Autore
Seydi Rodriguez GutierrezAnno
-Luogo
CubaTempo di lettura
5 minuti 30 secondiNon ti avrei conosciuto
Luglio 1997.
 
Uscire da Cuba equivaleva a vincere l’enalotto e io mi giocai tutto il biglietto.
 
Sognavo di scappare via dall’isola per sfuggire a tutte le restrizioni e a tutte le mancanze che vivevo nel mio quotidiano: non poter dire né fare quello che volevo mi faceva soffrire tremendamente. Le volte in cui seguivo la mia volontà ero giudicata inadeguata o controrivoluzionaria, la peggior etichetta che ci potessero attribuire all’interno di quella società (significava essere contro la propria casa, come il peggiore dei ribelli indesiderati).
Non vedere nessun futuro, ma solo limiti e divieti, non poter fare niente, nada de nada, patire la fame dopo la caduta dell’URSS, vecchia repubblica sovietica, creava in me una frustrazione da cui volevo e dovevo prendere le distanze.
Fuggire era l’unica soluzione.
Nell’università di Balletto di Camagüey una mattina, mentre frequentavo la lezione di filosofia Marxsista Leninista, sentii due uomini chiedere chi fosse Seydi.
Non li avevo mai visti prima: chi erano? Cosa avevo fatto?
I due uomini chiesero alla mia professoressa il permesso di parlarmi in privato:
- Siamo un gruppo di musicisti e stiamo per fare un viaggio in Italia, vieni con noi?
La compagnia del Balletto di Camagüey ci ha dato il tuo nome.
Non potevo crederci, ho pensato che fosse uno sbaglio. Cercavano tre ballerine per il loro spettacolo musicale... una sarei stata io!
Soltanto dopo aver detto di sì ho scoperto che avrei ballato la salsa. Per la verità io non avevo mai mosso un passo di salsa prima di allora; la vedevo ballare ma io non ci riuscivo, mi sentivo impacciata, proprio come quando indossi un abito che non è per te e ti senti un alieno. Da anni studiavo danza classica e avevo il corpo fasciato nella rigidità del minuetto. Il viaggio necessitava quindi di un sacrificio, c’era intrinseca una sfida: imparare a ballare la salsa cubana, che non è un ballo singolo, ma racchiude in sé il son, il cha cha cha, el pilón, el mozambique, el mambo, el merengue... aiuto!
Per l’alto livello di agonismo che richiede divenire ballerina professionista di balletto, eseguire i balli di tutta la gamma del folclore cubano era visto dalla compagnia del Balletto di Camagüey, di cui io all’epoca facevo parte, come qualcosa di molto più facile, perché non necessitava di una magrezza estrema, cosa che invece esige severamente la danza classica. Appena entrai in compagnia, a diciassette anni, cominciai a ingrassare e per questo, in compagnia, nei balletti mi lasciavano sempre ultima; facevo le parti meno importanti perché ero aumentata di due chili e quindi per tutti ero grassa. La direttrice stessa mi chiamò nel suo ufficio e mi disse:
“Non puoi ballare perché il tutù ti sta stretto!”
 
Stavo per realizzare il mio sogno di uscire da Cuba grazie a quei chili in più, perché grazie a quelli sono stata scelta per ballare la salsa in Italia. L’emozione era contrastante: da una parte ero felicissima di partire e dall’altra avevo paura di perdere la mia carriera di ballerina classica.
Tutti noi tredici artisti scelti dalla compagnia, siamo arrivati all’Avana come richiesto: i giorni passavano e non avevamo più notizie, i soldi finivano e gli amici che ci stavano ospitando non erano più in grado di farlo. Sembrava addirittura che non si partisse più, alcune voci dicevano che il viaggio fosse stato cancellato e che saremmo dovuti tornare a casa a mani vuote.
Io nel frattempo pensavo alla mia mamma, che avevo salutato nel giorno stesso del suo compleanno, alla stazione dei treni del mio paese, Florida, in provincia di Camagüey. Fu un regalo a dir poco bizzarro quello, per lei: sua figlia di diciannove anni se ne stava andando via, molto lontano da Cuba.
Io coltivavo l’idea di non ritornare più, ma non potevo dirglielo perché sapevo che sarebbe stato un delitto, sia per lei sia per me: dirglielo significava dichiararmi una fuorilegge agli occhi di entrambe; inoltre quando la polizia l’avrebbe interrogata, lei non doveva sapere nulla.
Alla fine ci riuscii, mi trovavo nell’aereo verso l’Italia: il viaggio era iniziato e io ero al settimo cielo!
Il permesso per uscire da Cuba fu rilasciato dalle istituzioni cubane solo per sei mesi, al termine dei quali era d’obbligo il rientro in patria altrimenti avrei perso il diritto di tornarci. Non ci sono più tornata: per sette anni, dopo quel saluto in stazione dei treni, sono stata senza vedere mia madre.