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Autore

Ivano Cipriani

Anno

2008 -2014

Luogo

Roma

Tempo di lettura

5 minuti

Balilla blues. Diario di una liberazione

Trovai mamma con la testa appoggiata al vetro della finestra di quella che era stata la camera dei nonni e mi accorsi che, come sempre in queste occasioni, piangeva in silenzio.

Già pensavamo alle vacanze alla Cugna quando il 10 di giugno scoppiò anche per noi la seconda guerra mondiale. Lo annunciò il Duce dal balcone di Palazzo Venezia al popolo romano e, grazie alla radio inventata da Marconi, a tutte le piazze d’Italia, dalle grandi città ai piccoli paesi. Quel giorno il Duce aveva indossato la divisa nera di orbace delle grandi occasioni e si era messo in testa un berretto con visiera e una grande aquila che se ne stava lassù immobile e minacciosa, tutta d’oro come si conviene ad un uccello imperiale. Nessuno, a casa mia, era andato in piazza nonostante la cartolina precetto: Ivo era corso al Ministero con la scusa del lavoro e babbo, pur uscito in orario per essere presente al gruppo rionale all’ora stabilita, era ritornato poco dopo. Si era sganciato dal corteo all’altezza di Viale Gorizia ed ora si aggirava per la casa così nervoso che nessuno osava rivolgergli la parola. Trovai mamma con la testa appoggiata al vetro della finestra di quella che era stata la camera dei nonni e mi accorsi che, come sempre in queste occasioni, piangeva in silenzio. Mi sentì dietro di lei, mi circondò con un braccio e mi disse: “La guerra è brutta, caro, è tanto brutta...”. Forse si ricordava di quando aspettava le lettere di babbo dal fronte, tanti anni prima; forse si ricordava le lettere che non arrivarono più alla vicina di casa; forse leggeva in un futuro che ormai, spalancate le porte, stava diventando presente. Ma eravamo in gioco, la guerra era scoppiata e il destino di tutti era stato segnato. “Durerà poco, vedrai”, dissi a mia madre per consolarla, “vinceremo presto e tutto tornerà come prima.” “Durerà molto e non credo che i fascisti vinceranno... Di sicuro milioni di ragazzi andranno a morire” rispose lei. Poi, asciugandosi gli occhi, mi prese per la mano come non faceva più da tanto tempo e andammo in cucina, nella grande cucina, a parlare con la Lea.

Alla sera ci fu il primo allarme aereo e tutti scoprimmo le sirene che urlavano a distesa, ad intervalli regolari.

Alla sera ci fu il primo allarme aereo e tutti scoprimmo le sirene che urlavano a distesa, ad intervalli regolari. A quel segnale, ci avevano detto, bisognava andare al rifugio, stare calmi e prima di tornare a casa aspettare l’urlo continuo del cessato allarme. Le scale si affollarono di gente che si salutava ed era diventata all’improvviso molto gentile: “Prego, prego, passate prima voi che avete i bambini”. Quel primo allarme non provocò paura alcuna: in giro c’era quasi un’aria di novità, di comunione ritrovata tra persone diverse, ma ora uguali di fronte all’incognita che ci veniva segnalata da quell’urlo anonimo che attraversava il cielo della città, entrava nelle case, nei portoni, nelle stanze e in ciascuno di noi. Andammo nel rifugio. Lo avevano allestito nel palazzo di fianco al nostro, anch’esso abitato da ferrovieri. Era un vecchio convento, il 119 di Viale Regina Margherita, trasformato in appartamenti d’abitazione. Come ogni buon convento aveva dei profondi scantinati nei quali erano state messe delle panche, dei pali di sostegno, un estintore nuovo di zecca e un po’ di sabbia qualora fosse andato a fuoco il casamento tutto intero. A regolare il traffico c’era il portiere, quello dell’Ovra, che si era messo al braccio una fascia con sopra scritto Unpa, che tutti gli chiedevano cosa volesse dire e lui si era stancato di ripetere che voleva dire Unione nazionale protezione antiaerea e alla fine se la tolse. Si stette lì un’oretta: la gente chiacchierava come se fosse in salotto e quando non ebbe più niente da dire qualcuno cominciò a pisolare. Da fuori non arrivavano rumori. Alla fine, la sirena lanciò il grido “andate a casa” e lentamente tornammo negli appartamenti, tutti zitti ad esclusione dei bambini che frignavano per essere stati svegliati dal loro sonno, appoggiati com’erano alle gambe del padre o beati sul seno della madre. Qualche sprovveduto cominciò a pensare che se la guerra era tutta lì non c’era gran che da preoccuparsi. Trovammo Ivo che nonostante le sirene e il trambusto per le scale dormiva della grossa e zia Lea chiuse con cautela la porta della sua camera-salotto-studio sperando che non si svegliasse. Ivo non andrà mai al rifugio per tutto il periodo della guerra, neppure quando le cose diventeranno serie e le bombe cominceranno a scoppiare davvero. “Non voglio fare la morte del topo” diceva e se era notte restava a dormire. Zio Leo, quando era a casa, faceva come lui. Io, invece, al rifugio andavo volentieri, mi sembrava di partecipare alla guerra, persino di fare qualche cosa di utile per la causa, mi sentivo eccitato quasi fossi in trincea, e speravo che le sirene che annunciavano il fine allarme suonassero il più tardi possibile.