Autore
Ivano CiprianiAnno
2008 -2014Luogo
RomaTempo di lettura
6 minutiBalilla blues. Diario di una liberazione
“Una gabbia partì
alla ricerca di un uccellino.”
Franz Kafka, Considerazioni sul peccato
 
Sono nato a Roma, alla mezzanotte del 13 maggio 1926, anno quarto dell’Era fascista, in un primo piano di Viale Regina Margherita 123, a due passi da quella che da anni è Piazza della Regina, una piazza romana dove un tempo c’era un cavallo alato e una virago armata di lancia. Allora la povera gente, e soprattutto quella che veniva dalla campagna, partoriva in casa, con l’ausilio di una vicina volenterosa o con l’aiuto scientifico di una mammana. Fatto sta che nonostante le vicine volenterose e la mammana sopravvissi al trauma della nascita, anche se non proprio nelle forme migliori, quelle vanamente auspicate dai genitori (babbo Alfredo e mamma Alma) e dagli altri sei parenti stretti, stretti in tutti i sensi perché costretti a comprimersi in due stanze con cucina abitabile (zia Lea e zia Bice, i nonni materni Speranza e Anselmo, zio Leo e un cugino grandicello, Ivo, figlio improprio di zia Bice) tanto che Leo, nel tentativo di sollevare il morale della famiglia con i suoi scherzi, ripeteva: “Per questo bimbo bisogna preparare la cassettina del sapone”. Ma ce la feci a superare anche la seconda fase dell’esordio nell’esistenza e l’unico rischio serio che corsi fu quello di essere strangolato da un vicino di casa, un operaio dai turni di lavoro implacabili, che non riusciva a dormire per colpa del mio pianto altrettanto implacabile. Ho pianto molto da neonato e da bambino e per tutta l’adolescenza; non c’era situazione un po’ fuori dalla norma che non mi spingesse a pianti dirotti, singhiozzati allo stremo delle forze. Alla fine ho esaurito le lacrime e ho smesso di piangere qualunque fosse la forza del dolore che stavo provando: per una vita non ho pianto più. Alcune volte mi sono chiesto con preoccupazione se fossi diventato tanto arido da non provare commozioni così forti che ingenerassero il pianto: ma le cose non stavano in questo modo. Semplicemente il sacchetto delle lacrime si era esaurito e raggrinzito, fino a scomparire dal mio corpo.
 
Fui regolarmente battezzato nella chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù, e mi fu padrino (in senso buono) uno dei sei parenti stretti, zio Ivo, con il supporto della madrina, zia Lea. I miei non hanno mai coltivato amicizie, ritrosi per natura, arrivati in una grande città come Roma da appena tre anni, non sapevano proprio di chi potevano fidarsi con le paure che si portavano addosso, emigranti dell’antifascismo, cacciati da Pistoia sotto il ricatto delle fucilate, con in casa un ragazzo figlio di uno squadrista che prima aveva messo incinta zia Bice e poi si serviva del fatto per minacciare tutta la famiglia: “Pezzenti rossi, gridava dal camion passando sotto le finestre e agitando il manganello, mi verrò a riprendere quel bastardo”. A mio zio, un macchinista delle ferrovie, avevano spaccato a bastonate un braccio e una spalla e mio nonno, vicesindaco comunista della città (o qualcosa del genere), era scampato per un pelo a quattro rivoltellate. Ora il poveruomo non era più lui, blaterava che i giovani non si muovevano e che non c’era più niente da fare, scriveva appelli e drammi d’epoca, finché qualche anno appresso l’Alzehaimer non l’avrebbe distrutto e le mie zie sarebbero state costrette a recuperarlo quattro volte al giorno quando spariva da casa per trascinarsi a chiedere l’elemosina sulla scalinata della chiesa di Piazza Quadrata. Una piazza, quella, che non si sa perché tutti continuano a chiamare ancor oggi “quadrata” (termine discutibile anche sotto il profilo geometrico) essendo il suo vero nome quello della capitale dell’Argentina, Buenos Aires.
 
La mia famiglia di allora, politicamente parlando, era una sorta di centro sinistra di oggi: tutti comunisti, meno mio padre che proveniva da una famiglia fieramente cattolica, di militanti del Partito Popolare che non gli perdonarono mai di essersi innamorato di una comunista, figlia di comunisti, parente di socialisti e anarchici. Così mio padre se n’era andato da Candeglia, un paesetto vicino a Pistoia, dove il mio nonno paterno gestiva una mescita di vino nella quale il babbo aveva cercato, senza farcela, di lavorare come cameriere. Lui coltivava delle ambizioni e come molti poveri ambiziosi di quel tempo sperò di aprirsi una strada partendo volontario per la guerra di Libia. Se la fece tutta, fino alla presa di Rodi. Tornò a casa con i gradi di sergente e la Patria sembrò molto soddisfatta del suo operato, visto che dopo appena tre anni lo richiamò in armi a fare un’altra guerra. Il 24 maggio del 1915, il giorno del suo compleanno, si trovò a traversare la frontiera, come poeticamente recita la canzone del Piave. Lo smobilitarono dopo altri quattro anni, con una gamba malmessa, una croce di bronzo e una promozione, da sergente a sergente maggiore; ma in grado di raccontare gli orrori della guerra e soprattutto quelli della ritirata di Caporetto e, in proprio, di essere cascato sotto le trincee degli austriaci mentre stendeva i cavi telefonici e degli alpini che lo avevano salvato, a rischio della loro vita. Per tutti i miei anni giovanili non ha voluto che saldassi, come si usava fare allora per siglare un patto di ferro con la divinità, la catenina della Madonna di Pompei che portavo al collo perché voleva che, tirandola, potesse rompersi subito. Aveva visto, durante la ritirata, i soldati rubare ai morti le catenine e se non venivano via al primo strattone gli tagliavano la gola. Non poteva pensare che a me potesse capitare qualcosa del genere: morto sì, ma mutilato orribilmente mai. Per i miei l’ottimismo è stato una virtù permanente.