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Autore

Eugenia Dal Bò

Anno

1939 -1943

Luogo

Milano

Tempo di lettura

4 minuti

Come un arco teso

Lo studio del maggiore Mazzoni – ove si doveva fare la partita – era tutto tappezzato di fotografie di D’Annunzio e di Mussolini: ce n’era da tutte le parti, e – quasi non bastasse – due o tre grandi di albums con serie infinite di fotografie sempre sugli stessi soggetti, ci furono offerti a sfogliare.

Qualche volta, al Circolo, si metteva insieme un “bridge” – allora si poteva ancora chiamarlo così, oggi si dice “ponte” –, ed avevamo spesso compagni un Maggiore dei Bersaglieri e la moglie: due persone non molto simpatiche, a dire il vero. Ma non sempre si possono scegliere i compagni di giuoco... Avevo l’impressione che queste due persone cercassero in tutti i modi di penetrare nella nostra vita, e mi ricordo che anche mia sorella e le sue figliuole ebbero questa stessa sensazione, ed anch’esse dividevano la mia poca simpatia per quella coppia. Qualche volta la partita si faceva a casa nostra e, poiché essi mostrarono il desiderio che noi andassimo da loro, Gherardo – fedele al suo principio – accettò, e mi ricordo di avergli, quella volta, ubbidito a malincuore: era forse un presentimento? Lo studio del maggiore Mazzoni – ove si doveva fare la partita – era tutto tappezzato di fotografie di D’Annunzio e di Mussolini: ce n’era da tutte le parti, e – quasi non bastasse – due o tre grandi di albums con serie infinite di fotografie sempre sugli stessi soggetti, ci furono offerti a sfogliare. Si parlò molto quindi dell’uno e dell’altro personaggio; nell’ammirazione dei quali non eravamo certo inferiori al padrone di casa.

Nell’idea espressa da mio marito non c’era nulla che suonasse rimprovero al Grand’Uomo di Stato: era il “sistema” che veniva criticato!

Era allora vivo e recente l’“affare” Matteotti e, naturalmente, si cascò in quel tema, senza volerlo. Mio marito – retto ed inflessibile in fatto di responsabilità, sostenne la sua opinione in proposito –, opinione ch’io gli avevo più volte sentito esprimere e che dividevo pienamente: egli sosteneva che non si deve predicare la violenza chi non può assumersi tutta la responsabilità delle proprie azioni: questo a lui pareva il vero torto del Grande Uomo che “avrebbe dovuto” addossarsi la responsabilità di quell’azione delittuosa. Il Mazzoni – come tutti gli adoratori di un feticcio – non voleva, (e non poteva) ammettere torto alcuno nel suo idolo, e teneva testa a mio marito nella discussione che si era intavolata. Mi ricordo ch’io tentai portare l’argomento che mi pareva dover essere decisivo, poiché riguardava l’altro idolo del maggiore: il D’Annunzio. E ricordai la circolare del poeta per aizzare i suoi Legionari a portare il “ferro freddo” contro il disertore Misano. Quella circolare finiva con queste parole: “Ne assumo io tutta la responsabilità!”. Ma nulla valse, e quel feroce adoratore non voleva ammettere torto alcuno nel suo idolo. La discussione si protrasse tanto che non si parlò più della partita, e ci lasciammo dando loro un appuntamento a casa nostra. E fu, a quella loro venuta tra noi, ch’io ebbi la sensazione precisa del valore morale di quelle persone: la sensazione che si prova alla vista di un rettile velenoso. Il Maggiore annunziò la loro partenza: sua moglie andava a Graz – era un’Austriaca – e lui avrebbe passato la sua licenza a Roma. Chi o che cosa mi fece sentire il veleno dietro queste parole? Nell’idea espressa da mio marito non c’era nulla che suonasse rimprovero al Grand’Uomo di Stato: era il “sistema” che veniva criticato! Ma tant’è: quando si vuol accusare, tutto è buono. Ebbi allora la sensazione che, in quella licenza passata a Roma, ci si sarebbe occupati a mettere in istato d’accusa il generale Gherardo Pàntano. Non erano passate due o tre settimane che s’incominciò a sentire come io fossi nel vero.