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Mio padre mi ha raccontato che lui e suo fratello si arrampicavano sulla finestra di un abbaino da cui si potevano scorgere gli alberi delle navi ancorate nel porto di Buenos Ajres e si mettevano a gridare "Varda el domm de Milan" tanta era la nostalgia delle guglie del caro Duomo, simbolo di Milano.

Padri e Figli

Mio padre era pittore, figlio di pittore. Il suo destino fu segnato fin dalla nascita. Nonno Antonio, dopo avergli imposto di nome di Raffaello (poi mutato, nella pratica in Raffaele) mise nella culla del neonato, fra le fasce, un pennello. Nonno Antonio dipingeva quadri a olio, da cavalletto, solo nel tempo libero, La sua professione era quella di pittore-decoratore, che, nell'epoca liberty, in cui visse e operò, era molto ricercata. Partito da Milano, dove era nato, nella prima parte della sua vita' nonno Antonio decorò chiese e palazzi in Lombardia, poi, sempre per lavorare, andò in Argentina, portandosi dietro tutta la famiglia. Come gli emigranti che all’inizio del secolo erano chiamati "golondrinas” (rondini) perché si recavano nell'America del sud a coltivare la terra per assicurarsi due stagioni di lavoro (una in patria una al di là dell'oceano) anche il nonno restò in Argentina solo per pochi mesi. La moglie e i ragazzi non riuscivano ad abituarsi. Mio padre mi ha raccontato che lui e suo fratello si arrampicavano sulla finestra di un abbaino da cui si potevano scorgere gli alberi delle navi ancorate nel porto di Buenos Ajres e si mettevano a gridare "Varda el domm de Milan" tanta era la nostalgia delle guglie del caro Duomo, simbolo di Milano. Rimpatriarono per emigrare nuovamente, questa volta, in Svizzera dove si stabilirono a Zurigo. Il nonno mise su un'azienda di decorazione. Rimase a Zurigo trent'anni. Aprì un bel negozio In Stauffakerstrasse; sulla targa in vetro nero, inciso in oro, stava scritto: Herr De Grada Vallermaister. Era il punto di arrivo di una vita dedicata al lavoro e alla promozione sociale della famiglia. Un delicato acquarello di formato lungo e stretto, datato 1897 raffigura due alte betulle su un prato, (i colori sono quelli tenui della pianura lombarda) dice come già a dodici anni mio padre dipingesse il paesaggio con grazia e maestria. Qualcosa della dolce malinconia di Milano sulla cerchia dei navigli dove abitava da bambino, deve essergli rimasto dentro. Nell'ultimo scorcio del secolo, si spegnevano gli echi della scapigliatura lombarda. Il bambino, che frequentava le scuole elementari di Porta Genova, non sapeva niente delle correnti culturali e artistiche del suo tempo. Ma i bambini sono come i cagnolini, annusano l’'aria, sentono discorsi che non capiscono e assorbono, Nonno Antonio, da giovane, prima di sposarsi, scaricava le cassette di frutta e verdura al mercato per guadagnarsi da vivere, mentre frequentava i corsi serali all'Accademia di Brera; nel lavoro e nella scuola ebbe compagno Giovanni Segantini. Una comune esperienza legava i due ragazzi il nonno, orfano, proveniva dal collegio dei Martinitt, Segantini dal Marchiondi. Segantini divenne il pittore delle solitudini delle alte montagne dove poteva dipingere liberamente a contatto della natura, senza preoccuparsi di altro che non fosse la sua pittura. Mio padre crebbe con questa aspirazione..Il sentimento più radicato in lui fu la difesa dell’autonomia dell'arte, l’'avversione al gusto dominante, allo spirito borghese pratico e utilitario. I casi della vita che lo portarono a Zurigo all’età di quattordici anni dove subì  il trauma di essere rimesso in prima elementare in mezzo ai piccoli svizzeri senza sapere ne' capire una parola di tedesco, accentuarono la sua timidezza e la sua solitudine. Crebbe con un carattere, chiuso e sebbene di indole mite, nell'intimo ribelle alla famiglia. Questi sentimenti appaiono chiari in un suo scritto, pubblicato nella presentazione del catalogo di una sua Mostra.

Ma venne la guerra e ritornai in patria: per compiere il mio dovere; l'interruzione mi fece riflettere su molte cose e mi fece maturare la convinzione che l'arte non è un mestiere ma un apostolato e solo chi persevera e non ha paura di qualunque sacrificio può professarla - non vi è nessuna scusa né famiglia né bisogni materiali - perciò è nel dopoguerra che mi sono buttato pienamente nell'avventura artistica senza più nessuna titubanza.

"Figlio di pittore dovevo per forza diventare pittore e fino dall’infanzia la mia vocazione era ben definita, ma secondo mio padre dovevo diventare un buon decoratore per supplire alla parte pratica della vita, e questo ritornello mi ha afflitto per tutta la gioventù. Perciò ebbi molta fretta di arrivare ad essere qualcuno non per ambizione ma per dimostrare ai genitori che i loro timori erano ingiustificati e, mentre frequentavo ancora saltuariamente l'Accademia di Karlsruhe e di Dresda, esponevo nelle mostre ufficiali svizzere e li ottenni i primi successi molto lusinghieri - vendite allo Stato proposte per un pensionato che mi avrebbe garantito parecchi anni di studio ma che non potei ottenere perché avrei dovuto naturalizzarmi svizzero e i miei non lo vollero anche se da molti anni risiedevano in Svizzera. Dopo i primi successi vennero anche le prime delusioni. Per il pubblico la mia pittura era troppo moderna, per altri poco audace, ma non ho potuto mai intraprendere nulla senza una vera convinzione, perciò non sono mai corso dietro ai facili successi. Alla fine cominciai a vendere discretamente con molta soddisfazione dei miei genitori; mi creai una famiglia e tutto sembrava dovesse andare per il meglio; avevo sopportato sacrifici, era giusto che mi arrivasse un po' di tranquillità, ma questa tranquillità durò per poco tempo. I clienti c'erano ma erano esigenti, m'imponevano il soggetto che desideravano: il mercante mi ordinava due o tre copie del quadro che aveva avuto successo. Insomma ero disgustato di me stesso; temevo di diventare alla fine un mestierante qualunque e cominciavo a credere che i genitori non avessero avuto tutti i torti: l’arte pura è una professione da signori. Mi ero quasi deciso a mutare mestiere, cioè a entrare nell'azienda di pittura decorativa di mio padre e lavorare solo a tempo perso per me, ma Per me solo, senza l'assillo del cliente. Ma venne la guerra e ritornai in patria: per compiere il mio dovere; l'interruzione mi fece riflettere su molte cose e mi fece maturare la convinzione che l'arte non è un mestiere ma un apostolato e solo chi persevera e non ha paura di qualunque sacrificio può professarla - non vi è nessuna scusa né famiglia né bisogni materiali - perciò è nel dopoguerra che mi sono buttato pienamente nell'avventura artistica senza più nessuna titubanza. Quello che ho fatto e più ancora quello che farò non spetta a me a giudicare. Non ho avuto l'ambizione gerarchica di essere qualcuno, ma solo l’ambizione di dipingere. Non credo di essere né superbo né modesto: vorrei fare solo di più, molto di più."

A guerra finita si stabilirono per qualche tempo a San Gimignano, dove nacqui io il 28 di marzo del 1920. Le questioni pratiche della sopravvivenza della famiglia si facevano sentire per questo la mia infanzia fu dominata dall’incertezza economica se non proprio dalle privazioni.

Papà, in questo scritto, non racconta le cose proprio come stanno. A deciderlo a tornare in Italia in piena guerra non fu il sentimento del "dovere” e tantomeno l’amor patrio, ma fu sua moglie. La mia mammina, conosciuta durante una vacanza italiana a San Gimignano e sposata nell’'aprile del 1915 dopo appena tre mesi di fidanzamento, era una donna di temperamento eccezionale e piena di sogni. Aveva accettato di lasciare le sue amate torri e corso l'avventura di stabilirsi in Svizzera perché il paese le stava un po' stretto, voleva conoscere il mondo. In Svizzera si era sentita soffocare. L’ambiente piccolo-borghese che la circondava a Zurigo era il contrario di quello a cui anelava. Figlia di gente povera ma di antica cultura, si era guagnata il diploma di maestra elementare con borse di studio e, quando si sposò insegnava ai bambini e studiava per diplomarsi anche in lingua francese. Di idee era una "rossa"”, come il suo paese, ascoltava i comizi socialisti ed era antiinterventista, ma, sopratutto, in cima alla sua scala di valori stavano gli artisti. Lei stessa scriveva poesie ed aspirava a diventare scrittrice. Era la donna adatta per spingere mio padre a realizzarsi. La guerra offrì loro l’occasione di iniziare una nuova vita, insieme. Mio padre non andò al fronte, fu assegnato, come interprete, ad un campo di prigionieri tedeschi presso Cremona, lei lo raggiunse con mio fratello che era nato a Zurigo. A guerra finita si stabilirono per qualche tempo a San Gimignano, dove nacqui io il 28 di marzo del 1920. Le questioni pratiche della sopravvivenza della famiglia si facevano sentire per questo la mia infanzia fu dominata dall’incertezza economica se non proprio dalle privazioni. Per molti anni abbiamo vissuto degli aiuti che di tanto in tanto la nonna (che era una gran buona donna), facendo delle economie, mandava da Zurigo. Ogni tanto mio padre andava a trovare i genitori (portava anche noi bambini): in Svizzera riusciva a vendere ancora qualche quadro ai suoi vecchi clienti. Certo non erano più le vendite facili di quando dipingeva le nevi dell’Engadina, i "Kitck,”, come diceva mia madre, parlando della sua produzione d’anteguerra.

Immagini dell'infanzia

La mamma, al mio sguardo di bambina, era bellessima. Capelli neri e occhi verdi, inquietanti. Vestiva colori tenui, grigio perla, beige chiarissimo
Portava lunghe collane di perle (finte) e cappelli a cloche come era nella moda del tempo, aveva stile. Fra i sette e gli otto anni componevo per lei piccole poesie in cui la paragonavo a una rosa pallida coi petali delicati come le opaline. Avevo per lei un'adorazione. La sua immagine è indissolubilmente legata a Firenze, a villa Giramonte dove andammo ad abitare quando io avevo poco più di tre anni.