Premio Lucia
Nell'ambito del Festival LUCIA, che permette al pubblico di riscoprire la dimensione sociale e condivisa dell'ascolto attraverso l'esplorazione delle migliori creazioni sonore italiane e internazionali contemporanee, nasce il Premio LUCIA, che riunisce l'Archivio Diaristico e Radio Papesse per sostenere le voci più interessanti della creazione sonora in Italia. Aprendo il patrimonio dell'Archivio ai linguaggi radiofonici, alle ibridazioni sonore e al podcast, il Premio LUCIA sostiene proposte capaci di valorizzare le storie raccontate dai diari e allo stesso tempo di sfruttare tutte le possibilità della narrazione audio per realizzare produzioni originali e di qualità, da un punto di vista narrativo e sonoro.
Roma, 1949. Tra le baracche del Mandrione nasce Claudio Foschini, da una madre “scarpara”(ladra di portafogli in gergo romano) e un padre che vende l’Unità alla stazione Termini (“lavoro di prestigio fra i poveri”). La sua infanzia assomiglia a quella di tanti bambini delle baracche romane, Claudio cresce nella miseria, ma il clima di solidarietà che regna all’interno della famiglia e della comunità di borgata danno speranza e persino gioia. Tra vicini ci si dà una mano, si passano le giornate insieme e s’inizia anche a fare le prime ragazzate in banda.
Poi è il tempo del collegio, inevitabile per le famiglie più povere, per garantire ai figli pranzo e cena. Ma la separazione dalla famiglia e l’educazione rigida del collegio lasciano delle ferite profonde nel giovane Claudio, che comincia ad essere abitato da un desiderio crescente di ribellione e vendetta. I primi furti li inizia a fare quasi per gioco, ma di lì a poco arriva al carcere minorile di Porta Portese. E da quel momento inizia una spirale vertiginosa fatta di carcere, furti, rapine, ancora carcere e molta droga. La vita si alterna tra dentro e fuori, più dentro che fuori, e nonostante il senso d’ingiustizia rispetto a ciò che Claudio vive come un destino, la reclusione è un momento di riflessione e bilancio, di memoria e proiezione. È così che Claudio riempie undici bloc-notes raccontando la sua vita, in modo onesto e autentico, lo fa per lenire il passare del tempo dietro le sbarre, ma anche per avvertire quei ragazzi che potrebbero essere attirati dalla stessa strada verso la facilità, solo presunta e mai goduta. La scrittura, così come il teatro in carcere, permettono a Claudio di assaporare l’inizio di un riscatto che però non avviene mai fino in fondo: a neanche sessantuno anni, un mattino di maggio del 2010, Claudio viene ucciso da una guardia giurata in borghese in una tabaccheria, durante l’ultima rapina. Claudio Foschini, “ragazzo di vita” autentico, ci affida la sua vita rocambolesca con generosità e lucida incoerenza, offrendoci un ritratto “da dentro” della Roma borgatara di quegli anni.
Un estremo atto d’amore è un’opera radiofonica tratta dalla storia di Claudio.
Il lavoro, tra il radiodramma e il racconto radiofonico, prende spunto dai suggestivi punti di contatto tra il personaggio di Foschini, l’epica classica e la tragedia greca. L’operazione di cut-up tra il diario e l’Antigone di Sofocle – frammenti tratti liberamente dal testo classico, smembrati e innestati nel racconto – è volta non tanto a sublimare la persona in eroe tragico, quanto a ricontestualizzarlo ed attualizzarlo su un palcoscenico virtuale, una fumosa sala da teatro in streaming su YouTube.
Al linguaggio franco, lucido e sagace di Foschini viene contrapposto il tono aulico ma sintetico di un “coro”, ritratto di tutti noi, spettatori di storie fuori dal tempo – e giudici ultimi, oggi come allora.
Un estremo atto d'amore è stato realizzato da Viso Collettivo, un collettivo composto da Luca Morino, Federico Pianciola e Riccardo Salvini.
Leo Ferlan è nato nel 1928 a Idra, allora in provincia di Gorizia, oggi in Slovenia. Studioso di botanica, viene inviato in Algeria nel 1952 per una campagna geo-cartografica dopo aver lavorato per tre anni a Montpellier. All’improvviso irrompe nella sua vita un’amica di amici: Miriam Colautti scrive a Leo per chiedergli come trovare lavoro ad Algeri. È così che tra i due nasce una fitta corrispondenza. A settembre dell’anno successivo si sposano e, nell’autunno del 1955, finalmente si ritrovano per vivere insieme a Bergamo. Leo però muore dopo pochi anni, nel 1961. Miriam ha deciso di donare le lettere di Leo all’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, e così sono arrivate fino a noi. Ha deciso però di bruciare le sue, di cui non resta traccia.
Variazioni su M. lavora sull’assenza delle parole di Miriam, sulla potenzialità di questo spazio vuoto. Martina Melilli e Botafuego hanno chiesto a Renato Rinaldi di dare voce a Leo, e in parallelo hanno invitato una serie di persone – diverse per età, provenienza, esperienze, occupazione e sessualità – a ipotizzare, immaginare e interpretare la metà mancante di questo scambio epistolare: le lettere di Miriam. Ogni volta, la persona è stata invitata a immaginare se stessa nella situazione di Miriam, traendo spunto dalle proprie esperienze e dalla propria traiettoria biografica.
A livello sonoro, lo scambio fra Leo e Miriam è stato reso attraverso il medium che oggi ha preso il posto della lettera: il messaggio vocale.
Un’identità, anzi due, fuse in una sola. Houda è una tela sulla quale il padre proietta il suo sogno, un sogno che prende la forma dell’esilio, all’inseguimento di una luce: l’Italia.
Houda ha quattro anni quando con la madre e la sorella raggiunge il padre in Lombardia. La scelta del padre plasma la sua identità: l’Italia è per lui l’uscita dal labirinto, per lei l’inizio. E allora è necessario scegliere un terreno fertile per fare attecchire le radici. E questo terreno per Houda sono le parole della lingua di Montale. Le parole devono essere scritte, ma anche declamate. E allora fogli, microfoni, palchi, per un’unica missione: il riscatto, il suo, ma ancor più quello del padre, che ama l’Italia di un amore a senso unico, lui, l’uomo a cui hanno rifiutato la benzina il giorno in cui ha finalmente potuto permettersi un’auto. Sta a lei prendere posizione, testimoniare, raccontare, fare da contrappeso a quell’uomo, lei salda a terra, mentre lui sta sospeso dall’altre parte del filo: “lui lavorava e io studiavo con la stessa diligenza, un sogno parallelo, senza sapere che fossi io il suo sogno…” . E allora Houda fa sue tutte le battaglie, rincorre le opportunità, avanza più veloce degli altri. E come un’atleta prende la rincorsa e partecipa a premi letterari, integra la facoltà di Giurisprudenza, il Network Italiano dei Leader per l’inclusione, quello di Religion for Peace e infine il gruppo Studenti musulmani dell’Università Statale di Milano. Ma ancora il sogno non è compiuto, perché il libro che contiene il racconto del padre non è ancora stato scritto.
“Scrivilo”, le dice lui ogni giorno.
Dal diario di Houda nasce poi Cantilenano le onde, un lavoro radiofonico che vede Houda Latrech dialogare con Alice Pontiggia, sulle sponde di alcuni dei corpi d’acqua che fanno parte delle loro storie. L’acqua di questi fiumi, laghi o ruscelli, ha inevitabilmente attraversato entrambe. Quali memorie trasportano le loro gocce? Un flusso di parole che le porterà a confrontarsi sulla costruzione delle loro identità, i legami che hanno con le geografie in cui sono nate, quelle in cui sono cresciute e le emozioni che da tutto questo scaturiscono.
Caterina ha undici anni quando decide di arrestare la crescita del suo corpo. È magrissima, ma si trova informe. Gli scaffali del supermercato sono per lei motivo di angoscia e tensione, una battaglia che gioca contro la madre per ottenere cibo senza calorie e vincere sulle abitudini di casa, imponendo la sua scelta ai familiari. A dodici anni viene ricoverata per oltre due anni nella Residenza di Palazzo Francisci di Todi, struttura adibita al trattamento dei disturbi alimentari. Una volta dimessa, va a vivere in convitto a Sansepolcro. E da lì inizia la battaglia più dura, non più quella della sopravvivenza, ma quella della guarigione, percorso lungo e pieno di ostacoli imprevisti. È così difficile squarciare il buio, imparare a rimettersi in gioco, fidarsi di sé stessi e degli altri, rendere meno appuntita e spigolosa l’anima, anche se il corpo già non lo è più. La scrittura accompagna il percorso, lo documenta e lo sostiene, forse lo rende addirittura possibile. Perché la guarigione disorienta, scardina i capisaldi della malattia cui si è imparato a identificarsi, ridisegna l’identità secondo una geografia tutta nuova, che non è più quella del dolore. E di questo percorso va conservata una traccia, per non perdersi e per non perdere di vista l’obiettivo. Disapprendere il dolore è difficile, specie quando è iscritto nel corpo, campo di battaglia e nemico al tempo stesso, da affrontare con le armi e senza pietà. Ma Caterina ha deciso di vivere: pagina dopo pagina affida al diario i suoi pensieri più indicibili e al percorso medico affianca un viaggio personale, lucido e profondo. E quando si accorge di non provare più invidia per un corpo che soffre più del suo, che “vince” sulla scala del dolore, capisce che forse è proprio lei che sta vincendo.
Diario di una fenice irrequieta è un’appendice in formato audio del diario Inchiostro, storia di un’adolescente oltre l’anoressia che Caterina Minni ha scritto a 14 anni. È un tentativo di parlare di anoressia attraverso alcune parole che Caterina ha scritto e che Francesca Berardi ha sottolineato, perché quel diario sarebbe potuto essere anche il suo.
Il glossario si costruisce intorno ad un dialogo intimo tra due donne di generazioni diverse – Caterina ha 21 anni, Francesca 37 – che condividono la consapevolezza che più che essere andate “oltre” l’anoressia, sono sopravvissute alle sue manifestazioni più dure. Il loro dialogo tocca questioni che riguardano il corpo nella sua dimensione più cruda ma anche le emozioni e sensazioni che lo attraversano, il freddo, la paura, il senso di disgusto, il bisogno di fuga..fino al ritorno a casa e alla scoperta del desiderio.
Le memorie di Seydi Rodriguez Gutierrez risalgono ai suoi primi passi di danza… quelli che ha studiato fin da bambina, su un’isola dei Caraibi, tra tutù e dura disciplina. A diciassette anni Seydi sogna di lasciare Cuba, e sa bene che se partire è difficile, tornarvi sarà impossibile. È la fine degli anni Novanta e si presenta l’occasione della vita: un gruppo di musicisti cerca ballerine per una tournée in Italia. È fatta. Sei mesi più tardi Seydi, che non ha ancora compiuto vent’anni, decide che a Cuba non tornerà più.
Da quel momento inizia la sua vita da fuoriuscita, esule, controrivoluzionaria, emigrata: quante cose può essere una cubana fuori da Cuba, ancora negli anni Novanta? Dopo un po’ di girovagare si stabilisce in Trentino, dove danza e soprattutto la insegna a bambine e ragazze. Nasce qui Sarah Sofia, la figlia che Seydi ha messo al mondo con Angel, cubano come lei.
Nel 1960 nei bassifondi di Napoli nasce Tania. Il suo corpo è quello di un maschio, ma lei si sente “bambina dentro”. Sogna ad occhi aperti la libertà, sogna di fuggire via dalla miseria in cui vive, dalle violenze che di lì a poco, a soli 7 anni, subirà da uno dei tanti uomini che frequentano la casa della madre prostituta. A 13 anni Tania inizia a prostituirsi e continuerà a farlo per pagarsi l’operazione di vaginoplastica – a 26 anni – gli interventi chirurgici e le spese legali per essere riconosciuta finalmente come Tania Ferrucci.
È bellissima, lavora come ragazza immagine, è desiderata e guadagna tantissimo ma la dipendenza da alcool e droga è devastante, fino a quando all’età di 39 anni entra nella comunità Samam, dove inizia il suo recupero. Il viaggio di libertà è lungo ma “sono nata caparbia” dice Tania Ferrucci e proprio nella scrittura trova un riscatto che dà senso al suo passato.