare a ciascuno di noi la coscienza che l’Italia è un paese marinaro e che il mare che ci circonda è “nostrum”, cioè, detto in parole semplici, nostro. Le tre lire davano diritto a una tessera, un distintivo e un giornaletto che non vidi mai, e infine a sconti per gite in barca o qualcosa del genere. Poi suonò una campanella. La lezione era finita e mamma mi aspettava fuori dal cancello. A casa, mi disse, era stato preparato un pranzo speciale, tutto mio, e zia Lea mi aveva cucinato una sorpresa che poi seppi essere una fettina di carne al sugo. “Ti prego, mi disse, fallo per me, prova a mangiarla”. Lo feci, era buonissima. Capii che in quel momento stavo dicendo per sempre addio alle pappine della nonna e con esse a un tempo felice della mia vita.
 
A casa mi comprarono subito penna, pennini, matitine colorate, gomma da cancellare e temperamatite da mettere insieme ai quaderni in una bella cartella di cartone pressato che avrei dovuto portare a tracolla. Fu un acquisto fatto in buon umore con mamma e zia Lea, in una cartoleria sopravvissuta fino a pochi anni fa, piena di luce, di madri e di bambini come me, a due passi da Piazza della Regina. Meno allegri furono invece gli acquisti della mia divisa da balilla all’Unione militare, forse per il tempo grigio e piovigginoso di quel giorno o forse perché c’era in famiglia qualche problema di cui ci si guardò bene dal mettermi al corrente. Erano tutti nervosi. Ma io pensavo soltanto alla mia divisa che stava per arrivare e non avevo tempo per misurare gli umori di famiglia. L’Unione era un grande magazzino, come la Rinascente, diciamo, che si trovava all’angolo tra Via del Corso e via Tomacelli nel palazzo che oggi è sede di un supernegozio della H&M (ma dove c’è ancora la scritta Unione Militare sotto un’aquila in cemento che osserva il passeggio con sguardo tenebroso). Aveva però la caratteristica, e il nome già la preannunciava, di vendere soltanto divise per ufficiali, sottufficiali e soldati, diviseda balilla e avanguardista, da consoli della milizia e da infermiere della Croce rossa fino a tutti i reparti dell’esercito, compresi i bersaglieri, e delle camicie nere. Era anche pieno di pupazzoni, immobili come statue, che mostravano al pubblico quanto sarebbero state bene le divise una volta indossate. C’era infine anche un grande spazio dedicato agli oggetti e agli abbigliamenti sportivi. Più tardi, dal 1939, si venderanno all’Unione militare anche le divise degli impiegati pubblici, i quali, secondo Starace e la gerarchia, avrebbero dovuto andare in ufficio in stivali, berretto e giacca di orbace. Ma non ricordo di aver mai visto un solo passante o un addetto ai pubblici adempimenti addobbato in quel modo. Nel dopoguerra l’Unione tentò di riciclarsi, ma ormai aveva fatto il suo tempo e il suo nome poco si confaceva alla vendita di intimo maschile e femminile. Alla fine dovette chiudere. I miei, la solita delegazione di tre persone, babbo, mamma e zia Lea, mi comprarono tutto a “crescenza”. I calzoni corti sembravano lunghi, nella fusciacca destinata a stringermi la vita avrebbe potuto entrarci anche un adulto con il pancione, negli scarponcini ci navigavo dentro, mentre il cappello, che imparai a chiamare con il suo vero nome, “fez”, mi pioveva sugli occhi facendo scendere la nappa a metà della schiena ed oltre. Il medaglione con la faccia del Duce in elmetto lo sottrassi ad ogni arbitrio, afferrandolo ben stretto, onde tutelarlo da qualsiasi sostituzione o perdita. Mio padre, alla cassa, discusse a lungo sul prezzo, tentando di ottenere uno sconto: “Lei (in quel tempo ci si dava ancora del lei) ha la tessera di povertà?” concluse severo e annoiato il cassiere. Babbo si offese e seccamente gli rispose: “Certo che no!”. “E allora che vuole?”, ribatté l’altro severo, “da noi non si fanno sconti”. Mi vergognai moltissimo per quella discussione che babbo non avrebbe mai dovuto fare e cominciai a tirare mio padre per la manica del cappotto sperando di poter uscire da lì il più presto possibile. Fu un ritorno abbastanza triste, un po’, immaginai allora, per doversi trascinare dietro quel pacco enorme, un po’ per la discussione con il cassiere. Ma io ero contento di avere la divisa da balilla, nonostante la sua grandezza smisurata, e al solito, camminando per la strada, posi una serie infinita di perché. Alla fine babbo, seccato, mi dette una risposta brusca: “Perché, perché? Perché il papa non è il re!”. C’era poco da ribattere a un argomento del genere e tacqui per tutto il percorso del tram, la Circolare esterna, quella rossa, che ci riportò finalmente a casa. Dico finalmente a ragion veduta, perché ero eccitatissimo al pensiero di potermi provare in santa pace la divisa tutta intera e non pezzo per pezzo come era accaduto nel negozio.
Avevo bisogno di camera nostra e dello specchio. Appena arrivati mi impossessai del pacco e lo svuotai sul letto, cercai in tasca il medaglione e lo appoggiai sopra il fazzoletto blu. Adesso dovevo spogliarmi e rivestirmi e qui cominciarono le difficoltà. Corsi in cucina da mamma e le chiesi: “Mi aiuti?” “Non posso caro, non è il momento, dobbiamo andare a cena” rispose lei e allora feci il giro: “Zia Lea, mi aiuti tu?” “No tesoro, proprio non posso”, “Zia Bice, me la dai una mano?” “No, amore, guarda qui, debbo finire di ricucire questi calzini e poi sei grande, perché non provi da te?”, “E tu, nonna?” “No piccolino, ho male alla schiena...”. Me ne stavo in piedi, tra una sottana e l’altra delle donne impegnate per la cena, mentre tutte insieme mi sballottavano di qua e di là, con la divisa tra le braccia e gli scarponcini in mano. Tutte mi chiamavano caro, tesoro, amore ma nessuna mi aiutava. Solo alcuni anni più tardi capirò quanto fosse stato duro per loro vedermi vestito da fascista, ma in quel momento mi toccò solo tentare quello che mi consigliava zia Bice: spogliarmi e vestirmi da solo, visto che anche babbo non poteva abbandonare i conti che si era messo a fare su un libricino nero. Così ci provai e non andò tanto male. Restò solo il problema degli scarponcini che non ero proprio riuscito a infilare e quello della fusciacca da avvolgere sui fianchi. Stavo per scoppiare in lacrime quando sentii rumori provenire dal gabinetto: zio Leo era in casa? In effetti si stava facendo la barba, visto che sarebbe dovuto partire a mezzanotte. Così mi presentai a lui. Zio mi guardò, con tutta la faccia insaponata, e il suo commento fu solo un “ah!” tra lo stupefatto e il divertito. “Zio me la daresti una mano a vestirmi? Nessuno può...” dissi con i lucciconi della disperazione. Lui appoggiò il rasoio, mi guardò a lungo dal fez ai piedi, in calzettoni cascanti, alle scarpe in mano, alla fusciacca e disse: “Vieni qui, bischeretto”. Con quella faccia insaponata che aveva, non riuscivo a capire se era arrabbiato o se mi stava prendendo in giro, ma lui, in silenzio, si inginocchiò, mi tolse di mano gli scarponcini e me li mise con un bel nodo doppio, che non avessero a uscirmi dai piedi, e strinse ben bene la fusciacca. Si rialzò, mi dette un colpetto sul fez e disse: “Vai a farti vedere da quelle donne e poi spogliati, che così mascherato mi sembri uno spaventapasseri”.