Autore
Eugenia Dal BòAnno
1939 -1943Luogo
MilanoTempo di lettura
8 minutiCome un arco teso
Entro ora a parlare dell’ultimo periodo della mia vita: il più straordinario che sembrerà a chi legge, inverosimile e che non è conosciuto. Qua e là, in qualche sfogo dell’anima, io posso aver detto qualche cosa, a persone intime che mi conoscono; ma un po’ per timore di non esser creduta, e molto per fierezza, ben poco ho potuto dire. Ed io voglio, invece, che si sappia tutto dai miei nipoti e pronipoti, perché neppure una sfumatura di dubbio possa essere in loro, dopo la mia morte. Narrerò di un’odiosa persecuzione che ha riempito delle sue conseguenze, dolorose e tragiche, gli ultimi anni di vita del mio Gherardo, e continua nel più turpe ed abbietto modo ad accanirsi contro di me. Voglio rifarmi dal principio: quello almeno ch’io vedo, perché potrebbe esserci qualche manifestazione più remota ch’io non conosco. Ritorno con la memoria al 1922, all’ora della marcia su Roma: eravamo, appunto, colà in quei giorni e Gherardo interruppe la sua licenza e partì subito per la sua sede di Chieti, onde essere al suo posto in quel difficile momento. Qualche giorno dopo – essendosi ormai allontanata ogni possibilità di trambusti popolari od altro, e ben affermata l’autorità del nuovo governo, egli poté riprendere a Roma, donde io non mi ero mossa – la sua licenza interrotta: e mi raccontò allora che a Chieti si era mormorato contro di lui come di persona che non avesse accolto con entusiasmo il nuovo regime: tanto che egli aveva dovuto ricordare a quelli che avevano labile memoria, come alla Camera dei Deputati si fosse deplorato che il Comandante la Divisione militare di Chieti permettesse che la musica militare suonasse l’inno “Giovinezza”, adottato dal Fascismo e che ne era l’espressione: e poiché lo si accusava, pare, di tiepidezza verso chi aveva compiuto una saggia ed incruenta rivoluzione, egli aveva ricordato le bellissime parole rivolte dal nuovo Capo del Governo a degli ufficiali che, in massa, avevano voluto dimostrargli la loro partecipazione al nuovo indirizzo politico. Mussolini, allora, aveva detto che l’Esercito era e doveva essere fuori di ogni partito, solo devoto alla grandezza ed alla forza d’Italia. Sagge parole, le quali dimostravano quale concetto avesse l’uomo nuovo, il quale aveva preso in mano le redini della nostra politica, della funzione dell’Esercito in essa. Questa una prima avvisaglia, forse da non trascurarsi; donde erano venute quelle voci e quelle accuse?
 
Non dai Fascisti di Chieti, certo, che erano devoti e riconoscenti al generale Pàntano, il quale, senza mai venir meno al suo dovere, li aveva sempre protetti: fra le altre cose, aveva anche, da un anno, pagato di tasca sua la pigione per il luogo di raduno del fascismo chietino. Eppure le voci deploranti la condotta del comandante la Divisione di Chieti, si erano fatte ben sentire in quei giorni. Più tardi, quasi un anno dopo, io mi trovavo presente alla Stazione di Chieti – dovendo recarmi a Pescara, ospite dei baroni Sanità – quando arrivò il treno che portava a Pescara Benito Mussolini, il quale pronunziò colà il noto discorso che sembra, oggi, a noi – che viviamo la guerra – il primo squillo d’allarme contro l’Inghilterra. Erano ad attenderlo alla Stazione di Chieti il comandante il Corpo d’Armata, generale Umberto Montanari ed il comandante la Divisione di Chieti, generale Gherardo Pàntano, ambedue col petto fregiato di più medaglie al valore. Ebbi a meravigliarmi allora della maniera fredda e compassata con cui il Duce salutò i due eroici rappresentanti dell’Esercito, che erano là per riceverlo. Con la testa alta e lo sguardo rivolto avanti a sé, passò salutando col braccio alzato, senza degnare neppure di guardarli: e poi per tutta la giornata in Pescara, egli affettò di non vederli. Durante i tre anni e mezzo passati a Chieti, noi avevamo un gran desiderio di tornare nel Veneto od almeno di avvicinarci ai nostri paesi e Gherardo scrisse accennando a questo suo desiderio all’allora Capo di S.M. generale Vaccari. Ne ebbe una risposta così poco garbata che gli tolse qualunque velleità di tornare alla carica. E ne rimase molto male. Invece, nel 1923, venne improvvisamente l’ordine di trasferimento a Pola, che era nel Corpo d’Armata di Trieste. [...]
La nostra sistemazione a Pola fu laboriosa e lunga: non si trovavano appartamenti e, quando la fortuna ci assistette ed una bella villa ci fu offerta, essa mancava di mobili, e noi avevamo bisogno di trovarli a nolo, perché ad una grossa spesa, come sarebbe stata quella di comprarli, a quei tempi, non era possibile pensare. Le difficoltà furono superate mercé l’intervento dell’ammiraglio Pepe che era allora a Pola. Pola, occupata nel 1918 dalla Marina italiana, era in quel tempo – 1923-’24 – una dimora poco simpatica per chi non apparteneva al mare: le case, le ville, i giardini già della Marina austriaca erano tutte occupate dalle famiglie degli ufficiali della Marina italiana.
L’ammiraglio – che era solo – aveva una sontuosa dimora con illuminazione e riscaldamento: aveva automobile ed autoscafo, mentre il generale comandante la Divisione – che era superiore in grado e comandava tutto il Presidio non aveva né casa, né automobile, né alcuno dei vantaggi di cui ho detto. Appena giunti a Pola, mio marito mi ammonì: “Bisogna andar d’accordo con tutti e fingere di non accorgersi di queste miserie; finché non avremo casa e saremo costretti a mangiar fuori, la mattina saremo ospiti – paganti s’intende – della mensa del Comando della Brigata e la sera andremo al Circolo della Marina: così, non si fa torto a nessuno”. E così avvenne: al Circolo della Marina fummo accolti dall’ammiraglio Pepe con effusione di simpatia e con vero – non soltanto detto, ma sentito – piacere. Egli era ancora sotto il peso della tragica fine del suo ultimo figliuolo – Ugo Pepe –, vittima dei bolscevichi a Milano. [...] I magazzini di Pola della R. Marina erano pieni zeppi di mobili che avevano arredato un tempo le case degli ufficiali di Marina austriaci; per quanto i nostri avessero scelto il meglio, rimaneva ancora tanto da poterci accontentare. E noi, per concessione dell’ammiraglio Pepe, potemmo scegliere i mobili necessari ad ammobiliare la nostra casa – prendendoli a nolo. La villetta, essendo bella per se stessa, fu presto, con un po’ d’arte e di buon gusto, una dimora simpaticissima. Mio marito, ricordo con orgoglio, diceva ch’io possedevo un sesto senso, quello della casa, sapendo far gioconda ed accogliente qualunque dimora, anche – come era in Colonia – con mezzi più che semplici, primitivi addirittura, perché tutti i bauli erano in funzione di mobili, quando non c’era altro. Invitati a qualche the, a qualche ricevimento, qua e là, quando non avevamo ancora casa nostra, dovetti, appena messa a posto, aprire il mio salotto, tanto più ch’era desiderio di mio marito ch’io riunissi i diversi elementi della Marina e dell’Esercito per tentare di vincere quella latente ostilità che avevamo notato. Chi ha letto queste pagine sa che non era il mio ideale quella vita “riempita di doveri” di convenienza; ma bisogna talvolta fare di necessità virtù e Gherardo me ne era grato, lui che sapeva quanto sacrificio mi costasse la cosa. La Marina possedeva – in Pola, come ho accennato –, dei bei giardini e, quando io “ricevevo”, l’ammiraglio Pepe aveva la gentile premura di far cogliere i più bei fiori, per adornarne la mia casa. Apriti cielo! Fu il segnale dei pettegolezzi di cui non volli (e, del resto, non è nella mia indole) preoccuparmi, come non se ne preoccupava mio marito; e, fin dal principio, non stentai ad accorgermi che la mia profezia si avverava. Io, che avevo conosciuto i pettegolezzi e le maldicenze coloniali, trovavo niente affatto inferiori a quelli, questi di Pola; ma la nostra vita intima era così cara in quel paese, così vicino a Venezia, ove si parla il nostro dialetto, la mia casa era così accogliente che potevo sopportarli – e li sopportavo – con stoica indifferenza.