Autore
Maria Luisa PedroniAnno
1993Luogo
GenovaTempo di lettura
3 minutiIl giardino con le siepi di bosso
Il due giugno 1946 gli italiani furono chiamati ad esprimersi sulla forma istituzionale dello Stato. Si trattava di scegliere tra monarchia e repubblica. L’estate si preannunciava bella; le giornate si succedevano calde e senza nuvole e nell’atmosfera era un’eccitazione piacevole. Anche Elisa era piena d’animazione. Era come se camminasse più leggermente: un’infinità di idee si affollavano nel suo cervello e si alternavano così rapidamente che non poteva afferrarle. Si recò con le amiche nel centro del paese per osservare la gente che andava a votare. L’odore di glicine in fiore la rimandò alla prima infanzia. Si rivedeva con la mamma, la domenica, vestita a festa, passeggiare per il quartiere con l’orecchio costantemente teso al suono delle sirene. E il giardino con le siepi di bosso restava sempre nella sua mente come una visione preziosa. Conservava un ottimo ricordo della mamma, offuscato appena dalla memoria delle orazioni serali. Molta gente affollava la piazza principale: persone con la faccia stupida, uomini che agitavano la scheda elettorale come fosse un trofeo. Costoro, appena ieri costretti alla fame, adesso arricciavano il naso davanti alle trattorie casalinghe e lamentavano l’assenza in paese di ristoranti <fini>.
“Guardateli un po’ “— sbottavano i nativi nella loro rudezza ligure — “sino a ieri mangiavano i topi e adesso hanno tante storie”.
Alcune di queste persone, col loro berciare sguaiato rendevano di pubblico dominio questioni personali; con grottesche perifrasi miravano a far capire agli altri di possedere il frigorifero. La loro agitazione turbava la bellezza del paesaggio. Frano così brutti! Si leggeva in quelle facce una spaventosa mediocrità; si sentiva che erano esseri estranei a qualsiasi idea di bellezza.
“Povera gente” — pensò Elisa.
E le venne in mente che tutti quegli elettori con i loro futili desideri e i loro crucci meschini erano mortali.
Anche loro amavano e un giorno avrebbero dovuto separarsi da quelli a cui volevano bene: il figlio dalla madre, la moglie dal marito; e forse la loro sorte era ancora più tragica perché ignoravano tutto ciò che dava bellezza al mondo.
Verso sera il signor Oreste ritenne opportuno di fornire alla figlia qualche chiarimento sulla chiamata alle urne.
“Si è trattato di scegliere tra monarchia e repubblica” — spiegò — “e la maggioranza degli italiani ha optato per la seconda. Dunque, dopo ottantacinque anni, cessa di esistere il regno d’Italia”.
Come al solito Corinna interferì; “Cosa vuoi che capisca di politica una ragazzina di quell’età? Già a me le donne che si interessano di queste cose mi fanno torcere le budella”.
Raramente il signor Oreste esprimeva le proprie emozioni con segni violenti. Ma questa volta perse il controllo: “Vai in cucina che è il tuo posto!” urlò.
La donna si mostrò gravemente offesa. Sbatté a terra lo straccio che aveva in mano e si allontanò borbottando: “Fate sempre tante belle chiacchiere, siete tutti maestri, intanto chi non ne ha non mangia”.