Autore
Eugenia Dal BòAnno
1939 -1943Luogo
MilanoTempo di lettura
15 minutiCome un arco teso
Il viaggio doveva farsi in carovana, perché non c’erano ancora né strade per gli automezzi né tappe ove poter fare sosta. Era la prima volta che viaggiavo in carovana e ne ero, oltre che molto contenta, anche altrettanto curiosa. Avevamo una scorta di ascari e, montati sui muletti, partimmo all’ora del tramonto. La prima tappa era quella della Residenza di Balad ed il nostro viaggio fin là si svolgeva quasi tutto fra le dune: dopo Balad s’incontrava la boscaglia ed il viaggio nella boscaglia era impossibile a farsi di giorno in causa degli insetti che tormentavano le persone e le bestie. Avevo visto un cavallo tornare a Mogadiscio dopo un tal viaggio in condizioni così pietose che non avrei mai immaginato una cosa simile se non l’avessi vista. Era, in poche parole, il tormento degli ignavi nell’Antinferno dantesco e quella povera bestia, gonfia per le punture, rigata di sangue, sembrava non aver più forza per tirarsi avanti. Dormii un paio d’ore a Balad, dopo aver cenato: ma mio marito non poté riposare, impedito da innumerevoli impacci. Quando egli mi svegliò perché era giunta l’ora di accingersi alla partenza – era la mezzanotte circa –, sentii un gran baccano di gente che parlava concitatamente, qualcuno anche che strillava, e ne chiesi, quasi sgomenta, la causa. Gherardo mi tranquillò dicendomi che gli indigeni sono sempre così agitati al principio di una marcia, e non dovevo farne caso. Io avevo in lui tanta fiducia che mi tranquillai e mi diedi attorno per essere pronta al più presto com’egli mi aveva raccomandato. Intanto il tumulto si era acquetato e, quando montammo a muletto, regnava la calma e l’ordine silenzioso. Portavamo con noi le tende perché il viaggio era lungo e dovevamo far diverse tappe prima di giungere a Mahaddei.
 
La boscaglia, di notte, è insidiosa perché non è facile difendersi dai rami intricati che ti si parano davanti al buio, ed era buio pesto. Gherardo era sempre vicino a me e mi parlava, calmo e sicuro, raccomandandomi che non mi lasciassi prendere dal sonno: egli pensava che, dopo un riposo così breve, cullata dal lento e monotono passo del muletto, al buio, io avrei potuto addormentarmi. Ma io non avevo sonno, perché ero assai interessata a quanto accadeva intorno a me, ed ero, del resto, anch’io calma e tranquilla. Gli ascari che viaggiavano con noi – Said aveva con sé anche la moglie, un’Araba in pantaloni alla bajadera e col volto nascosto dal velo – erano sempre avanti o dietro a me, spezzando od allontanando i rami che avrebbero potuto sbattermi sul viso, ed io mi sentivo vigilata, attorniata da premure, e non ho avuto per tutta la notte la menoma sensazione di paura. Mi ricordo soltanto dell’ammonimento di mio marito, sempre vigilante, temendo non mi lasciassi prendere dal sonno: “Senti – mi disse – questi sibili?”. Io che non avevo voluto chiederne la causa per tema ch’egli pensasse io ne avessi paura, risposi che li sentivo e non sapevo spiegarmene la causa. “Non ti preoccupare – mi rispose egli con maggiore tranquillità –, sono serpenti!” Più tardi mi confessò che aveva esagerato, nella speranza che la paura, il ribrezzo mi tenessero sveglia: ed aveva calcolato giusto. Fino all’alba, quando ci fermammo ai limiti della boscaglia per piantare le tende, io stetti sempre con gli occhi sbarrati e con un senso di ribrezzo – che si potrebbe anche chiamare paura – ed il sonno non mi avrebbe vinto certamente! Bello il fermarsi, il vedere a poco a poco nascere il piccolo accampamento in quella luce mattinale fra il verde fresco della boscaglia che lasciavamo dietro a noi, ed il vasto orizzonte che ci si apriva davanti! Non si tardò molto a poterci sedere a tavola – apparecchiata in tutto punto, perché Said non transigeva in proposito – e rifocillarci, godendo la pace assoluta ed immensa di quel luogo: il caffè fatto dagli Arabi in viaggio è il più buon caffè che si possa gustare, ed io ne provo ancora, ricordando, il piacere che ne ho provato quella mattina. Quel giorno era tutto dedicato al riposo e così, la notte successiva dopo la quale, alla prima luce dell’alba, si doveva riprendere il cammino. Io non posso dire la gioia che m’innondava animo e cuore in quel magnifico paesaggio, in quella solitudine immensa, attorniata com’ero da gente in faccende per rendere più bella a me, più comoda, più attraente, quella sosta: mi pare, ricordando quei giorni, di non essere mai stata su questa misera terra, e paragonavo allora la mia felicità alla noia che mi aveva avvinta nei mesi passati a Mogadiscio fra le invidie ed i pettegolezzi! Forse, senza quel paragone, io non avrei potuto godere tanto! Certo bisogna anche conoscere le bassezze e le turpitudini della vita per potersi sentire felici quando si può innalzarsi su di esse e respirare a pieni polmoni la felicità!
Seppi, in quel giorno, la causa del tumulto che avevo avvertito fra la gente di scorta, nello svegliarmi dopo il breve riposo a Balad, ed ammirai ancora una volta la calma serena, il tranquillo equilibrio di mio marito. Era arrivato a Balad un indigeno che veniva dalla boscaglia, ove raccontava, con esaltazione, di aver visto dei Dervisci che, armati, ci attendevano. Naturalmente la cosa aveva procurato una certa emozione: di qui il vociare che avevo notato svegliandomi. Mio marito si era accorto subito che l’uomo era in preda ad un assalto di febbre malarica ed in dominio del delirio: non aveva dato quindi importanza alle sue informazioni ed aveva deciso di continuare il viaggio, pur accettando una scorta armata che il cap.no Casale in persona volle comandare e che ci aveva seguito – io non me ne ero neppure accorta – per lungo tratto di strada, lasciandoci solo quando ognuno fu convinto di quello che Gherardo aveva compreso fino dal principio, trattarsi cioè di un’esaltazione febbrile del povero malato. Molto riposo in quel giorno, interrotto da brevi passeggiate e da deliziosi pasti, e, sul far della notte, grandi fuochi attorno all’accampamento. “Perché?”, domandai. “Per far restare lontane le jene ed i leopardi, i quali sentivano l’odore della buona preda, uomini ed animali”, mi fu risposto. Ahimè! Come mi sentii piccola, davanti a quel quadro! E, ad onta delle risate di mio marito il quale indovinava la mia paura quella notte – lo confesso – dormii poco e male, fra il lugubre ululato della jena, lo sghignazzare dello sciacallo ed il soffio minaccioso del leopardo, che tentava di avvicinarsi all’accampamento: senza i fuochi tenuti vivi tutta la notte dagli ascari di guardia, sarebbe stato un bell’affare! Quando, il mattino, Gherardo mi porse, svegliandomi, la tazzina di caffè profumato, risi anch’io delle mie paure; ma pensavo, nel tempo stesso, con terrore, alle due o tre notti che mi restavano ancora da passare a quel modo! Però a tutto si fa una certa abitudine, anche alla paura: ed io mi ricordo di aver dormito, non dirò proprio pacificamente, ma certo di aver dormito, anche fra quei concerti e quel brillare di fuochi. “A muletto” dunque, e... via per quella vasta pianura, qua e là popolata da villaggi, che, visti di lontano, sembrano delle oasi di ombra e di pace.
I villaggi somali lungo l’Uebi Scebeli, riunione di povere capanne, hanno questo di singolare: ogni capanna ha un tratto di terreno avanti a sé e, per dividere dalle altre questa loro proprietà, i Somali piantano, tutt’intorno al loro terreno, delle liane vigorosissime, che crescono rapidamente e fanno ombra e frescura intorno alla capanna. Tutte le capanne riunite sono poi circondate da due file – distanti molti metri l’una dall’altra – di queste piante grasse, le quali crescendo altissime, vanno poi a riunire, in alto, i loro rami, formando quasi un pergolato verde e fresco. Viste di lontano, queste oasi di verde sono molto attraenti; ed anche da vicino non dispiacciono, perché i Somali sono, di natura, molto puliti: io sono entrata spesso in povere capanne somale ove regnano una pulizia ed un ordine che difficilmente si troverebbe nei tucul abissini, ed ho bevuto il latte che mi si offriva in coppe di terra pulitissime, tenute riparate dalle mosche e dalla polvere mercé una rivestitura in paglia che le donne somale lavorano con le loro mani, appendendo poi ad un uncino, nell’interno della capanna, la ciotola; e così per i cucchiai di legno che adoperano, per la pentola e qualche altro arnese. Parlo delle capanne somale, non di quelle dei liberti che sono, in genere, di razza Suahili – e lungo l’Uebi Scebeli i paesi di liberti sono molti. I Suahili sono di razza che non si esagera a definire inferiore e la cosa appare tanto più vera quando si mettono in confronto dei Somali di razza pura: hanno le carni maleodoranti, non solo perché curano assai poco la pulizia; ma anche per natura loro. Ed anche moralmente, si avverte la differenza della razza: sono per lo più pigri, indolenti, molto facili al piccolo furto e sulla loro parola non si può contare; le loro “fantasie” sono tali che mio marito non mi ha mai permesso di assistervi; “lascive e perfino oscene”, mi diceva. Ma, circondati come sono di verde, col bel viale spazioso ed ombroso tutto all’intorno, quei paesi, siano essi di Somali puri o di liberti, sono molto belli. Quante volte, poi, durante la mia permanenza a Mahaddei, nelle cavalcate mattutine, non siamo passati, Gherardo ed io, sotto quel bel porticato verde attorno ai paesi che incontravamo! Ma ritorno al nostro viaggio, che mi preparava una sorpresa: mi apparvero ad un tratto, non molto lontane da noi, tre donne che gli ascari definirono subito per Migiurtine. L’apparizione era di tale bellezza ch’io ne rimasi incantata e, spontaneamente, mi corse al pensiero la bella donna del Paradiso Terrestre che “si gìa candando ed iscegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via”. Non esagero: la bellezza delle donne somale, e specialmente delle Migiurtine, è tale che, nella proporzione delle membra, nel nobile incesso, nella grazia delle movenze, sorpassa quella di qualunque bella europea; ma quelle tre Grazie avevano, per di più, un modo di vestire che le rendeva ancora più notevoli ai miei occhi. Le gonne lunghissime si trascinavano sull’erba e sui fioretti che la pioggia recente aveva fatto nascere, e quell’incedere delle snelle persone per la campagna verde, all’ombra degli alberi o sotto i raggi del sole, costituiva un quadro meraviglioso. Io, che sono tanto sensibile all’armonia dei colori, ne ero attratta e non finivo mai di ammirarle! Rimasi un po’ delusa quando fui illuminata da mio marito sul vero essere di quelle persone, le quali andavano – veneri vaganti – al nuovo campo di ascari che si era stabilito a Mahaddei; ma la visione mi rimase lungamente negli occhi e nella memoria.
Dopo due giorni di viaggio arrivammo, al terzo, vicino a Mahaddei dove c’era già la strada la quale aveva permesso ad un autocarro di venirci incontro onde arrivare più presto, risparmiando l’ultimo tratto di cammino. Il tenente Russo – l’aiutante maggiore di mio marito – aveva avuto quella buona idea; ma le piogge avevano reso talmente impraticabile la strada ove le ruote dell’autocarro affondavano, che bisognò spingerlo a braccia ed aiutarlo in ogni modo a superare il pantano. Le strade, in quella regione, non si possono fare massicciate, se non si porta da lontano la pietra ché in quei luoghi non si trova un ciottolo a pagarlo a peso d’oro. Il nostro arrivo subì quindi un notevole ritardo, e gli ufficiali che attendevano a Mahaddei ne furono preoccupati; ma, quando arrivammo, accolti dalle salve e dalle grida di giubilo degli ascari, fui compensata dell’ultimo penoso tratto di cammino. Alla Mensa Ufficiali era preparato il pranzo e mi sentii subito avvolta da quella simpatica cordialità che mi riscaldò il cuore, nella speranza che la vita a Mahaddei potesse essere più facile e più serena che non a Mogadiscio. E fu proprio così. Mi diedi attorno fin dal primo giorno per fare della nostra casetta di legno – il nostro bungalow come avrebbero detto gl’inglesi – una simpatica ed accogliente dimora; organizzai il servizio, molto ben coadiuvata in ciò da Said, e da Ahmed Kerub, il cuoco che avevamo portato dall’Eritrea e che, in quel tempo, come sempre da che era con noi, ci fu prezioso: onesto ed intelligente com’era ed affezionato a noi. [...] Ai primi di giugno, Mahaddei ebbe la visita del Governatore il quale arrivò col suo seguito; ci furono riviste e feste per l’occasione. Il giorno due di giugno, festeggiando io il mio onomastico, ebbi occasione di ricordare, alla Mensa Ufficiali ove erano convenuti gli ospiti, come il Sant’Eugenio di casa dal Bò fosse nato, in veste di Statuto, nelle carceri austriache, cinquant’anni prima. E questo mio racconto ispirò al Governatore, alla fine del pranzo, un bellissimo e commovente brindisi in cui si ricordavano gli eroismi del passato e si auspicava al futuro. Ne fui oltremodo grata a S.E., e commossa. Partendo, il Governatore mi promise che appena fosse possibile il maggiore Pàntano sarebbe partito in licenza; ma sorgevano sempre nuove difficoltà.