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Autore

Paule Roberta Yao

Anno

2019

Luogo

Camerun

Tempo di lettura

7 minuti

Questo strano mercoledì

Risposi, ignara del fatto che la mia vita stesse per cambiare in modo drastico ed irreversibile.

Mercoledì. Mercoledì 29 dicembre 2010 per l’esattezza. Mi trovavo a Marsiglia, la mia città natia, dove ero venuta a trascorrere le ferie natalizie in attesa del rientro in Italia dove mi aspettava una nuova vita da gennaio. In casa con me, c’erano mia nonna paterna e sua sorella. Stavano chiacchierando in camera di mia sorella piccola, Esther. In mattinata, era venuta a trovarmi Amandine, un’amica con cui stavo al liceo, anche lei di passaggio in città per pochi giorni. Le confidai le difficoltà e le frustrazioni del momento legate alla permanenza, durata anni, di mia nonna di cui mi dovevo prendere cura tra corsi di laurea e conflitti familiari feroci. La presenza di mia nonna complicava ulteriormente un momento già di per sé estremamente critico ed estenuante che durava da tempo e sarebbe durato ancora a lungo. Condividevamo quelle che erano state le esperienze degli ultimi mesi. Ero appena rientrata da un tirocinio presso un’agenzia di traduzione romana volto a convalidare il mio Master in Traduzione tecnica e Linguaggi settoriali. Lei sarebbe tornata in Inghilterra dove la aspettavano un amore ed un lavoro. Chiacchieravamo ormai da ore quando all’improvviso, squillò il telefono di casa. Risposi, ignara del fatto che la mia vita stesse per cambiare in modo drastico ed irreversibile. Stava per materializzarsi un’intuizione che covava nel mio petto da tempo, una specie di sesto senso a cui avevo anche dato forma e voce nitida in una conversazione con Lisa, una carissima amica napoletana incontrata qualche mese prima. Dall’altra parte della cornetta, Hélène, una compagna di squadra di pallavolo di mia sorella maggiore, Odette, mi rispose.

 

Tra incredulità e diniego totale, le ripetei in continuazione che non era possibile, le chiedevo cosa fosse successo.

Mi chiese dove fossi, come stessi e mi comunicava che mia sorella era venuta a mancare nella notte, o così sembrava, da quelle che erano le prime ricostruzioni. Tra incredulità e diniego totale, le ripetei in continuazione che non era possibile, le chiedevo cosa fosse successo. Si mise a piangere dall’altra parte del telefono appena scoppiai in lacrime. Mi disse che ci sarebbe stata qualora avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, che le circostanze del decesso non erano ancora chiare, che saremmo state in contatto nei prossimi giorni. Rimasi basita e decisi di tacere la notizia alla nonna ed a sua sorella per il momento. Entrambe erano anziane e di tutto avevo bisogno tranne che essere costretta a gestire un collasso dovuto ad una notizia da forte scompenso emotivo in un momento di scarsa lucidità. Tornai da Amandine e le annunciai la pessima notizia in chiaro stato di choc. Mi disse: “Cosa? Che cosa dici?” e poiché l’avevo invitata a pranzo, la mattinata procedette come fosse quasi normale. Non ho mai desiderato così tanto in vita mia che una persona capisse che fosse arrivato il momento di andarsene. Viste le circostanze, chiederle di andarsene era più che legittimo ma non ci riuscii, per paura di sembrarle scortese. Pertanto, rimase a pranzo in quel che fu un momento davvero surreale e tragicomico. Dovevo chiamare i miei genitori. Mi era toccato il compito assurdo ed ingrato di comunicare a due genitori che erano sopravvissuti ad una figlia, una sorte infame, innaturale ma che non succede solo in altre case, che non addolora solo sconosciuti in terre lontane. Due telefonate, durate circa dieci minuti ciascuna ma impresse nella memoria di ogni mia cellula. Quel giorno, il mio papà, che è pediatra, era di guardia all’ospedale di Avignone. Lo chiamai e per fortuna, mi rispose subito. Gli chiesi dove stesse, in compagnia o da solo, e soprattutto, se fosse seduto. Stava nel suo ufficio da solo. Sicuramente le mie domande preliminari lo avevano insospettito. Sono passati moltissimi anni e non ricordo la sequenza esatta delle parole ma so perfettamente di avergli detto “Papa, Odette è morta” e la sua risposta fu: “CHE COSA? MIA FIGLIA?”. Gli chiesi che intenzioni avesse, se era in grado di guidare e gli suggerii di raggiungere Marsiglia in treno. Mi disse di non preoccuparmi, che sarebbe tornato a casa in macchina quanto prima.

È singolare vedere come ognuno di noi reagisce davanti agli stessi eventi, alle stesse avversità.

Mio padre lo disse poi a mia nonna e alla sorella che mi rimproverò duramente dicendomi che stavo in casa con loro da ore e non gli avevo dato una notizia così importante e, a giudicare dalle reazioni isteriche che seguirono, avevo fatto bene. Mi ero concessa quei pochissimi istanti di “calma” prima del subbuglio in casa e del delirio di telefonate di amici, conoscenti e parenti, più o meno stretti che non mi avrebbero più lasciato neanche un secondo per pensare. In tutto questo, Amandine, stava ancora qui e mi degnava di un “sei coraggiosa” ogni tanto che sembrava essere strettamente proporzionale a quanto riuscissi a mantenere una parvenza di lucidità, anche se estremamente precaria. Dopo, chiamai mia madre, che non vedevo né sentivo da circa due anni. Chiesi anche a lei dove fosse, cosa stesse facendo in quel momento e le dissi che Odette non c’era più. In realtà, avevamo ancora pochissimi elementi a disposizione ma pareva che avesse accusato un malore durante la notte. È singolare vedere come ognuno di noi reagisce davanti agli stessi eventi, alle stesse avversità.

Sentii le sue urla dall’altra parte del telefono e poi il pianto disperato, straziante. Ebbe però una reazione alquanto irrazionale. Le avevo appena comunicato la morte della figlia ed il suo cervello, il suo corpo, lì per lì, la rifiutarono. Anziché accorrere nella casa familiare dove vivevo ancora con mio padre e la nonna, lei si fiondò nel servizio di rianimazione dell’ospedale della Timone. Andò a chiedere di mia sorella che, nella sua testa, doveva essere lì a lottare tra la vita e la morte. Mia sorella non era reduce di un incidente stradale, purtroppo non c’era più e non era lì, ahinoi, che la si poteva trovare. Mi ha raccontato a distanza di mesi che gli addetti all’accoglienza del servizio di rianimazione avevano cercato invano il nome di mia sorella nelle liste dei ricoverati prima di darle dei tranquillizzanti che non prese. Appurato che non ci fosse alcuna speranza da nutrire, appurato che la nostra storia fosse tragicamente diversa, è solo dopo che mia madre si rassegnò e venne a casa. Ci abbracciammo.