Scheda di dettaglio
Claudio Foschini
In nome del popolo italiano
La storia rocambolesca di un “ragazzo di vita” delle borgate romane tra gli anni ’60 e gli anni ’90: miseria, carcere, droga e redenzione (mancata).
Estratti Diario: 4
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Roma, 1949. Tra le baracche del Mandrione nasce Claudio Foschini, da una madre “scarpara”(ladra di portafogli in gergo romano) e un padre che vende l’Unità alla stazione Termini (“lavoro di prestigio fra i poveri”). La sua infanzia assomiglia a quella di tanti bambini delle baracche romane, Claudio cresce nella miseria, ma il clima di solidarietà che regna all’interno della famiglia e della comunità di borgata danno speranza e persino gioia. Tra vicini ci si dà una mano, si passano le giornate insieme e s’inizia anche a fare le prime ragazzate in banda.
Poi è il tempo del collegio, inevitabile per le famiglie più povere, per garantire ai figli pranzo e cena. Ma la separazione dalla famiglia e l’educazione rigida del collegio lasciano delle ferite profonde nel giovane Claudio, che comincia ad essere abitato da un desiderio crescente di ribellione e vendetta. I primi furti li inizia a fare quasi per gioco, ma di lì a poco arriva al carcere minorile di Porta Portese. E da quel momento inizia una spirale vertiginosa fatta di carcere, furti, rapine, ancora carcere e molta droga. La vita si alterna tra dentro e fuori, più dentro che fuori, e nonostante il senso d’ingiustizia rispetto a ciò che Claudio vive come un destino, la reclusione è un momento di riflessione e bilancio, di memoria e proiezione. È così che Claudio riempie undici bloc-notes raccontando la sua vita, in modo onesto e autentico, lo fa per lenire il passare del tempo dietro le sbarre, ma anche per avvertire quei ragazzi che potrebbero essere attirati dalla stessa strada verso la facilità, solo presunta e mai goduta. La scrittura, così come il teatro in carcere, permettono a Claudio di assaporare l’inizio di un riscatto che però non avviene mai fino in fondo: a neanche sessantuno anni, un mattino di maggio del 2010, Claudio viene ucciso da una guardia giurata in borghese in una tabaccheria, durante l’ultima rapina.
Claudio Foschini, “ragazzo di vita” autentico, ci affida la sua vita rocambolesca con generosità e lucida incoerenza, offrendoci un ritratto “da dentro” della Roma borgatara di quegli anni.
 
La storia di Claudio ha vinto il PREMIO PIEVE SAVERIO TUTINO nel 1992 ed è stata pubblicata da Il Mulino nel 2013 con il titolo  “In nome del popolo italiano”.
 
Prefazione
Giancarlo De Cataldo
Tra Pasolini e la Banda della Magliana
«Era il giorno 30/7 del 1949 alle ore dodici fra le baracche del  rione Mandrione Acquedotto Felice nascevo io in qualche modo  anchio avevo come gesù il bue e lasinello il bue una puttana del  vicino Mandrione e lasinello, Agostino un ladro ».  
 
 
 
Partita, come ricorda l’incipit della sua autobiografia, in  uno scenario che richiama immediatamente i «ragazzi di vita»  pasoliniani, l’avventura umana di Claudio Foschini, ladro, ra pinatore, bandito e «coatto» a trecentossessanta gradi, finisce  una mattina di maggio del 2010. Foschini ha sessantun’anni. Da  qualche tempo è tornato all’antica «vocazione» di rapinatore. Il  suo ultimo colpo, quello che gli sarà fatale, lo progetta ai danni  di una tabaccheria di Fonte Nuova, sulla via Palombarese. È  qui che Foschini incontra il suo destino. Ha le sembianze di un  giovane del posto. Uno perbene: guardia giurata fuori servizio che  per caso ha deciso di salutare un parente o un amico. E quando  si trova davanti due rapinatori (ha un complice, Foschini, in  questa sua ennesima impresa criminale) fa fuoco: più che altro  per paura. Quella maledetta paura che è stata la cifra dominante  degli ultimi anni. 
Un epilogo che ricorda un’altra storia di malavita, quella di  Angelo Angelotti, pregiudicato legato alla Banda della Magliana  morto anche lui a sessantun’anni, dopo una lunga galera, durante  una rapina.  
Ma c’è una significativa differenza, fra queste due biografie  all’apparenza simili. Di Angelotti sappiamo soltanto ciò che ci  rivelano i verbali processuali e il lungo certificato del casellario.  Foschini, la sua vita, ce l’ha raccontata in questo diario fluviale  che attraversa quarant’anni di storia e si chiude su forti note di  consapevolezza e di speranza.
Foschini ha trovato le parole, insomma. E il fatto che non  gli siano servite rende il finale di partita, se possibile, ancora  più amaro. Ma come è stato possibile che uno capace di «trovare le pa role» le abbia poi, a un certo punto, improvvisamente smarrite?  Non suona, tutto questo, come uno smacco, per chi crede che la  Cultura sia il migliore antidoto, se non l’unico, contro la deriva  delle vite spezzate? 
 
Con la sua autobiografia, Foschini vinse nel 1992 il premio  Pieve. Dal testo fu tratto, qualche anno dopo, uno dei film della  serie I diari della Sacher. Nel momento in cui scrive In nome del  popolo italiano, Foschini è reduce dall’esperienza dell’Antigone,  spettacolo ideato e realizzato dai detenuti del carcere di Rebibbia. Sembra proprio che la lunga corsa verso la dissoluzione del  «borgataro sfrontato e spaccone» (così lo definì Saverio Tutino  nella prefazione all’edizione originale del volume) sia destinata  a sfociare nell’accettazione di un più quieto percorso di «normalità». Gli anni nei quali Foschini matura la sua (purtroppo  effimera) rieducazione sono gli anni del carcere riformato. La  legge Gozzini, del 1986, ha finalmente infranto il tradizionale  muro che separava la prigione dalla società. Lavoro, istruzione,  cultura diventano a pieno titolo diritti dei detenuti. È un approdo  storico, che nasce non privo di contrasti e contestazioni. L’Italia  esce stremata dalla lunga stagione degli «anni di piombo». In  carcere vegetano migliaia di giovani di una generazione che ha  visto infrangersi il mito «nero» della lotta armata. Accanto alla  figura storica del piccolo e medio delinquente si affaccia il ter rorista dissociato: la sua cultura, la sua capacità di autoanalisi,  influenzeranno l’intero sistema penale italiano. O, se si preferisce,  largheggiare con gli istituti di rieducazione era un modo soft, e  tutto sommato accettabile, di chiudere i conti con un passato per  molti ancora ingombrante. Sta di fatto che Foschini, e come lui  tanti, beneficia dell’aria nuova che si respira nelle carceri. Forse,  senza la riforma, non gli sarebbe mai venuto in mente di mettere  mano alla penna e raccontarsi in modo così onesto e ribaldo.  Intendiamoci: si tratta pur sempre dell’onestà della «strada».  Un’onestà viziata dall’autocommiserazione, dal frequente ricor so alla giustificazione (il mondo è fatto così, che dovevo fare,  io, che sono nato povero?), ma non priva di autenticità, spunti  autoriflessivi, drammaticità, e venata di quell’irredimibile sense  of humour che, in quegli anni, rendeva la «mala» romana un unicum fatto di cialtroneria, cinismo, grandi ambizioni frustrate ma  anche ricca di un’umanità che affondava radici nelle leggende dei  «bulli» e dei «giustizieri» di quartiere. Di tutto questo mondo, e  delle sue tumultuose trasformazioni, Foschini è testimone, e, se  non protagonista, quanto meno importante comprimario. C’è in  questo diario il rimpianto di un’età dell’oro più vagheggiata che  realmente vissuta, ma ci sono anche la forza dirompente della  droga, la mutazione genetica del sottobosco delinquenziale che  culminerà nell’esperienza della Banda della Magliana, il sottile,  perverso, mai interrotto legame che avvince la strada e la Roma  dei palazzi del potere. 
 
E, infine, la morte.  
A pochi chilometri da quella Roma che ha corso in lungo  e in largo negli anni di gioventù, spinto dalla fame, da un sen so oscuro e magmatico di rivolta, dall’istinto predatorio, dalla  ribalderia dell’escluso. Conoscendone vicoli, anfratti, riti, miti,  miserie e splendori, in un incessante andirivieni fra la strada e la  cella. Roma amata di un amore non corrisposto: grande, vecchia,  saggia e cinica cortigiana che tanti come Claudio aveva già prima  illuso e poi deluso, e che tanti altri come lui si diverte a lanciare  su, sempre più su, per poi abbatterli al culmine della parabola.  Come una sadica tiratrice con un ingenuo piattello umano.  
La morte è fuori dal racconto, si ripete. Ma è impossibile  leggere queste pagine piene di vita senza pensare al finale. Pos siamo però lasciarci su un interrogativo: chissà se mentre se ne  andava per sempre, anche a Claudio Foschini sarà affiorata alle  labbra la battuta di Accattone morente: «aaah, mo’ sto bene...». 
 
Claudio Foschini nasce nella borgata del Mandrione, nel quartiere dell'Acquedotto Felice, a Roma. In questo brano Claudio racconta, grazie a ricordi ancora vividi, l'infanzia modesta ma felice di un bambino di borgata. Uno spaccato della vita che si accomoda come può tra le baracche, ai confini di una capitale a cui la borgata fornisce l'acqua (è il quartiere dell'Acquedotto), ma dalla quale non riceve in cambio alcuna attenzione. Un mondo fuori dal mondo, regolato da leggi non scritte, ma condivise, una zona di margine, dimenticata, all'interno della quale ce la si sbriga come si può e la legalità è un filo sottile che va scavalcato di continuo per stare in piedi. Un luogo di miseria e impossibilità, reso però accogliente dall'amore indefettibile dei genitori e dalla solidarietà autentica che s'instaura tra baraccati. 
Poi il brano si tinge di malinconia, Claudio è costretto a subire una lacerazione: la separazione da quel mondo imperfetto ma puro, non intaccato dalle regole di uno Stato senza cuore, quel mondo in cui si condivide tutti la stessa sorte e la si alleggerisce come si può, è straziante. Inizia la vita in collegio e prende forma lo scarto rispetto al mondo esterno che accompagnerà Claudio per sempre, un sentimento che mescola inadeguatezza e ingiustizia, che farà nascere in lui la volontà di "raddrizzare la sorte" e lo porterà, di lì a poco, a scegliere l'illegalità come forma di resistenza rispetto a una realtà percepita come troppo ostile.