Autore
Lidia De GradaAnno
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11 minutiSignora compagna
L'indimenticabile 1956
Passeggiavo per le vie del centro con Ilde Pizzoli, la nuova, giovane responsabile delle donne comuniste di Milano venuta da Bologna insieme allo staff-dirigente Arturo Colombi e Nella Marcellino. Era appena smesso di piovere, cesti di anemoni e piccole piante di giacinto, esposte nei chioschi dei fiorai, rallegravano l’asfalto ancora umido; fra poco fasci di mimosa avrebbero avuto il sopravvento su ogni altro fiore: eravamo vicini all'8 marzo, Giornata Internazionale della Donna. Mentre camminiamo spiego a Ilde che il ritorno come attivista all’UDI, a cui proprio lei mi ha convinto quando lasciai i Pionieri, per me non è felice. Alle compagne del Comitato Provinciale sto sulle scatole sono una "minestra riscaldata" e perdipiù imposta dalla Federazione. Le compagne dell'U.D.I. non sono in armonia con la Federazione. Il XX Congresso del P.C.U.S.S ha provocato nel Partito un terremoto. I compagni si dividono in "rinnovatori” e no. Sotto sotto c'è l’antica contrapposizione intellettuali-operai e ora il ceto medio che cresce e chiede spazio. Spiego a Ilde che al corso della Società Umanitaria per assistenti sociali, che tuttora frequento, invece mi trovo bene. Ci sono materie che mi interessano molto: sociologia, psicologia, statistica. Vengo in contatto con persone di altre idee, ma non per questo arretrate. Un giovane cattolico, in una discussione di gruppo sul diritto al lavoro, ha sostenuto che il diritto al lavoro non basta. Il lavoro deve piacere. L'uomo e la donna hanno diritto ad un lavoro che piace. Non è una cosa semplice da attuare perché implica una rivoluzione nei rapporti e nelle valutazioni. Il piacere di lavorare è dato anche dai rapporti che si hanno sul luogo di lavoro e da come il lavoro, anche quello materiale viene valutato. Ilde mi ascolta preplessa. Viene fuori a dire:
“In questi giorni devi tenerti libera. Le manifestazioni dell'8 marzo sono l’occasione per far conoscere le compagne che verranno presentate candicate alle elezioni amministrative che sì terranno in maggio.”
-Candidata io?
-Il tuo è un nome conosciuto in città.
Questa uscita mi dà la misura dei cambiamenti in atto all'interno del Partito. Il nome di famiglia che è stato motivo della esclusione di Ernesto dal Comitato Federale nel '48, 0ra per me, non è più ostacolo ma titolo per presentarmi alla città: Nel Partito dopo che sono trapelate le notizie sul rapporto segreto di Kusciov ed è venuta di modo la "lotta al culto della personalità, non sì fa che discutere. Il pittore Giulio Turcato esprime le sue perplessità in modo buffo con la sua parlata veneta..."Insomma, insomma, se c’è il culto è perché c'è anche la personalità"...Appunto, anche a me interessava capire meglio la personalità’' di Stalin che avevo tanto esaltato quando ero ai Pionieri. In URSS avevo visitato nel villaggio di Gori la capanna dove era nato Stalin ne avevo fatto al ritorno un racconto entusiasta ai ragazzi. Mi diffondevo a descrivere la povertà dell'ambiente la foto di Stalin, adolescente, vestito da collegiale, la poesia che aveva scritto su un passerotto che aveva poi illustrata con un delicato disegno...tutti ricordi che figuravano nella capanna-museo. Le critiche che colpevolizzano il "culto" individuando in questo la causa di ogni male mi fanno venir voglia di capire di più. Leggere la storia attraverso i ritratti delle persono è sempre stata la mia passione. Nella libreria conservavo un volume che era appartenuto a mio fratello: lo Stalin di Trozski. Quale occasione migliore per capire l’uomo che sentire anche la campana del suo compagno-nemico testimone nell’epoca? Lessi il libro e mi fece riflettere. Il "Giuramento” pronunciato dall’'ex seminarista Stalin sulla tomba di Lenin, quello stile solenne che mi aveva tanto commosso, veniva definito una omelia di Chiesa.
...Noi ti giuriamo compagno Lenin che conseveremo come la pupilla dei nostri occhi, l'unità del Partito...
...I figli della tempesta e del bisogno, dei sacrifici inenarrabili e degli sforzi eroici, ad essi prima di tutto è dato appartenere al nostro grande Partito...
Il linguaggio era biblico, portava all’esaltazione il concetto di Classe e di Partito. (schiera di eletti come 1il popolo eletto??) Non era questa concezione all'origine di atteggiamenti che mi avevano amareggiato facendomi sentire inferiore in mezzo ad altri compagni? La radice dei miei sensi di colpa che mi avevano tanto tormentato? Mi sentii liberata da un peso. In una seduta del Comitato Federale in cui sì discuteva del xx° Congresso del P.C.U.S.S. e dell'effetto che aveva prodotto nella nostra base, presi la parola per spiegare i concetti che mi avevano colpito nel libro appena letto. La descrizione delle modificazioni avvenute nel Partito bolscevico quando (secondo Trozski) alla spinta popolare si era sostituita nella direzione del movimento una schiera di funzionari “fedeli” e “sicuri”. Parlare non era il mio forte. L’intervento da me esposto in modo succinto e povero, passò sotto silenzio, solo una bacchettata sulle dita da un compagno dirigente perché avevo tirato in ballo "addirittura" Trozski. Non avrei comunque immaginato neanche in quel mitico 1956 che il partito degli eletti si sarebbe trasformato in una nomenclatura privilegiata e attirato su di sé l’ira popolare, né che il "socialismo reale” si sarebbe concluso con un fallimento. Per me (come per tutti i comunisti) l’URSS restava la nazione che aveva battuto Hitler liberando l’Europa, il punto di riferimento per un futuro di fratellanza e di Pace. L'’intervento sovietico in Ungheria sì abbatté, come una mazzata. Provocò disorientamento in quanti avevano accolto in modo positivo il rinnovamento partito dal XX° Congresso dell’URSS. Ernesto voleva firmare il manifesto di protesta che un gruppo di intellettuali inviava alla Direzione che aveva definito "dolorosa necessità” la repressione della rivolta. Giorgio Amendola, legato ad Ernesto da stima e amicizia, in dalle sue prime permanenze in Calabria, gli chiese di riunire a casa nostra un gruppo di compagni intellettuali entrati in crisi. Ascoltò tutti senza obbiettare ma, arrivato alla fine concluse: "compagni, quando ci sono le barricate si sta coi nostri, poi si discute.” La simpatia che ispirava la persona e il suo realismo che mi era congeniale, mi convinsero. E se noi, andati al potere, avessimo deciso di uscire dalla Nato non sarebbero arrivati gli americani a ristabilire l’ordine? Il mondo diviso in due era la realtà che ci stava davanti. Giorgio Amendola esprimeva il Partito comunista in cui mi riconoscevo Nei comizi e nelle assemblee che, nel periodo in cui fu dirigente di organizzazione, veniva spesso a tenere a Milano, infondeva coraggio col suo accento sincero ai compagni mortificati dal velo sollevato sulla realtà dell'Unione Sovietica: "Compagni dalla verità'’ abbiamo tutto da guadagnare. ANDIAMO AVANTI CORREGGENDO GLI ERRORI." Terminava con "VIVA l’ITALIA”. Amendola invitava anche a dare spazio, negli organi dirigenti del Partito, ai compagni che occupano un posto nella società. Ernesto, ormai pittore affermato e conosciuto nel Partito per le sue opere sul mondo contadino della Calabria, venne eletto nel 1970 a far parte della Commissione Centrale di controllo.
 
Palazzo Marino
Palazzo Marino è il cuore della città. Costruito alla fine del '500 su disegno dell'Alessi e committenza del finanziere genovese Tommaso Marino (poi caduto in difficoltà economiche per le sue megalomanie e crediti non riscossi) fu terminato molto più tardi e solo nel 1861 divenne sede del Municipio. Era una bella sera del giugno 1957,1la prima volta che misi piede, come consigliere comunale, a Palazzo Marino. Entravo per surroga perché in prima nomina, nel '56 non ero stata eletta. Il Partito comunista aveva perso voti e due seggi: erano rimaste fuori le due donne candidate Rossana Rossanda ed io. Alla nostra bocciatura in prima nomina aveva contribuito non poco la nomea che avevamo di "compagne borghesi”. Le resistenze alla svolta del ’56 nel Partito erano ancora forti. Quella sera pensai per prima cosa a mio padre, non avrebbe mai saputo della mia elezione che lo avrebbe reso felice: papà se ne era andato il 10 aprile, per una infezione seguita ad un intervento alla prostata. Una fatalità o un errore umano? Il dubbio mi tormentava e anche il rimpianto di non aver fatto abbastanza per lui. Quando i genitori se ne vanno ci accorgiamo di quanto avremmo dovuto e potuto fare per loro e di quanto vogliamo loro bene! Un poco della loro personalità entra in noi. Ero terribilmente intimidita quando entrai nell'aula consiliare invitata dal Sindaco, e applaudita come si usa. Il cuore mi batteva forte, se avessi dovuto improvvisare un ringraziamento mi sarebbe mancata la voce, mi limitai ad un cenno del capo e a un sorriso. Su 80 consiglieri le donne erano quattro: due democristiane e due comuniste: Rossanda ed io. Sulla porta dell'aula consiliare, all’interno, ben visibile dai banchi del pubblico, stava la scritta: "QUAE IN PATRIBUS AGENTUR MODICA SUNTO” La scritta latina mi fece sentire che facevo parte dei "patribus" cosa che mi riempiva di orgoglio e di... confusione. Alla fine degli anni '50 le istituzioni erano rispettate. Sedeva sulla poltrona di Sindaco il medico Virgilio Ferrari, socialdemocratico succeduto al più prestigioso ed estroverso avvocato Antonio Greppi, Sindaco della Liberazione, quando sedevano in Giunta anche i comunisti. Ferrari era un uomo di destra, governava coi democristiani, (vicesindaco era il cattolico popolare Meda) In atteggiamento rigido sulla poltrona, a vederlo da lontano con i suoi baffoni bianchi somigliava ad un tappo di bottiglia dell'’'alto Adige, quelli che portano scolpiti in legno la testa di un omino. Era comunque un personaggio, non si approfittava della carica che ricopriva per fare quattrini, ha finito i suoi giorni nella Casa di Riposo per anziani Giuseppe Verdi. Sul finire degli anni '50 in Consiglio Comunale la materia del contendere fra maggioranza ed opposizione era se il Comune doveva limitarsi ai compiti di istituto o superarli, prendendo posizione sui fatti di politica generale e amministrare secondo una coraggiosa politica di espansione, dinamica. Nel nostro gruppo, che sedeva all’opposizione, brillava Rossana Rossanda, Pallida, bella, aveva sposato la tesi che dai Comuni, cellula di base dello Stato, dovesse partire il rinnovamento del paese.1 Comuni dovevano essere le "casematte della classe operaia per la conquista dello Stato.” La tesi veniva sostenuta con garbo, avendo cura di non spaventare troppo gli interlocutori.