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Autore

Eugenia Dal Bò

Anno

1939 -1943

Luogo

Milano

Tempo di lettura

4 minuti

Come un arco teso

Del resto, vivo come ho vissuto, da quando il mio Gherardo mi ha lasciata: a testa alta, sfido la calunnia e chi – più o meno sinceramente – l’accoglie.

“Tutto questo è stato opera del Partito” – mi disse l’amico Don Luigi ed io penso – e glielo dissi – ai due federali di Pistoja che si succedettero uno dopo l’altro e che sono poi stati ambedue chiamati, in premio di tanta e sì nobile opera, a far parte della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Ed ora basta: non voglio più parlare di queste tristissime cose; non solo tristi per me, ma perché questa era l’essenza della politica che governava il nostro Paese: si poteva – da chi aveva in mano il potere – assassinare moralmente e materialmente un uomo con mezzi che più bassi e turpi non si potrebbe immaginare. Ho pianto le mie più amare lacrime in quel colloquio ed ho ringraziato Iddio di aver chiamato a sé il mio Gherardo risparmiandogli questo dolore. E mi domandavo – e lo domandavo al mio interlocutore; che fare? Egli mi ammoniva di non parlare, facendomi sperare che sarebbe venuto il tempo di mettere in luce tutto questo. Io non lo spero e non lo credo: finché saranno vivi si difenderanno: è un’illusione questa in cui non cado perché la calunnia sempre più ha stretto le sue spire intorno a me da quel tempo: dovunque io vada, o mi precede o mi segue ed a poco a poco io vedo le persone che mi avvicinano dapprima col sorriso di amiche, scostarsi poi ed allontanarsi completamente da me. Sono da cinque mesi – siamo nel febbrajo del 1943 – a Roma, in casa di mia sorella Antonietta vedova Damin e della sua figliuola Maria. Quest’ultima mi tratta come una nemica ed è insofferente della mia presenza in casa: perché? È vero che il suo carattere prepotente rende la vita difficile a tutti; ma, in questo caso, ci potrebbe anche essere la sozza e turpe ragione della calunnia. Mia sorella – alla quale ho sempre detto tutto quanto avevo nell’animo ed alla quale ho riferito tutto ciò che avevo, purtroppo, saputo dal colloquio con Don Luigi – ha mostrato una gran gioia – ed era sincera – di poter accogliermi in casa sua ed è sempre più contenta della mia presenza qui, ma anch’ella soffre del contegno della sua figliuola verso di me. Io sopporto con rassegnazione, ricordando quello che mi scrisse un amico, parlando del mio Gherardo: “Da Lui ho imparato a soffrire in silenzio”. Anch’io debbo soffrire in silenzio, avvicinandomi, così, allo spirito del mio Caro, ed ho il compenso di vivere accanto alla mia dolce e buona sorella. La sera quando ella mi dà la buona notte e mi benedice facendomi il segno della Croce, come faceva la nostra Mamma, una profonda dolcezza mi scende al cuore, e ringrazio Iddio di avermela concessa. Del resto, vivo come ho vissuto, da quando il mio Gherardo mi ha lasciata: a testa alta, sfido la calunnia e chi – più o meno sinceramente – l’accoglie. Poche e buone amicizie mi restano, e mi sono molto care, degli

altri non mi curo; ma non ho odio o rancore per nessuno. Tiro avanti per la mia strada, e se posso fare un po’ di bene, sono contenta e ne ringrazio Iddio. Ed ora finisco: tutto quanto può, ormai, entrare nella mia vita, non ha importanza. Attendo serenamente la morte che, portandomi di là, mi dia il conforto ch’io ho fede debba toccare a chi ha lottato duramente ed ha, con la coscienza tranquilla e serena, potuto battere alla porta dell’eternità, senza portare con sé nessun fardello di odio o soltanto di rancore. Sento che non spetta a me giudicare; ma ad una Giustizia superiore ed infallibile. Questa fede mi sostiene e mi dà la forza di sopportare ancora la vita, che mi è resa così dolorosa.

 

Fine – 28 febbraio 1943

Roma


 

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Eugenia Dal Bò e Gherardo Pantano.