Era la fine di novembre del 1953. Un martedì notte.
Il treno sbuffava e stavamo uscendo dalla stazione Termini. Lasciammo il finestrino. Ormai genitori e fratelli non sventolavano più i fazzoletti bianchi e ci sedemmo. Erano venuti a salutarci. C’era anche il cugino di mio marito, Giorgio, con la moglie Anna Maria e mia suocera che non riuscì a non commuoversi. Quel suo unico figlio che le aveva dato tante preoccupazioni, se ne stava andando e chissà quando sarebbe ritornato. C’erano state tensioni, perché tutti erano contrari alla nostra partenza:
“In che guaio ti vai a cacciare?” mi aveva chiesto mia madre. Io, come al solito, non le risposi e alzai le spalle. Continuò a dire che ero pazza e che mai le avrei dato una soddisfazione, che il mio matrimonio era tutto sbagliato, che avrei dovuto laurearmi in pedagogia e invece avevo buttato tutto all’aria. Ero un’incosciente. Alzai le spalle, salutai papà e le sorelline e me ne andai. Sapevo che con lei non era possibile ragionare.
Per questo non avrei pensato venissero a salutarci in stazione. Ne fui meravigliata anche perché era quasi mezzanotte.
Tutti sapevano soltanto che eravamo diretti a Praga e nient’altro. Eravamo stati molto reticenti, come ci avevano detto di fare. Non avevamo nemmeno lasciato il nostro futuro indirizzo, perché non lo sapevamo e non avevamo detto quale lavoro di preciso avremmo fatto, né quanto tempo saremmo rimasti a Praga. Anche noi sapevamo soltanto che avremmo lavorato per la radio clandestina del PCI, ospitata gratuitamente dalla Cecoslovacca, come solidarietà dell’internazionalismo socialista.
Mia madre mi confessò al mio ritorno in Italia, che pensava fossimo stati arruolati dal KGB, il Ke-ghe-be, Kamitiet Gosudarctviennaia Bezopacnoct, cioé Comitato per la Sicurezza dello Stato, tragicamente noto in Italia come Kappa Gi Bi.
 
In quegli anni il governo italiano non rilasciava i visti per gli Stati dell’Est, oltre cortina, come venivano indicati i Paesi del socialismo reale. A quei tempi gli iscritti al PCI o i sospettati di simpatia per i comunisti, non potevano ottenere il visto di ingresso negli USA. Il nostro era un espatrio clandestino e sul passaporto un timbro indicava tutti i Paesi che l’Italia vietava.
Avevamo trovato posto in uno scompartimento di seconda classe con cuccette. Mi strinsi in un lungo abbraccio a mio marito. Eravamo felici. Non ci interessava il viaggio, non ci incuriosivano i luoghi che avremmo attraversato, ma  soltanto la fine del viaggio, Praga, una città della quale sapevamo pochissimo, anche se a Botteghe Oscure ci avevano fatto leggere diverse cose sulla Cecoslovacchia. Praga voleva dire non soltanto aver trovato un lavoro per tutt’e due, ma lavorare per accelerare il processo della democrazia nel nostro Paese e farlo diventare un pacifico e libero Paese socialista.
Ci eravamo sposati nel luglio dell’anno precedente, io  venti anni e lui ventiquattro. Io avevo trovato solo sporadiche supplenze in paesini della provincia romana (che raggiungevo con difficoltà  quando lui non poteva accompagnarmi con la topolino) alzandomi alle cinque la mattina e un doposcuola nel quartiere San Lorenzo. Avevo anche insegnato per un anno in una scuola popolare della borgata Trullo. Fu un disastro. Una sera ci fu un’incursione di teppisti che distrussero tutto, anche le lampadine. Io mi nascosi in un angolo del fabbricato e rimasi lì al buio, ad aspettare che qualcuno mi venisse a salvare, tremando per la paura. Ma non venne nessuno. Finalmente arrivò mio marito che ogni sera mi veniva a prendere. Persi il lavoro  perché andai in  Provveditorato e dissi che non ci sarei più andata per nessuna ragione al mondo.
Sergio e il suo socio non riuscivano a  vendere bilance e affettatrici che ricevevano in deposito. Venivano pagati con le cambiali e per mangiare dovevamo cercare di cambiarle in danaro. Avevo  anche lasciato l’Università, perché non riuscivo né a pagare le tasse né a dare altri esami. I primi erano andati bene, avevo preso due 27 e un 28 addirittura col professor Luigi Volpicelli, famoso pedagogista..
Per qualche mese avevo lavorato alla segreteria di Umberto Terracini, al Senato. Con me c’era anche Mario Garofalo che avrebbe potuto essere mio padre. Non sapevo scrivere a macchina e Terracini aveva sempre qualcosa da dettare. In quelle occasioni mi emozionavo talmente per la paura di fare errori, che mi sudavano le mani.
Terracini era un uomo di poche parole. Aveva un suo modo complicato di scrivere con periodi lunghissimi e  leggendolo non si sapeva mai quando sarebbe arrivato il punto per tirare il fiato. Uomo di grande prestigio, giurista e costituzionalista, mi metteva soggezione. Non era alto di statura, pochi capelli in testa, grandi occhiali che non nascondevano lo strabismo. Riceveva un’infinità di persone. Il più simpatico era Giuliano Pajetta, fratello minore di Giancarlo, che si fermava a parlare con noi con affabilità e aveva sempre una barzelletta politica da raccontare. Gli altri non ci guardavano nemmeno. La moglie di Terracini, Laura che si diceva fosse un’attrice, era bella e bionda, ma mai che mi avesse salutato. Ogni anno il 20 settembre, Terracini commemorava a Porta Pia l’ingresso dei bersaglieri nella Roma papalina.
Una volta la Federazione  del PCI chiese a noi due di scrivere un opuscolo contro la Comunità Europea dell’Acciaio. Noi ci mettemmo al lavoro con serietà, raccogliendo tutte le documentazioni possibili. Sottoponemmo il testo a Terracini. Lui lesse, ci guardò, restituì lo scritto a Garofalo e  disse:
“Certo, la Federazione romana deve essere ridotta molto male se affida a voi questo compito.”
Terracini mi pagava con soldi suoi, non del Senato, che erano pochissimi. Di lavoro ce n’era tanto, specie dopo le sue vacanze. Ogni anno, d’estate, con la moglie, tornava a Ventotene in quel carcere dove era stato rinchiuso da Mussolini per 17 anni. Parlava con tutti i detenuti e si offriva di interessarsi delle loro pratiche, gratuitamente. Tornava con una mole di lavoro incredibile. Noi dovevamo seguire le pratiche.
Ricordo un pomeriggio di tensione. Avevo battuto a macchina per ore l’intervento di Terracini. Doveva parlare in aula del delitto Montesi. Era successo che a Capocotta l’11 aprile del 1953 era stata uccisa una ragazza di nome Anna Maria Montesi. Il suo cadavere era stato trovato sulla spiaggia. 
La lotta politica di quegli anni era fatta di colpi bassi da parte di tutti, a tal punto che anche un delitto comune rientrava nello scontro politico. Terracini nel suo intervento si accanì contro la DC e i suoi dirigenti cercando di dimostrare la loro ipocrisia, disonestà, connivenza e chi più ne ha più ne metta, perché sembrava risultare implicato nella serata da dolce vita a Capocotta, Piero Piccioni, figlio del ministro degli esteri Attilio. Piero Piccioni, musicista fra i più bravi delle colonne musicali dei films italiani, venne dopo alcuni anni totalmente scagionato dall’accusa.
 
Nella cuccetta non dormimmo molto, anche se il viaggio non fu avventuroso come succedeva nei primi anni del dopoguerra. Eravamo emozionati ed anche preoccupati. Alla frontiera un qualsiasi poliziotto avrebbe potuto arrestarci e rispedirci a casa. Ma noi eravamo carichi di entusiasmo.
Nipote e figlia di ferrovieri, avevo imparato presto l’amore per il viaggio. Viaggiare era per me un’emozione, una continua sorpresa. Mi piaceva non sapere cosa avrei trovato. Adoravo le stazioni e il loro odore, non mi dispiaceva quando dal finestrino entrava il fumo della locomotiva e ci sporcava il vestito. Col fumo entravano nello scompartimento anche minuscole particelle di carbone bruciato. Chiudevo il finestrino soltanto sotto le gallerie anche per non sentire più le proteste dei miei. Mi divertiva vedere nelle stazioni il via vai di gente con fagotti, valigie, bambini piagnucolanti. Mi piaceva sdraiarmi sulle poltrone di velluto rosso col poggiatesta inamidato e le scritte FF.SS. che erano anche sulle tendine color avana dei finestrini. Viaggiavamo sempre in I^ classe gratis e di notte prendevamo a noleggio  dai facchini, un cuscino bianco per appoggiarvi la testa. Se il viaggio era di giorno, portavo sempre con me un libro, ma finivo  regolarmente con la fronte premuta contro il vetro del finestrino per vedere il mondo che mi sfuggiva dal treno in corsa. Ogni volta che iniziavo un viaggio, sapevo che sarei ritornata. Questa volta era diverso
Invece quella notte, non mi interessava il viaggio, ma la meta. Tutt’e due ci sentivamo tesi come corde e speravamo solo che tutto finisse al più presto. Dopo sei ore entrammo nella galleria del Vernio. Fino a Bologna sapevo a memoria il percorso. Dopo la lunga galleria ce n’erano altre cinque. Il nonno diceva che la stazione di Bologna era un grande tronco ferroviario e non era di testa come quella di Roma e di Firenze.
Erano passati solo dieci giorni da quando Edoardo D’Onofrio e Aldo Lampredi ci proposero di andare a lavorare a Praga. Ci sembrava di toccare il cielo con un dito, perché voleva dire, prima di tutto, aver trovato un lavoro con uno stipendio sicuro.. Eravamo entusiasti all’idea di vivere in un paese socialista, lavorare per il PCI, per una giusta causa. Sarebbe stato il nostro modo di fare politica che  era diventata una parte importante della nostra vita.
Durante alcuni incontri al quarto piano di Botteghe Oscure, avevamo ricevuto le istruzioni. E anche i soldi, perché noi non avevamo una lira. In treno saremmo arrivati fino a Vienna. Ci dissero anche in quale albergo scendere. A quel tempo la città era divisa in tante fette quanti erano gli alleati vincitori della seconda guerra mondiale. La divisione iniziava dal centro storico, il ring, una strada larga fatta a cerchio pieno di luci, sfavillante di negozi, ristoranti e alberghi.
Noi dovevamo scendere nella zona sovietica, la meno luccicante.
Quando il treno si fermò alla frontiera, salì prima un poliziotto italiano e dopo un po’ un austriaco.  Noi restammo seduti senza parlare. Andò tutto bene.
Arrivati a Vienna ci dirigemmo subito al posto di blocco  sovietico. Mostrammo a un soldato i documenti che a Botteghe Oscure ci avevano dato. Ci fecero passare. Salimmo su un taxi, una macchina mai vista prima e in cattive condizioni e ci facemmo portare all’albergo indicato. Un po’ in francese, un po’ inglese, ma soprattutto a gesti, riuscimmo a farci capire. Non sapevamo una parola di tedesco se non achtung e verbieten  imparati durante l’occupazione nazista. Quando finalmente entrammo in camera, io mi buttai sul letto e caddi in una crisi di riso da farmi venire le lacrime agli occhi e il mal di pancia. Ogni tanto mi tiravo su con le mani sullo stomaco dicendo: Ohi, ohi, basta, basta!
Mi scendevano lacrime sulle guance. Sergio non riusciva a frenare la mia crisi. Finalmente mi ricomposi e dopo aver fatto una doccia per rinsavire, decidemmo di non disfare il nostro sacco. Saremmo ripartiti subito, pensavamo. Ce ne andammo in giro per quel pezzo di città che non ci piacque molto.
Ci presentammo al comando sovietico. Mentre un uomo grosso e alto guardava i nostri documenti scrutandoci con diffidenza, due soldati ci presero per un braccio e, con maniere sgarbate, ci chiusero in una stanza dove c’erano solamente due sedie e nient’altro. Noi ci eravamo profusi in grandi sorrisi, ma nessuno dei militari aveva in qualche modo corrisposto. Eppure avevamo dimostrato chiaramente di essere felici di vedere da vicino i soldati della gloriosa e vittoriosa Armata Sovietica, che portavano sul berretto una stella di metallo rossa con incisi la falce e il martello. Invece non ci accolsero come compagni, come pensavamo, né come amici. Fumavano strane sigarette con poco tabacco e grande bocchino di cartone. Cominciammo a pensare che D’Onofrio e Lampredi non ci avevano informato esattamente di come sarebbero andate le cose.
I sovietici ci sembrarono molto sospettosi e non dimostravano alcun cenno di amicizia nei nostri confronti. Noi non riuscivamo a capire nulla di quello che dicevano e continuavamo a mostrare  lettere e le nostre tessere d’iscrizione al PCI.
Dopo due ore, l’uomo grosso e alto riaprì la porta e ci condusse in un’altra stanza. Un altro soldato con una decina di medaglie sul petto riuscì a farci capire che il lasciapassare l’avremmo avuto il giorno dopo.
Come concordato, Sergio telefonò a Roma e informò della situazione, usando le parole convenute. Capimmo che saremmo dovuti restare a Vienna per alcuni giorni. Al nuovo appuntamento telefonico, avremmo saputo quando poter partire per Praga.
Mi resi conto, improvvisamente, di essere entrata nella clandestinità. Non l’avevo messo in conto, ma non mi fece paura. Mi sentivo in vacanza, volevo godermi Vienna ed ero molto curiosa della nostra nuova vita. Non riuscivo ad immaginarmela.
Quando ci diedero i nuovi documenti e il lasciapassare sovietico, potemmo girare per la città, passando da una zona all’altra.
Quei giorni a Vienna furono stupendi. Facevamo i turisti. E dire che soltanto un mese prima per noi era impensabile vivere all’estero, in un albergo, spesati di tutto, mangiare tre volte al giorno.
Visitammo musei, palazzi, chiese anche nelle vicinanze della città. Mangiavamo dove capitava scegliendo il meno peggio. Imparammo subito che bisognava mangiare prima gli spaghetti stracotti messi nel piatto come contorno e poi la carne che era sempre o troppo unta o troppo salata. Non riuscii a mandar giù l’insalata con lo zucchero.
Richiamammo Botteghe Oscure e ritornammo al comando sovietico col sacco, pronti per partire. A ognuno di noi venne consegnata una busta verde con dentro altri documenti e i biglietti di viaggio. Non ci restituirono i nostri che avevamo consegnato. I sovietici furono rigidi e di poche parole. Tanto noi non capivamo nulla. Nessuno ci salutò. Forse erano contenti di essersi liberati di una bega per loro di nessun interesse.
In tassi arrivammo in stazione. Dopo mezz’ora salimmo sul treno per Praga. Era fatta!
Praha
Ci avevano detto in quale scompartimento salire, dove c’erano militari sovietici. Ci sedemmo vicini l’uno all’altra tenendoci per mano, stretti come quando da fidanzati ci vedevamo di nascosto. Dopo non molto il treno si fermò alla frontiera. Sergio si alzò, dalla valigia prese una bottiglia piccola e schiacciata che aveva riempito di brandy. Aveva portato anche due bicchieri
di carta. Festeggiammo con un brindisi l’entrata in Cecoslovacchia. Eravamo dentro la  cortina di ferro dove mangiavano i bambini secondo la propaganda anticomunista, eravamo in un Paese socialista. La tensione man mano si allentò e mi concessi il piacere di guardare fuori dal finestrino i monti innevati.
Cominciammo a fantasticare, a sognare a occhi aperti. Cosa avremmo trovato, come sarebbe stata la nostra vita, come sarebbe stato il lavoro? Eravamo sicuri che tutto sarebbe stato molto più bello che in Italia. Riuscii a dormire per un po’ ma non lasciai mai la mano di mio marito.
Finalmente arrivammo a  Praga. Avevamo con noi soltanto la valigia-sacco regalata dalla zio. Appena scesa, sentii un brivido per tutto il corpo. Alzai il bavero del cappotto.  Sergio mi guardò e disse:
“Ammazza che freddo che fa!”
La stazione assomigliava molto a quella di Milano. Ci guardammo intorno alla ricerca di qualcuno che, fra l’altro non conoscevamo. Ci venne incontro un giovane vestito con un grande cappotto lungo fino ai piedi e il colbacco in testa. Ci chiese in italiano:
“ Venite da Vienna?”
Rispondemmo sì, come era convenuto.
“Mi chiamo Carlo - continuò - Venite, fuori c’è la macchina.”
Avrà avuto non più di trent’anni. Aveva uno spiccato accento lombardo. Disse qualcosa all’autista in cecoslovacco.
Entrammo nella Skoda ( si legge Sckoda) guidata da un autista pazzo. Le strade erano gelate, ma  lui non ci faceva caso. Si stupì che avessimo soltanto il sacco di tela e ci disse che eravamo vestiti in modo troppo leggero per quel clima. Infatti io l’avevo capito e sentivo molto freddo, soprattutto ai piedi. C’erano quattro gradi sotto zero. C’eravamo messi addosso tutto quello che potevamo.
La macchina si arrampicò su una ripida strada con ai lati tanti alberi spogli e si fermò davanti a una villa a due piani.
“Siamo arrivati- disse Carlo- In villa c’è qualcuno. Non dovete dire il vostro vero nome a nessuno.”
Ci trovammo in un grande salone ricoperto da un tappeto, con un lungo tavolo, molte sedie e due poltrone. Le pareti erano ricoperte di legno e le finestre si aprivano su un giardino. Nel salone c’erano tre  uomini. Ci stringemmo la mano dicendo solo un “ciao”. Poi Carlo ci fece salire per la scala di legno e al piano di sopra ci indicò la nostra camera aggiungendo che lui stava nella stanza di fronte alla nostra. Qualsiasi cosa avessimo avuto bisogno, potevamo bussare alla sua porta. Aggiunse che la prima cosa da fare sarebbe stata andare a comprare scarpe e vestiti adatti alla temperatura. Ci avrebbe accompagnati lui.
Così fu. Prendemmo il tram. I finestrini erano bianchi, ricoperti di ghiaccio che il vento aveva modellato disegnando fiori che sembravano appena sbocciati e piccole palme. Quando scendemmo mi guardai intorno e vidi palazzi con le facciate nere, neri erano anche i muri dei  negozi dall’aspetto triste. Chiesi se la città aveva subito un incendio. Carlo si mise a ridere e trovò strana la mia domanda. Parlava un ceco molto svelto e concordò con la commessa, una signora molto robusta e di una certa età, il nostro abbigliamento, maglioni, calze, pantaloni pesanti, colbacchi e grossi stivali. Comprò anche mutande di lana. Ci spiegò che la temperatura sarebbe arrivata a molti gradi sotto lo zero ed era pericoloso per i nostri organi riproduttivi. Alla cassa la signora fece scorrere le dita con velocità sul pallottoliere. Carlo pagò e ritornammo in tram alla villa.
Durante il tragitto ci raccontò che era nato a Brescia e viveva a Praga dal 1946, era uno dei più anziani. Aveva sposato una ceca che faceva l’operaia e avevano due bambine, tutti alla villa.. Ci lasciò al cancello, perché doveva andare a prendere servizio alla radio. Ci saremmo rivisti per l’ora di cena. Ripeté che se avessimo avuto bisogno di qualcosa, avremmo dovuto rivolgerci soltanto a lui.
Io rimasi molto impressionata dal fatto che aveva sposato una cieca, non mi venne in mente che si trattasse di una cecoslovacca. Sergio per questo mi prese in giro per anni.
La mattina dopo Carlo ci accompagnò in un ufficio cecoslovacco. Per un’ora scambiò pezzi di carta (ritengo documenti) con uomini in divisa. Parlò a lungo coi militari. Ci diedero il povoleni k pobytu, il permesso di soggiorno, una specie di passaporto con la copertina verde, la nostra fotografia e i nostri nuovi nomi e dati anagrafici. Avevamo dovuto cambiare nome e data di nascita. Io scelsi il nome di mio fratello e il cognome di un pittore bolognese e così diventai Carla Morandi e come data di nascita cambiai mese e mi invecchiai di un anno. Per questo motivo gli amici di Bologna continuano ancora oggi a chiamarmi Carla, perché con questo nome mi hanno conosciuta.
Ritornammo a casa. Tutti la chiamavano villa e noi ci abituammo a chiamarla così. La gente intorno l’indicava come villa degli italiani, italska domek. Nella nostra camera avevamo, oltre
al letto matrimoniale con accanto i comodini, un tavolino, due sedie e un armadio. La doppia finestra si apriva su un lungo balcone in comune con altre quattro camere. Al piano c’erano anche due grandi bagni  con doppi lavabi e rubinetti luccicanti con vasca e doccia. Pavimenti e pareti erano rivestiti di marmo con venature marroni. 
Il giardino aveva molte piante e abeti e nel mezzo una fontana quadrata dove, ci dissero, nel tempo buono, nuotavano i pesci. In quel momento l’acqua era una lastra di ghiaccio. In camera era permesso soltanto fare il caffè. Potevamo però tenere cibo al di fuori della mensa comune.  Lo conservavo nel frigorifero naturale, così lo chiamavamo, cioè nello spazio fra le doppie finestre. Così feci e una sera trovai che le uova si erano  congelate ed erano scoppiate,  il latte era duro come un sasso. Imparai come si fa a vivere con dieci e più gradi sotto zero.
Ricordo che un anno la temperatura scese improvvisamente e i pesci rossi che avevamo messo nella vasca, morirono congelati, perché ci dimenticammo di toglierli. L’acqua era un blocco di ghiaccio con venature rosse. Inutili furono i passaggi dall’acqua fredda alla calda e al contrario.
 
La prima sera cenammo nel salone a pianoterra. Eravamo in sei. Tutti erano contenti del nostro arrivo e dissero che i nuovi ingressi stemperavano la noia della villa. Il cuoco, Moruzzi, l’avevamo già visto al nostro arrivo. La cena fu né male né bene e Moruzzi, anche lui ex partigiano emiliano, ci informò che non aveva mai cucinato in vita sua, a casa faceva il contadino. Ma i compagni gli avevano detto che a Praga doveva fare il cuoco. Aggiunse anche che se non ci piaceva la carne con l’odore pesante, così disse, glielo dovevamo dire.
“Perché- chiesi- Si mangia carne avariata?”
“A volte capita” rispose con naturalezza.
Nel salone c’era anche un apparecchio della TV in bianco e nero, che io non avevo mai visto, perché non amavo l’entusiasmo dei romani che si riunivano nei bar o nelle case tutti intorno a un televisore. Trovai conferma  della mia opinione: la TV ceca era inguardabile, trasmetteva solo balletti classici di una noia mostruosa.
La nostra prima serata finì, inevitabilmente, con discorsi sulla Cecoslovacchia. Noi volevamo sapere, capire. Ci dissero che la situazione politica, secondo i nostri nuovi amici, non era affatto buona. La gente non era contenta. Avevano nazionalizzato tutto, anche il materassaio era diventato dipendente dello Stato. Forse la gente stava meglio prima del socialismo. Un Paese di grande cultura e grande civiltà. Pensavo che le cose sarebbero migliorate. In fin dei conti il loro non era ancora vero socialismo,  il governo aveva pochi anni di vita.
La discussione si animò quando, a mezzanotte, rientrarono i compagni che avevano fatto il turno alla radio. Il più critico era Carlo. Parlò di Slànsky, segretario generale del partito condannato a morte dopo un processo per attività contro lo Stato, delle impiccagioni dei dissidenti, degli arresti. Erano stati eliminati due Comitati Centrali del Partito Comunista ceco. Ci raccontarono che altri compagni meno fortunati di noi e che dall’Italia avevano attraversato a piedi l’Austria, non erano mai arrivati a Praga. Altri morirono in  mai indagati incidenti stradali, ma nessuno ne seppe niente di preciso. Erano tutti ex partigiani perseguitati da accuse costruite contro la Resistenza e che cercavano rifugio in Cecoslovacchia. Ci presentarono una situazione ben diversa da quella che noi conoscevamo e nella quale avevamo creduto. Ci stava crollando il mondo sulla testa ed eravamo arrivati soltanto da poche ore.