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Autore

Paola Oliva Bertelli

Anno

2004

Luogo

Roma

Tempo di lettura

16 minuti

Praga, radio clandestina

L’avevo convinto a iscriversi al PCI. Era una mia conquista politica e me ne vantavo in sezione. Non avrei mai potuto sposare uno di un altro partito politico.

Non era passato molto tempo dalla morte di nonna quando decisi che dovevo andarmene. Lei  non c’era più e non c’era nessun legame così forte da trattenermi. Ma una ragazza, all’epoca, poteva uscire dalla casa paterna soltanto col matrimonio. Si passava dalla potestà del padre a quella del marito.

Mi convinsi che l’unica mia salvezza era nel matrimonio. Mi sposai senza rifletterci molto. Lui era un giovane del Partito repubblicano. Sergio, questo il suo nome, veniva a ballare da noi. Abitava nello stesso palazzo dov’era la sezione, al quinto piano. Non era bello, direi invece il contrario. Era buono e onesto. Aveva capelli neri e crespi, per questo i fratelli dicevano che aveva un profilo da negroide e i capelli crespi. Non era prestante, non aveva particolari doti né intellettive né culturali. Aveva il diploma di ragioniere e amava Shakespeare.

L’avevo convinto a iscriversi al PCI. Era una mia conquista politica e me ne vantavo in sezione. Non avrei mai potuto sposare uno di un altro partito politico. Ai miei genitori non è mai piaciuto, ma non mi hanno mai detto il perché. Anzi, non abbiamo mai parlato della loro contrarietà al mio matrimonio: semplicemente non l’approvavano. Lui aveva quattro anni più di me. Orfano di padre, viveva con la mamma dipendente del CNR.

Sergio venne a casa una sera e si chiuse nello studio con papà. Fece regolare domanda di matrimonio. Non ho mai saputo cosa si sono detti. Da quella volta venne a casa tutte le sere, quando ancora eravamo a tavola per la cena. Mi regalò l’anello di fidanzamento, un anellino con un brillante che soltanto venti anno dopo, scoprii falso. Era stato imbrogliato da un compagno della sezione, che aveva un negozio di oreficeria. I miei, soprattutto mia madre, non fecero nuIla per mascherare il loro disappunto. Sergio non piaceva e non piacque mai. Il fidanzamento peggiorò le mie possibilità di movimento. Quasi non uscivo più di casa. Per poterci parlare e scambiarci un bacio sulle guance, facevamo peripezie. Ci incontravamo in stazione, l’unico posto dove nessuno ci conosceva e dove era legittimo baciarsi senza dare scandalo. Anche in sezione, specialmente le mamme Ferri e Ficcadenti, ci sorvegliavano e giudicavano, pronte a raccontare tutto ai miei genitori.  

Un giorno mi disse che doveva partire per Milano dove sarebbe rimasto un periodo per motivi di lavoro. Ci scrivevamo ogni giorno. Avrei voluto conservare tutte le lettere, ma non lo feci dopo aver trovato mia mamma leggere una sua lettera che io ancora non avevo nemmeno visto.

 

Davanti alle nostre finestre sui prati pascolavano le pecore. Comprammo a rate, da un compagno mobiliere della sezione, la camera da letto. A Porta Portese prendemmo quattro sedie e un tavolo. Mia suocera ci regalò la cucina a gas.. Non avevo grilli per la testa e non volevo l’abito bianco né il velo Comprai con i soldi delle ripetizioni un vestitino blu di taffetas con un piccolo scollo triangolare e un collarino.

L’opposizione dei miei divenne lotta aperta quando vennero a sapere dal cugino Giorgio, che Sergio in verità era ricoverato nel sanatorio di Sondrio. Non ho mai capito perché Giorgio sia andato a raccontare questo fatto. Io ero determinata, avevo ormai preso la mia decisione e pensavo che fosse una mostruosità non voler più bene al fidanzato, perché colpit da malattia.

Dissi a mia madre:

“Appena divento maggiorenne, mi sposo e me ne vado via.”

Si diventava maggiorenni a 21 anni, a quell’epoca e io non ne avevo ancora compiuti 20.

Lei mi rispose:

“Per me, puoi sposarti anche domani.”

Non ci pensai due volte. Scrissi a Sergio. Lui ritornò a Roma. Le cure gli avevano fatto molto bene. Ma non era del tutto vero. Continuò a curarsi. Mi ripeteva sempre:

“Quando vuoi che ti baci, dimmelo.”

Io non glielo dissi mai, perché mi vergognavo. Non avevamo soldi, ma trovammo, dopo molto cercare, un piccolo appartamento di cinquanta metri quadri in via delle Viole, a Centocelle. Ci sembrava mille miglia lontano dal nostro quartiere. Davanti alle nostre finestre sui prati pascolavano le pecore. Comprammo a rate, da un compagno mobiliere della sezione, la camera da letto. A Porta Portese prendemmo quattro sedie e un tavolo. Mia suocera ci regalò la cucina a gas.. Non avevo grilli per la testa e non volevo l’abito bianco né il velo Comprai con i soldi delle ripetizioni un vestitino blu di taffetas con un piccolo scollo triangolare e un collarino. L’avevo comprato all’America stracci del Colle Oppio, come chiamavamo i rivenditori dei vestiti usati che ci arrivavano dagli USA.

Ci sposammo pochi giorni dopo la sconfitta elettorale, il 14 luglio 2. Il 15 settembre avrei compiuto  20 anni. 1951. No, un vestito di taffetà blu in un centro di raccolta di abiti usati in via del Colle Oppio. Fu uno scandalo per tutti. L’abito aveva un piccolo scollo triangolare e un nastrino sotto la gola.

Come regali di nozze chiedemmo pentole, piatti e bicchieri. La vigilia organizzai un ricevimento in casa con alcuni amici e parenti. C’era anche Silvio, il ragazzo che mia madre avrebbe voluto farmi sposare, perché laureato in legge. Avevo cucinato alcune torte salate e dolci. Non ricordo cosa c’era da bere. Si divertivano tutti, ma non sembrava assolutamente un ricevimento di nozze. Come tutti gli altri, Sergio mi salutò e andò a casa sua.

Ricordo che quando uscirono tutti verso le otto di sera, mamma e papà dissero che avrebbero fatto una passeggiata. Io lavai piatti e bicchieri, misi tutto in ordine. Loro ritornarono con un carrello di legno, comprato a un’asta, di quelli che servono per portare i piatti intavola. Pensavo fosse per me, perché avevo detto a tutti che l’avrei desiderato. Invece l’avevano comprato per loro. Me ne andai a letto pensando che quella era l’ultima notte da sola.

Negli ultimi giorni in casa c’era stata molta tensione, perché io me ne infischiavo del corredo e mia madre non voleva fare brutte figure. In casa non c’erano soldi e a me sembrava pazzesco dovermi mettere a ricamare le cifre sugli asciugamani. Volevo le cose essenziali solamente. Mamma non  voleva fare brutte figure con gli altri. Il mio corredo era ridotto al minimo, due completi di lenzuola, sette asciugamani, due tovaglie.

L’appuntamento in Campidoglio era alle nove.

Mia madre mi pose in testa la cuffia del battesimo di Laura, lavoro fatto a tombolo dalle cugine veneziane.  In mano non avevo nemmeno un fiore.

Per unirci in matrimonio avevamo voluto il nostro amico Claudio Cianca, consigliere del PCI, ex partigiano. Giorgio e sua moglie Anna Maria ci fecero da testimoni. Al momento del , sentii la voce di mia suocera che rispondeva al posto del figlio. Qualcuno rise e poi Sergio pronunciò il suo . Claudio Cianca mi baciò e mi regalò un bel mazzo di rose bianche e rosa.

Vidi papà uscire prima della fine della cerimonia. Non sapevo che quella mattina mio fratello maggiore si sarebbe laureato. Lo zio del Vaticano ci fece avere un telegramma con la benedizione del papa. Il suo regalo era stato un sacco di tela e cuoio come sostituzione della valigia. Dopo la cerimonia, corremmo a casa per fare le valigie.  Ci eravamo regalati una settimana di luna di miele. Ma perdemmo tempo e, arrivati in stazione, il treno per Firenze era già partito.  Ritornammo a casa dai miei in attesa del treno successivo. Furono tutti stupiti nel vederci, ma ci diedero da mangiare.

A tavola c’erano anche gli zii e una coppia di cugini venuti da Firenze. Non ricordo quasi nulla del pranzo, ma non mi ci volle molto a capire che stavano festeggiando la laurea di Sergio. Non finimmo di mangiare e corremmo di nuovo in stazione.

Il programma del nostro viaggio era Firenze, poi a casa dei nonni a Bologna, poi al lido di Venezia dove saremmo stati ospiti dello zio Romolo che era diventato direttore dell’ospedale.A  Firenze ci inserimmo, senza volerlo, in un rinfresco in un palazzo rinascimentale e mangiammo a più non posso. Dormimmo nell’ ostello della gioventù.

A Bologna andammo in ospedale per visitare la nonna Adriana malata di cancro al pancreas.

 

Fu un matrimonio pieno di illusioni e di miseria, ma con grande amicizia e sincerità fra noi due. Davvero ci sentivamo un’unica persona. Non avevamo segreti. Sapevo benissimo in quali difficoltà si trovava con il lavoro. Con un amico aveva aperto un negozio per la vendita e affitto di bilance, affettatrici, macinacaffè e macchine per caffè.

La mia vita era cambiata. Non avevo più bisogno di dire bugie per uscire o fare qualcosa. Eravamo felici. Non avevamo smesso il nostro impegno politico e continuavamo a frequentare la sezione Esquilino ( il quartiere Celio aveva  aperto un’altra sezione).

Ci assillava la mancanza di soldi. Ricordo che un pomeriggio mi vennero a trovare le sorelle coi cugini del Vaticano. Non avevo nulla da offrire. Dissi che uscivo e sarei tornata subito. Andai dall’unico salumiere della zona, presi pane, mortadella e salame. Come pagamento gli lasciai la mia carta d’identità, dicendogli che non potevo fare quella figuraccia coi miei parenti, ma l’avrei pagato appena ritornato a casa mio marito. Lui fu comprensivo e mi aiutò. In seguito, ogni volta che l’incontravo, l’abbracciavo e baciavo. Mi aveva salvato.

Tornai a casa e feci bella figura con sorelle e cugini.

Eravamo innamorati, ma non sapevamo nulla del sesso. Passò del tempo prima che ce ne accorgessimo. Dormivamo insieme nel letto abbracciati, strettissimi come se avessimo bisogno di aiuto l’uno dell’altra, di conforto, di salvarci dalla paura. Non capisco come mai l’istinto non ci aiutò. 

Comprammo una Lambretta a rate, ma la dovemmo restituire perché non eravamo in grado di pagare le cambiali. Insieme col socio, per necessità di lavoro, prese una topolino-giardina con le fiancate di legno. Così potevamo andare tutte le sere in sezione e spesso mia suocera ci invitava a cena.  Mio marito mi accompagnava in macchina nei paesini dove ogni tanto mi chiamavano per supplenze scolastiche.

 

Il 7 novembre di quell’anno, per l’anniversario della rivoluzione socialista dell’URSS, andammo al ricevimento che si teneva all’ambasciata sovietica.. Avevamo solo un biglietto e volevamo entrare in quattro, noi due, il cugino Giorgio e la moglie. Ci aiutò Ezio Taddei, uomo di una simpatia unica. Scriveva per l’Unità e il Paese Sera. Uno dei suoi servizi più famosi fu quello sul caro estinto, la preparazione della salma prima della tumulazione negli USA.

Ezio che poteva essere mio nonno, presentò all’ingresso dell’Ambasciata il suo invito e, in russo, disse che ero sua moglie. A me parve di sognare. Ero sul suolo sovietico, in mezzo a sovietici, eravamo tutti compagni. Il posto era stupendo con giardini, fontane, alberi, viali. Incontrai Pajetta, Ingrao, Amendola e ci abbracciammo. Brindavamo all’URSS e a tutto il mondo. Io non bevevo mai e soprattutto non avevo mai bevuto vodka. Finì che Taddei andò alla ricerca di mio marito, perché mi ero ubriacata e bisognava riportarmi a casa. Fra dame e signore eleganti, feci la mia ridicola uscita. A casa mi misi davanti allo specchio e continuai a fare la sceneggiata classica dell’ubriaco che si autopunisce.

Erano anni duri ma noi eravamo sicuri che i nostri guai sarebbero finiti presto, perché l’Italia sarebbe diventata socialista e noi avevamo una fede cieca nel socialismo. A quei tempi, quando qualcosa andava male, avevamo l’abitudine di dire: ha da veni’ Baffone, cioè Stalin, che voleva dire l’avverarsi di un mondo migliore. Credevamo nell’importanza salvifica del socialismo.

Con i miei non mi vedevo quasi più. Presto dovemmo lasciare l’abitazione di via delle Viole per andare a vivere con mia suocera. Non avevamo altra scelta. Avevo di nuovo perso la mia libertà.

Mia suocera divideva l’appartamento con il fratello del marito, la moglie e due figlie. Per sé aveva tenuto solo una stanza, la più grande. Così dormivamo tutt’e tre nella stessa camera, noi due in un angolo e lei in un altro angolo. Dovevo purtroppo ammettere che mia madre aveva ragione nel dire che il mio matrimonio sarebbe stato un disastro. Ma per orgoglio non andai mai a trovarla né lei venne da me, anche se ci separavano pochi metri di strada.

 

Era il marzo del 1953 quando Morì Stalin. Sapevamo che il suo nome voleva dire uomo d’acciaio. La città che portava il suo nome, Stalingrado, era stata distrutta dai nazisti durante la guerra. Non sapevamo altro. Non ci scalfì nemmeno l’accusa di spionaggio che era stata fatta nei confronti di un gruppo di medici sovietici che vennero incarcerati. Davanti all’ambasciata sovietica di via Gaeta si formarono file di persone piangenti e silenziose. Anche noi ci mettemmo in fila. Non avrei mai potuto immaginare quel giorno della festa, che sarei ritornata all’Ambasciata per la morte di Stalin. Dopo quasi tre ore riuscimmo a mettere la nostra firma sull’album sistemato nell’atrio.

  

Il compagno della sezione che ci aveva venduto la camera da letto a rate, ci mandò l’ufficiale giudiziario a riprendere i mobili, perché non eravamo riusciti a pagare tre rate consecutive.

Ero sola in casa quando venne con l’ufficiale giudiziario e due facchini. Mi lasciarono solo la rete del letto. Mentre liberavo cassetti e armadio, cantavo la Marsigliese.

Poi andai da Sergio nel negozio di via Enea, vicino a san Giovanni, dove col socio vendeva bilance e affettatrici. Andammo a mangiare una pizza.

Dopo non molto, per fortuna, tutto cambiò. Quasi all’improvviso.

Da Botteghe Oscure ci proposero un lavoro per il PCI a Praga.

Paola Oliva Bertelli a Roma nel 1944.
Paola Oliva Bertelli a Roma nel 1944.