Questo sito usa cookie di analytics per raccogliere dati in forma aggregata e cookie di terze parti per migliorare l'esperienza utente.
Leggi l'Informativa Privacy completa.

Logo Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Autore

Maia Tsertsvadze

Anno

2019

Luogo

Georgia

Tempo di lettura

4 minuti

Maiarrendersi (never give up)

Ho scoperto in quel momento il vero significato di un modo di dire georgiano che, più o meno, si può tradurre così: una persona è tanto grande quanto la somma delle lingue che conosce.

Io sono Maia e vengo dalla Georgia, il paese di Dio; la primavera è colorata e l’inverno è freddo, il paese del vino, di Medea e di Stalin. La Georgia è stata per tanto tempo sotto l’Unione Sovietica e dal 1991 è un paese indipendente con 3 milioni di abitanti: un paese piccolo con un grande cuore, se vai una volta vorrai tornarci ancora. Le sue tradizioni attraggono come una calamita, la cucina georgiana è la più buona del mondo, la gente è amichevole e ospitale. Il 24 settembre 2016 io e Mariam, mia figlia, da Kutaisi siamo venuti a Roma passando per Budapest. Quando l’aereo è decollato la prima sensazione che ho avuto è stata che si chiudesse un libro della mia vita e si aprisse un altro completamente nuovo. Nel mio paese lavoravo come receptionist in un’azienda farmaceutica, mi piaceva ma guadagnavo pochissimo. Infatti la Georgia, diventata indipendente, ha subito una grave crisi economica; mi ricordo di un lungo periodo in cui eravamo senza luce e gas: con tutta la mia famiglia dormivamo in un’unica stanza riscaldata da una kerasinka (una specie di lampada a cherosene). In Italia siamo venuti dal padre di Mariam, anche se con lui non avevo più rapporti da tanto tempo; ho preso questa scelta per il futuro di Mariam e un desiderio che avevo con lei. Comprare una casa piccola, che noi avremmo chiamato dreamhouse, e già sapevamo come sarebbe stata la cameretta di Mariam, un’enorme libreria perché lei adora leggere, tutti i muri colorati ed un cane che avremmo chiamato Beethoven. In Georgia, infatti, abitavo ancora con i miei genitori e mio fratello con moglie e figli. Siamo venute a Perugia, mi ricordo le vecchie e strette vie, la mia era quella dei pittori, una galleria dove i quadri mi raccontavano storie vere. Ho iniziato un corso di italiano perché non sapevo nemmeno una parola, per comunicare usavo l’inglese però mi sentivo isolata. Ho scoperto in quel momento il vero significato di un modo di dire georgiano che, più o meno, si può tradurre così: una persona è tanto grande quanto la somma delle lingue che conosce. Siamo andate in questura per chiedere asilo politico, che era il documento che aveva già il padre di Mariam. Ci hanno consigliato di fare in quel modo. A dicembre mi hanno dato un permesso di soggiorno di tre mesi in attesa della risposta sulla richiesta di asilo. Mariam ha iniziato ad andare a scuola in quel momento perché non potevano prendere una bambina senza documenti. La scuola era a tre chilometri da casa nostra e quasi sempre andavamo a piedi perché non avevamo i soldi per comprare i biglietti. Ho subito capito che tornare dal padre di Mariam era stato un errore, un’illusione: avevo sbagliato ancora. Dovevo cambiare qualcosa, però non mi volevo arrendere così facilmente. Volevo raggiungere quell’obiettivo che mi aveva spinto a lasciare il mio paese. Avevo bisogno di trovare un lavoro in modo da poter esaudire quel desiderio che avevo promesso a mia figlia: Mariam per me è tutto, quando avevo momenti difficili mi bastava un suo abbraccio per trovare forza e speranza e risolvere tutte le cose impossibili, sentivo la responsabilità di essere mamma. Con lei però era difficile trovare un lavoro, allora le ho spiegato tutte le cose e le ho detto che dovevamo combattere entrambe: io qua senza lei e lei in Georgia senza me. In quel momento Mariam aveva 8 anni, io 29. Lei mi ha capito. È tornata dai miei genitori a Tbilisi, in quell’anno Kakhaber Kaladze, ex calciatore del Milan e forse il georgiano più famoso in Italia, è stato eletto sindaco proprio di Tbilisi, che è la capitale del mio paese.