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Autore

Leo Ferlan

Anno

1952 -1955

Luogo

Idria Slovenia

Tempo di lettura

9 minuti

La geometria dei sentimenti

Alger, 4 febbraio 1953 

Carissima Miriam, 

ora che sono tornato, m’invade un’immensa malinconia. Dovevo nascere nomade, sugli altopiani, o in una tribù di pigmei, nel Congo. Avrei avuto una vita felice. Se avessi stoffa di qualcosa, potrei anche fare come il pittore Dinet; ma non ho stoffa di niente. Stoffa di strambo, di vagabondo, di gabbamondo, di fannullone: ma è una stoffa che nessuno paga; neanche i nomadi, neanche i pigmei del Congo. 
Per fortuna, ci sono le tue lettere, e mi sento meglio. Hai molti meriti, Miriam. 
L’orchidea è una Cattleya o, piuttosto, un ibrido bigene rico Laelio-Cattleya. 

Peccato: avrei preferito ventidue rose di boccio, appena schiuse, affusolate, coi petali d’un rosa morbido, ceroso, serrati l’uno contro l’altro; di quelle rose dal colorito sano, fresco, come ci scorresse dentro del sangue vero, tiepido; di quelle rose che emanano un profumo delizioso, quando i petali avvoltolati l’uno nell’altro incominciano ad arricciarsi e scostarsi. 

La Cattleya è un fiore malaticcio, venuto su in serra, con infinite cure, in un’incubatrice, come un bambino magrolino e malnato. Quelle sue presuntuose ondulazioni e quella sua formosa superbia di fiore grosso e ben fatto, fanno pensare ad una bellezza posticcia, ad un sotterfugio, ad un gran bel fiore di carta, amorosamente laccato e pieghettato, per far credere a qualcosa di fresco e a dei petali stupendamente increspati. 

Eppoi, quella sua aria di preziosità, di signorilità, d’opulenza, d’aristocrazia pomposamente ostentata, fa pensare ad una ricercatezza tutta formale, protocollare, ad una generosità di “classe”, di “lusso”; generosità, cioè, tra le più sudice e farisee che l’umanità abbia saputo inventare. 

 

Ma Rudi non ha potuto trovarmi delle rose; e se tu sei contenta, me ne sto contento anch’io. E, dopotutto, far parlare i fiori, è ancora una tra le parecchie baggianate ingenue che fa lo spasso del popolino colto; popolino da Biblioteca del Popolo, Sonzogno. E non importa neppure l’averti mandato dei fiori; ciò che importa non si compera né dal fioraio, né altrove. E tu lo sai. 

Nella tua “My dear”, del 28 scorso, sorprendo tre parole paurosamente vere e paurosamente significative: “vivo”, “realtà” ed “esistenza”. Succede anche a me di volerti sentire viva, reale ed esistente. Verrà anche luglio, e potremo chiacchierare, ridere, raccontarci sciocchezze importanti, e guardarci negli occhi. 

Non avertene se non riesci a discutere dottamente di “democrazia”, “comunismo”, Hegel e Marx con Olga; me lo rimproverano anche a me; a me che domando ogni tanto se la guerra in Corea è finita o meno, e che rispondo, quando mi chiedono cosa penso di Pinay, che è un brav’uomo et j’en sais pas davantage. Dicono che sia una forma biasimevole d’incoscienza collettiva, d’apatia sociale. Heim mi rimprovera di leggere nella Nature articoletti sul funzionamento dello spettrografo infrarosso automatico o sul significato delle ipertelie nel mimetismo animale, e di non seguire amorosamente gli articoli dell’Observateur sul sindacalismo mondiale o sulla problematica esistenza di una littérature de gauche negli scrittori cattolici. Forse è vero; siamo tutti pecoroni dello stesso gregge. Ma, per conto mio, prima d’interessarmi delle altre bestie che mi stanno accanto, vorrei poterne andar orgoglioso. E invece me ne vergogno, spessissimo. 

Bisognerebbe migliorare l’umanità, prima d’imporci un amore così decisivo, un interesse così totale e pesante. È molto più facile amare un individuo ributtante, aiutarlo, soccorrerlo, bastonarlo, perfino, se ciò può renderlo migliore, che non pensare, senza ribrezzo, ad un’astrazione, ad una somma globale astratta, ributtante. Un’organizzazione sociale non va senza una coscienza prima di tutto individuale, personalistica. E le bestie, della specie Homo sapiens, si contano ancora per centinaia di milioni… 

Politica? Chiacchiere! Potremmo solo discutere della buona o malafede delle chiacchiere. È un compito sociale molto magro. 

 

Le ragazzine non sghignazzano più e si fanno perfino untuose; i coetanei mi chiamano “Monsieur”, “quello che lavora in Africa”. Quasi, un arrivato.

Il coltellaccio di Rudi me lo tengo molto caramente. È qualcosa cui tenevo molto, e me l’ha regalato. Forse non servirà mai a niente; neanche a temperare una matita, neanche a tagliuzzare uno stecchetto, per passatempo. Forse, dico. E forse servirà ad altro. Un coltello può servire a mille cose, e a niente. Dipende dalle circostanze. 

“Non hai mai un attimo di smarrimento, d’indecisione, di titubanza, sai sempre quello che vuoi.” 

Magari fosse vero, Miriam! 

Non sono affatto sicuro di me, di Leo proiettato nel futuro. Non sono sicuro di voler qualcosa di ben definito, di preciso, nel futuro. Come la vita, non sono ipotecabile. Eppoi, il futuro! Potrei diventare un criminale, morire domani l’altro, farmi una famiglia comme tout le monde, potrei fare anche qualcosa di bello e di duraturo; domani potrei benissimo vivere da riccone, o andare in giro a chiedere una crosta di pane. Non so niente del futuro. Chi sa qualcosa del futuro? 

Otto anni fa ero un miserabile, uno “schiavone” malvisto, un maniaco, un pazzoide malvestito, musone; non avevo nessuno all’infuori di Paolo, del mio amico Paolo. Le ragazzine mi sghignazzavano dietro, i coetanei mi guardavano con occhio ironico. 

Sono passati otto anni. Allora, come oggi, non sapevo niente del futuro. 

Oggi sono quasi un benestante, un “ragazzo intelligente che si fa strada e onore” - come dicono certe viscide linguacce gradiscane -, un “giovane istruito”, vestito bene, con tanto di gabardine bleu e di scarpe semelle crépe; ho una caterva di amici - diciamo, di pseudoamici -, di buoni amici, come Paolo, di eccellenti relazioni in Europa, America, un buon posto; le ragazzine non sghignazzano più e si fanno perfino untuose; i coetanei mi chiamano “Monsieur”, “quello che lavora in Africa”. Quasi, un arrivato. Nel millenovecentosessantuno, saranno passati altri otto anni; ne avrò trentatrè; trentatrè anni fanno una mezza vita. E non so come saranno, non lo so, assolutamente. 

La volontà crea le probabilità; ma la scelta non è nostra. E non può essere nostra, se non sappiamo neppure optare per una probabilità precisa. 

Non ti preoccupare per le colichette: è il fegato, ma sono sciocchezze. Il dottore dice che fumo troppo e bevo troppo caffé; così, ora, fumo poco e non bevo che latte ed acqua. Miserie.

Ma parliamo della mia escursione dei giorni scorsi. Val meglio. 
Sono partito sabato, l’ultimo del mese. 

Ogni tanto, è un sollievo indicibile, partire. Lasciar dietro tutta la caligine e la ruggine della città: le ore fisse, gli orari, i “menu”, il solito cantone di caffè, i quattro musi che vedi ogni giorno, tutta questa strettissima scatola nella quale finisci per perdere fiato e soffocare. Andar via, per qualche giorno, cambiare aria, è come disintossicarsi, come levar un bavaglio al cervello, come lubrificare le idee. Sono partito presto presto, al mattino. C’era un orizzonte assurdo: d’un giallo luminoso che sfuma nel blu del cielo, senza creare un verde. La luna galleggiava nella luce del l’aurora e pareva sciogliersi, poco a poco, come una pastiglia di zucchero. 

All’alba lasciavo dietro la schiena la grassa Mitidja, e filavo verso le montagne del Tell. È quasi con un senso di tenerezza che ritrovavo le vecchie impressioni: terra bruniccia, rossastra, gobbe solcate da profondi graffi; radici di pino d’Aleppo a nudo, contorte, striscianti, lunghe, come interiora della terra stessa; ancora la sensazione di vedere il Tell come una gran carcassa morta, di bestia che si sta calcinando, sgretolando al sole, coll’ossa levigate dal vento e sbianchite dal sole. 

Ad Ain el Hadjel incomincia la steppa ad artemisia, immensa. La mia vecchia, cara steppa! Le grandi distese non sfumano in una tenera nebbiolina liscia, morbida; da vicino sembrano verrucose, coi cespugli sparsi d’artemisia e d’alfa; l’alfa è un intreccio di fili d’argento, un ciuffo di fili d’argento, appena appena verdolini; da lontano, le distese si fanno vieppiù scabre, piatte, ma granulose, punteggiate. Sono arrivato a Bou-Saâda nel pomeriggio. Un’oasi bellissima, ma bella soprattutto come trucco. È piena d’insegne di Coca-Cola, vi s’organizzano passeggiatine sulla gobba d’un cammello, e si possono vedere danze indigene per duecento franchi. 

Tutt’intorno a Bou-Saâda è invece un paradiso: steppa e deserto. 

Appena passato il Marabout, il ponte sull’Oued, lo schifo del bel cartellone “Dances de caractère des Oulad Naïl: prix à debattre”, scompare. Non c’è più anima viva; appena qualche tenda di nomade, qualche cammello al pascolo, tra i ciuffi d’alfa. 

Anche verso M’Sila, al Bordj Baniou, sul Chott-el-Hodna, una grande pace, un sole caldo, divini. C’era qualche miraggio verso l’Aurés; è passata una truppa di dromedari e abbiamo fumato una buona Bastos-Goût français con un arabo d’El Golea. 

Cinque giorni stupendi. Ed ora sono di ritorno, purtroppo. 

Non ti preoccupare per le colichette: è il fegato, ma sono sciocchezze. Il dottore dice che fumo troppo e bevo troppo caffé; così, ora, fumo poco e non bevo che latte ed acqua. Miserie. 

Bah, coraggio Leo, coraggio Miriam! 

molto caramente 

Leo 

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