Autore
Leo FerlanAnno
1952 -1955Luogo
Idria SloveniaTempo di lettura
48 minutiLa geometria dei sentimenti
 
Alger, 17 ottobre 1952 
 
Gentilissima signorina, 
la sua mi mette in un curioso e piacevole imbarazzo, e non so davvero, in fede mia, per che verso incominciare a risponderle. 
Penso che convenga semplicemente riprendere gli argomenti così, come Lei me li mette davanti. 
Innanzitutto, non deve credere ch’io sia un tipo buono, altruista e generoso, come Le hanno detto. Ho, invece, un caratteraccio rancido, e mi dicono un po’ misantropoide; faccia conto, un vecchio ventiquattrenne, un tanto ridicolo. Non creda proprio alle fiabe gentili che Edi Le racconta. 
Ho riflettuto su quanto Ella mi domanda, ma m’accorgo di non poter esserLe utile, e me ne dolgo. Vede, non conosco e non frequento volutamente nessuno, qui, e non saprei dove pescare delle informazioni d’una certa consistenza, e che presentino qualche garanzia di serietà e sicurezza. 
D’altro canto, non vedo, purtroppo, alcuna possibilità di lavoro per Lei nell’ambiente universitario, né in quello della missione scientifica di cui faccio parte. Lei dovrebbe naturalizzarsi francese, conoscere alla perfezione la lingua, e avere perlomeno delle buone conoscenze di biologia generale e fisico-chimica. Io stesso, sono stato incaricato in via del tutto eccezionale, grazie alle raccomandazioni di uno scienziato molto noto ed influente, membro dell’Académie des Sciences, il prof. Emberger. 
Mi spiace veramente. Creda comunque, che se dovesse presentarsi la possibilità di sapere qualcosa, La terrò informata. Le confesso, però, che le probabilità sono debolissime. 
Non ci sarebbe altro da aggiungere, ma la Sua lettera è tanto gentile da cavarmi di bocca dell’altro. Ad ogni modo, non se la prenda col tono dei miei discorsacci. Le ho detto: ho un caratteraccio irrancidito. 
Vediamo: dove diavolo radica il suo malcontento, Miriam? È importante che Lei riesca a rendersene conto. Vede, andarsene, è un’illusione. In nessun luogo è dato di ricominciare veramente. Si può, tutt’alpiù, modificare gradualmente l’impostazione, questo sì, ma non è tanto questione di luogo, quantoppiù d’impegno; due vettori, chiamiamoli così, che non hanno nulla in comune, né direzione, né forza, né risultante. 
Dopotutto, Lei ha una casa, una famiglia come non ne ho viste molte. Ne renda grazie, Miriam, poiché non è cosa da poco, e non si ottiene così, in quattro e quattr’otto. Anzi, non si ottiene affatto; è una fortuna che si constata, e basta. Ci pensi, e s’accorgerà che non pochi dei nostri rimpianti ce li impastiamo noi stessi, quasi inconsciamente. Si guardi in giro: quanti umani l’invidierebbero! 
Ma quand’anche Lei volesse credere che partire possa pur tuttavia significare andare verso il meglio, può credermi, che ci sono altre soluzioni, meno drastiche ed azzardate, e certamente - guarda paradosso -, più radicali. 
Se ho ben afferrato, Lei dovrebbe evadere non da casa, da Udine, dall’Italia, ma piuttosto da quella Sua scontentezza. Bisognerebbe diagnosticare esattamente la natura di questa Sua scontentezza ch’Ella sente e dice profonda. La scontentezza non è il male, ma una semplice manifestazione di quello; un po’ come la febbre: bisogna vedere cos’è che la produce. Allora, e solo allora, è possibile metter mano a un buon rimedio. 
Io immagino che la sua è noia, e della peggior specie. Perciò, si dia un’occupazione, s’interessi a qualcosa, a qualcuno. Lei non è certamente tanto scettica da non poter trovare una sola ragione d’interesse in una qualche attività, né tanto insensibile da non trovare qua o là nulla di bello o di piacevole. Si scelga una buona amica, una confidente; legga roba buona e sostanziosa; scriva; faccia delle pitture; ascolti musica buona; lavori; prenda, per esempio, i ragazzi della Sua classe come creature singole, complesse, da comprendere, una per una, e non come scolari anonimi da ammaestrare per forza e senz’amore. 
O dell’altro ancora, non saprei. Credo che non potrà mancare di trovare infine un polo d’attrazione. 
Comunque, non ho riso della Sua lettera. Si rassicuri. Concludo. Come ha visto, non ho potuto aiutarla, e mi rincresce, sinceramente. M’auguro di poterle essere utile in un’occasione più fortunata. 
Mi creda Suo devotissimo 
Ferlan Leo 
 
Alger, 28.10.1952 
Gentilissima Signorina, 
non le sto a dire il grandissimo piacere che m’ha fatto la Sua lettera. Lei può benissimo ritenerla “insulsa”, ma dovrà però riconoscermi il diritto di giudicarla per conto mio in tutt’altro senso. Insulso, per me è sinonimo d’inutile. Una lettera è insulsa solo se perfettamente inutile, se non risponde, cioè, né ad uno scopo, né ad un bisogno, né ad una simpatia, né ad una convinzione d’intenti. 
“Caro signor X, qui piove. Io sto bene e le auguro altrettanto. Saluti a lei e famiglia, suo Y”: un prototipo comico di lettera insulsa. Si riconoscono anche, perché finiscono invariabilmente e giuste giuste in fondo alla pagina. Come se le cose e i casi da raccontare fossero standardizzati e assolutamente prestabiliti. 
Uno che scrive lettere insulse non giudicherà mai sufficiente fermarsi a mezza pagina, e mai necessario aggiungere un foglio in più. Le Sue non sono lettere di “politesse”, e perciò non possono essere insulse. 
Mi spiacerebbe però non poco che l’opinione che Ella ha delle Sue lettere dovesse impedirle di “disturbarmi” ancora, come Lei conclude. Non è un disturbo che Lei m’arreca, ma un piacere, e più grande assai di quel che Lei non possa immaginare. Del resto non Le ho risposto per una sorta di dovere: ho uno spirito troppo orgoglioso e ribelle per piegarmi a necessità così minute. Le ho risposto semplicemente, perché il Suo modo gentile e intelligente m’ha colpito. 
E passo ad altro. 
No, non mi occupo seriamente di psicologia. Ho letto una bella fila di opere e trattati, soprattutto Durkheim e James; ma non mi riesce di credere che si possa squartare semplicisticamente un uomo, tagliarlo in pezzettini e classificarlo per caselle, - qui l’emozione, lì la tendenza, laggiù le sensazioni, e così via -, senza strozzarne miseramente l’unità. L’uomo e lo schema sono un’atroce contraddizione. 
Però mi piace osservare e cercar di capire gli altri. Lavoro di naso. Conto moltissimo sul fatto che nell’uno c’è sempre modo di scoprire tracce d’un altro. La società impone una serie di condizioni sensibilmente uguali per ciascuno, e mi diverte assai osservare da vicino le diverse reazioni. 
No, neppure la vita dei fiori e degli animali m’aiutano a capire quella degli uomini. Nel senso fisiologico, sì, ma non nel comportamento. 
M’è difficile dire come abbia fatto a capirLa, Miriam. Forse son passato anch’io per lì, o è stata un’intuizione, o un azzardo. Chissà… Ma ciò non conta. 
Conta invece molto che Lei abbia preso una decisione, che abbia reagito. Ciò significa già molto. Ora, tutto starebbe a tenerla salda, a non lasciarla degenerare in altre indecisioni, al primo momento di sconforto venuto. 
Faccia così: appena sente che l’ottimismo se ne va, lasciando posto ad uno scoraggiamento pessimistico, non si concentri a contemplare passivamente in Lei questa brutta metamorfosi, ma si confidi, scriva. Una tensione nervosa, una sensazione d’incompletezza, hanno la proprietà di lasciarsi deporre e neutralizzare. Perciò lo faccia. 
E se può, faccia anche di più. Una decisione vuole il suo equilibrio, non può restare a mezz’aria, bisogna puntellarla, o correrebbe altrimenti il rischio di degradarsi in una fissazione insensata e assurda. Pensi al futuro. Agisca per rapporto a qualcosa, se può. Per esempio ad un suo progetto lontano che s’innesti e valorizzi la decisione che ha presa. La Sua volontà di rendersi utile e indipendente, o altro. Vedrà, Miriam, che ne avrà una forza inaspettata. 
È necessario “vedere qualcosa” nella vita, scoprirle un senso. Il che significa dargliene uno. Oggidì l’anemia e la carenza d’ideali sono diventati una moda, alquanto ridicola e bestiale (esistenzialismi di vario impasto), e quasi un attributo condizionale della modernità. È beninteso che c’è pure del vero e del sincero in questa forma angosciosa contemporanea del sentirsi sperduti e inutili di fronte alla vita, ma per una donna, e per una donna intelligente e sana, la soluzione più naturale non può essere difficile: un’occupazione, una famiglia, possono diventare limiti ideali verso i quali tendere. 
Tutto il segreto sta lì: tendere verso una giustificazione sensata, e non lasciarsi andare alla deriva, abulicamente. Lei ha fatto bene a scegliere le lingue, e benissimo a scegliere, con quelle, il concorso di cui mi parla. L’inglese e il francese potranno anche servirLe realmente, potrà leggere bellissime cose, autori realmente grandi, viaggiare con immenso profitto, senza contare gli altri in numerevoli vantaggi che Le verranno dalla padronanza di lingue tanto importanti. 
Mi faccia il favore, Miriam, di contare senz’altro su di me, se le occorressero testi o libri di lettura in francese. Potrò inviarglieli da qui, o portarglieli per le prossime feste, come meglio crederà. 
È tardi, e termino. Debbo ancora metter mano allo zaino e al materiale da bled. Conto levar domattina le tende per una lunga escursione attraverso le steppe e il deserto, nel sud oranese. Non sarò di ritorno che tra il 6 e il 10 del mese prossimo. Spero d’aver Sue nuove, e nuove che Le auguro e m’auguro sempre migliori. 
Coraggio, Miriam! 
Suo devotissimo 
Ferlan Leo 
 
 
 
Alger, 18 novembre 1952 
Gentilissima signorina Miriam, 
Con dieci giorni di ritardo, è vero, ma me la sono cavata bella. M’accorgo che ho il muso ben infossato, abbronzato, le labbra screpolate dal vento, la schiena in pezzi, le mani tutte rattrappite e slogate dalla stanchezza, tanto da non riuscire neppure a tenere una penna tra le dita. Mi rassegno a scriverLe a macchina. 
Sono arrivato tutto fradicio d’acqua, sporco di fango, coi capelli all’aria, carichi di mota e sabbia, che, a prima vista, Lei m’avrebbe preso per un delinquente in fuga. Sulle steppe ho trovato per parecchie centinaia di chilometri delle piste infernali, sdruccevoli, sassose, insabbiate; ho forato quattro volte; a un certo momento tutto il carburatore s’è staccato e se non fosse rimasto sospeso penzoloni al tubo della benzina, l’avrei seminato per istrada; tra Bou-Alam e Aflou m’è scoppiata una camera d’aria e sono finito, poco graziosamente invero, lungo e disteso; a Bouktoub mi sono impantanato nella fanghiglia del Chott-ech-Chergui e ne sono sortito col motore in panna; insomma, non mi sono annoiato affatto. Ho fatto un giretto lunghetto; veda su una carta: Alger-Inkermann-Mascara-Saida-El Kheider-Gary ville-Bou Alam-Aflou-Laghouat-Ghardaia-Djelfa-Boghari Medea-Alger, un migliaio di chilometri… 
Appena tornato, e ancor prima di prendere una doccia, un buon caffè e di liberarmi di tutti gli stracci sporchi, son corso a vedere se c’era una Sua lettera. Ci avevo pensato spesso sulla steppa. 
(Però, a considerare bene la cosa, m’accorgo che la mia è una sorta d’aspettativa da ragazzino e perfettamente ingiustificata. Perché mai Lei avrebbe dovuto scrivermi, e puntualmente, e immancabilmente? Perché diavolo credere che Lei debba scomodarsi per qualcuno che potrebbe essere benissimo un semplice ed innocuo pauvre type, come dicono qui, un poverissimo diavolo da niente?) 
Tuttavia è bello rimetter piede da lontano, e trovare una parola gentile, un pensiero cordiale. È una debolezza poco virile, fuor di dubbio, ma talvolta tutti ne abbiamo un vile bisogno. La solitudine è divina, ma rimbambisce spaventosamente. Fa bene parlare a qualcuno, talvolta, e fa pure bene ascoltare. Non so se Lei può afferrare, Miriam. È difficile trovare parole adeguate per dirLe il bene che m’è venuto dalla Sua lettera; difficile soprattutto se uno ha preso definitivamente in odio il modo sentimentale. 
Penso che debba dirlo: crede Lei Miriam che potremmo ancora restar delusi e ripentirci della confidenza amicale accordata l’uno all’altro? Non crede che dovremmo lasciar in banda il “Lei”, untuoso e in un certo modo prammatico, e passare al “tu” come fanno i buoni amici? Certo, l’uso vorrebbe che ci si conosca, prima. Per conto mio io l’ho ben compresa. Però Edi dovrebbe presentarmi a Lei, a Natale. 
Ha ragione: vagabondare fa un gran bene. Naturalmente non è possibile rifarsi del tutto; non è dato di rifarsi una direzione; si può accentuare, come le dicevo, ritoccare, perfezionare, peggiorare perfino, questo sì, ma non di più. 
Durante quest’ultima escursione ho preso degli appunti interessanti; serviranno a meglio ricordare quelle ore stupende. La steppa - ho girato soprattutto nella steppa, questa volta -, è qualcosa d’immenso e monotono, una plaga senza fine che pare non abbia mai incominciato e non finisca mai. Lei corre verso l’orizzonte, ma non fa che scoprirne un altro, sempre uguale a se stesso, terribilmente vuoto, enorme. Per ore ed ore Lei non fa che passare da un Djebel all’altro, e tutt’intorno non c’è che quella strana vaiolatura di ciuffi d’alfa, di ligeo e d’artemisia, sulla terra d’un colore affocato, rubiginoso, o giallastro, o d’ocra, o violaceo, o verdastro e quasi di travertino. Si prova come una sorta di curiosa vertigine orizzontale. 
S’incontra ogni tanto un gregge, qualche tenda lurida e sudicia di nomade, qualche rara carovana che viene dal nord e va a svernare nel Sahara. 
Mi sono fermato a chiacchierare con degli Oulad Sidi Cheikh, nomadi del garyvillese; il capo tribù ha invitato il nostro gruppo per la primavera prossima: intende ingrassarci, dice, e farci capire cosa sia l’ospitalità, tanto cara a M’hamed e tanto grata ad Allah. 
* * * “Fortunato lei…” Sì mi ritengo molto fortunato. Innanzi tutto, perché vagabondando non poche visuali s’aprono e s’allargano. Il mondo cambia aspetto a tutti i mille chilometri. O, piuttosto, siamo noi a vedere mano a mano il mondo sotto i suoi aspetti più curiosi e quasi divertenti. 
“È proprio vero che sta solo in noi…”, come Lei dice acutamente. 
Vede, ho preso del thé alla menta, del caffè sotto delle tende di nomadi del sud oranese, ho mangiato del couss-couss con dei Kaid di villaggi berberi, mi sono divertito ad ingoiare della sc’rba nei ristoranti indigeni, mi son fatto amico di non pochi poveri diavoli di straccioni a Bab-el-Oued; così credo d’aver capito non poche cose. C’è chi preferisce le guide illustrate, precise fino al chilometro, con gli hotel ben classificati per categorie e comodità, con deliziose ed erudite descrizioni di monumenti, rovine e curiosità locali. E c’è chi preferisce invece restar ignorante, ma andar dentro nelle cose, mescolarsi, e capire così, quasi dissimulato, la vita degli altri. Sono due metodi molto differenti, quasi opposti. Direi, il metodo del “turista” e del “vagabondo nato”. Io sono piuttosto un vagabondo nato.
 
[...]
 
Le ricordo, Miriam, che Lei non mi ha detto ancora niente per i testi di francese. 
A ben presto? 
Suo devotissimo 
Ferlan Leo