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Passato appena il mezzogiorno il vento crebbe con tale impeto da rapirci alcuna delle poche vele che avevamo ancora spiegate obbligandoci a chiudere le altre per non disalberare.

Privi dal 28 Gennajo di qualunque calcolo astronomico positivo a causa del continuo tempo coperto si riteneva da cinque giorni la nostra situazione per stima, che s’aveva però procurato di conservar possibilmente esatta per quanto le triste circostanze lo avevano concesso.

Al mezzogiorno del 2 Febbrajo dietro questo conto di stima avressimo dovuto trovarci a circa 15 miglia all’Ovest di Ouessant e speravamo che continuando a correre fino a notte al Nord-Ovest avressimo poi potuto virar di bordo ed entrare nella Manica.

Il destino però aveva altrimenti deciso.

Passato appena il mezzogiorno il vento crebbe con tale impeto da rapirci alcuna delle poche vele che avevamo ancora spiegate obbligandoci a chiudere le altre per non disalberare. Onde scappare al pericolo di sommergere il bastimento che le onde infuriate senza interruzione coprivano, dovettimo drizzar la prora al Nord-Est cominciando a far getto d’una porzione del carico sperando pur sempre di doppiare l’isola di Ouessant


 

Il terrore, lo scoraggiamento in tutti noi durò un solo istante, indi l’imminenza del pericolo centuplicò la nostra energia.

I nostri piccoli cannoni furono i primi che scesero in fondo all’oceano, sfondammo poscia alcune delle poche botti d’acqua dolce che il mare aveva risparmiate perché saldamente assicurate alle sartie ed avevamo appena gettati circa 30 barili d’uva in mare, quando ci vidimo incagliati fra orribili frangenti.

Impossibile sarebbe il dipingere con parole il nostro spavento!... La nebbia ci avvolgeva più densa che mai, la pioggia spinta da vento furioso e glaciale percuoteva con impeto i nostri semiignudi corpi, il fischiar del vento a traverso la manovra spezzata ed in disordine non permetteva che s’intendessero dalla ciurma i comandi dati e reiterati che partivano dalla poppa, i colpi di mare che si succedevano continui minacciavano di trascinarci secoloro come trascinavano gli oggetti che potevano staccar dal ponte ed i frangenti sempre più si avvicinavano ed il mare che faceva salire i suoi spruzzi fino al cielo minacciava ad ogni momento d’ingojarci.

Confesso che il mio primo pensiero fu per l’eternità. Il secondo fu per la mia povera madre e sentii il mio ciglio farsi umido non per vedermi sul punto di rientrar nel nulla a 26 anni, la vita non avendo avuto per me che dolori poco m’importava abbandonarla, ma bensì per vedermi sul punto di cessar d’esistere lungi dai miei cari ed in modo da non lasciar loro nemmeno la possibilità di congetturare dove e come avessi perduta la vita.

Il terrore, lo scoraggiamento in tutti noi durò un solo istante, indi l’imminenza del pericolo centuplicò la nostra energia.

Vedendo il mare frangersi con impeto in quasi semicerchio sottovento a noi, ci dava indubitato indizio che noi ci trovavamo vicinissimi alla costa od incagliati tra rocce a poca distanza dalla stessa. Si trattava dunque, postoché il naufragio era oramai divenuto inevitabile, di dare in secco in un punto meno tormentato dai marosi. Questo punto ci parve essere precisamente al Nord-Est e si lasciò spingere il bastimento dalle onde e dal vento verso quel punto, approntando le ancore per farle cadere prima che il bastimento giungesse a toccar terra.

Quando ci vidimo a circa due gomene di distanza dai frangenti, si lasciarono cadere simultaneamente tre ancore, ma non fecero presa. Caddero esse sopra un immenso strato orizzontale di pietra ed il bastimento non trattenuto da esse toccò il fondo. Una scossa violentissima ci annunziò che l’ultima ora del Quirino era suonata… Immantinente dopo il primo urto un’onda, un cavallone, anzi una montagna d’acqua sollevò di nuovo il naviglio e lo gettò fra i frangenti in soli sette piedi d’acqua

Un solo raggio di speranza di giungere a salvarci tutti poteva venir offerto soltanto dal coraggio di qualcuno fra noi che volesse arrischiare la sua esistenza per tentare di salvare quella dei suoi camerati.

La chiglia staccata in tutta la sua lunghezza dal fondo del bastimento venne a galla, gli alberi crollarono, il Quirino s’inchinò nel fianco sinistro né più si mosse.

Tutta la scena qui descritta non durò che pochi minuti dal momento che ci vidimo incagliati tra i frangenti, fino al momento che il naviglio rimase a secco.

Abbenché soli sette piedi d’acqua fossero sotto il bastimento, nullameno un tratto che giudicammo di circa 150 tese ci divideva ancora dagli scogli che il mare frangendosi su di essi coronava d’una spuma bianca e ci assordava col successivo rompersi e ritirarsi delle onde. D’intorno a noi non si scopriva un piccolo seno, una calanca meno tormentata dalle onde che potesse animare il nostro coraggio a tentar di salvarci a nuoto, mentre il giorno declinava ed il bastimento che a poco a poco si sfracellava comandava imperiosamente di abbandonarlo al più presto.

Un solo raggio di speranza di giungere a salvarci tutti poteva venir offerto soltanto dal coraggio di qualcuno fra noi che volesse arrischiare la sua esistenza per tentare di salvare quella dei suoi camerati.

Ho detto che nel golfo di Guascogna il mare ci aveva rapito la barcaccia con la maggior scialuppa che in essa viene riposta. Il tentativo fatto di valerci della piccola imbarcazione che ancora era rimasta appesa alle grue da poppa era andato fallito, mentre appena fu calata in acqua un’onda l’aveva schiacciata sotto la poppa del Quirino, quindi ci era stata tolta ogni possibilità di stabilire una comunicazione tra noi e la terra. Il giovine marinaro Bernardo Benussi nato a Rovigno, agile e forte nuotatore, fidando nella sua destrezza e nella sua forza risolse o di salvarci tutti o di perir per il primo.

Legatasi una funicella a mezza vita si gettò in mare e nuotò con forza verso i più prossimi frangenti, in continuo pericolo di fracassarsi il cranio contro alle rocce od esser sommerso dai cavalloni che continuamente lo coprivano. Lo seguimmo cogli occhi con una ansietà facile a comprendersi ma impossibile a descriversi, in continua alternativa fra lo spavento e la speranza a seconda ch’ei spariva e ricompariva sulla superficie dell’acqua. Un’onda più forte, più terribile delle precedenti lo assalì, lo coperse e lo spinse in mezzo ai frangenti e più non lo vidimo. Pregammo pace al suo spirito ritenendolo affogato e l’ultima scintilla di speranza aveva già dato luogo alla disperazione allorquando alcuni secondi dopo la tensione della funicella che Benussi s’era legata al corpo rianimò improvvisamente con la speranza il nostro coraggio. Alla funicella che egli a sé tirava ne legammo una assai più forte ch’egli pure tirò a sé fermandone il capo ad una roccia. La corda venne da noi tesa quanto più si poteva e saldamente assicurata a bordo. In tal modo si vide aperta a tutti una certa via di salvezza. Tenendo afferrata la corda tesa a fior d’acqua e facendo correre le nostre mani su di essa giunsimo uno dopo l’altro tutti a terra, non senza gravi contusioni che l’onde ci fecero guadagnare gettandoci con impeto sulle le rocce. Un solo marinajo fu gravemente ferito. Egli si fracassò la mascella inferiore sopra una roccia e causa principale di questa disgrazia fu l’impazienza di quello che lo seguiva.

La terra che miracolosamente avevamo afferrata era un’orrida spiaggia cinta da altissime rocce che ne rendevano difficile e pericoloso l’accesso ad ogni sorta di navigli, né possibile era scoprire qualche traccia d’abitazione. Questa circostanza non poteva certo rianimare il nostro coraggio tanto più che la notte era discesa oscurissima e che lo stesso vento glaciale della mattina cacciava con impeto una dirotta pioggia sui nostri corpi mal coperti da pochi vestiti impregnati d’acqua di mare.

Quest’isola separata dal continente e precisamente dalla piccola città di Conquet da uno stretto canale, era l’isola di Beniguet.

Si temette d’aver naufragato sopra qualche d’uno dei tanti isolotti deserti che fanno corona alla maggiore isola di Ouessant e di essere dannati a perire di freddo.

Per la terza volta il nostro coraggio stava per abbandonarci del tutto quando il lontano latrato d’un cane valse a rianimarlo. Confesso che quel lontano latrato suonò più caro al mio orecchio che tutte le celesti melodie che sortir possano dalla gola dei nostri più festeggiati artisti di canto. Si fece a chi di noi meglio o più forte gridar poteva per attirar l’attenzione di colui o di coloro che seguivano il cane, o che erano da questo seguiti. Qualche minuto più tardi un’umile lanterna spandeva i suoi foschi raggi dirimpetto a noi e quella fosca luce brillò per noi come lo splendore del sole del tropico in una bella giornata d’estate! Una truppa di villici seguivano il portatore della lanterna. Brevi risposte alle poche questioni che ci vennero fatte bastarono a dire chi fossimo e ad indicare l’orrenda nostra posizione. S’implorò ospitalità e soccorso non tacendo però che la nostra provenienza dalla Turchia ci assoggettava ad una quarantena. Questa dichiarazione non impedì che i buoni villici ci soccorressero. Uno di essi, uomo di circa 50 anni, alto e robusto, si disse capo dell’unica famiglia che viveva sull’isola su cui avevamo naufragato.

Quest’isola separata dal continente e precisamente dalla piccola città di Conquet da uno stretto canale, era l’isola di Beniguet. Il capo della famiglia che ci ospitò era il signor Corolleur che da anni molti coltivava colla numerosa sua famiglia, ed ajutato da pochi famigli, il suolo dell’isola che apparteneva al comune di Conquet e che è una delle maggiori che formano l’arcipelago di Ouessant.

Queste cose le seppi dopo. La situazione nostra al momento che fummo scoperti dal cane del signor Corolleur non permetteva maggiori schiarimenti. Fummo condotti alla fattoria che distava circa un miglio dal luogo del naufragio; un gran fuoco acceso nel colossale camino ridestò a poco a poco il nostro vigore e ridonò il moto alle nostre membra intirizzite, un copioso, se non lauto pasto, ristorò le nostre forze ed un placido sonno ce le restituì intieramente.