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Un arcobaleno di coloriAutore
Laura TakacsTempo di lettura
14 minuti18 dicembre 2024: Giornata Internazionale dei Migranti
I miei ideali li ho sempre avuti ben chiari, ben prima di Antonio. Per assurdo penso siano stati loro a scegliere me e non viceversa. Mia madre me lo ripeteva sempre, quando ero piccola, tutto succede per una ragione. I-de- a-li. Questa parola così strana, in quel periodo la sentivo sempre più spesso. Non sapevo ancora dargli un nome preciso. Che cos’è quello che ci circonda se non sappiamo nominarlo? “E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, ine vitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro?” Dare un nome alle cose… Mi ha colpita subito questa strategia dei colori che usava, aveva senso da subito, l’equilibrio perfetto tra sentimenti, razionalità e immagini. Allora ho chiesto: “E io che colore sono?”. Quel giorno indossava un maglioncino lilla a collo alto. Si è fermata un attimo, ha portato le mani al cuore, quasi in segno di preghiera. Mi ha guardata per un attimo con occhi meravigliati: “Tu sei un arcobaleno di colori”. L’unico complimento che mi sia mai stato fatto e con cui sono d’accordo. L’unico complimento che non ha niente a che fare con il mio aspetto fisico. Mi ci riconosco, lo capisco. Mi riesce facile vedere i colori attorno, ora molto più che allora. Anche se allora non avevo colto esattamente quello che cercava di dirmi. Lo devo A LEI se oggi classifico tutto a colori, se riesco a capirmi. All’epoca era la mia insegnante di italiano. Mi ha vista ancora prima di Antonio. L’enorme differenza tra loro due è che LEI MI HA VISTA, lui mi ha immaginata. C’è sempre un prima e un dopo…Lei mi ha portato un libro da leggere, dicendomi che si collegava al discorso fatto qualche giorno prima. Avevamo parlato della pena di morte. Mi sfugge quale sia la sua posizione al riguardo, ricordandola immagino che sia fortemente contraria! Si definiva idealista e ricordava come gli amici, a partire da quelli dell’università, le dessero dell’idealista quasi fosse un’accusa. Senza aver mai sentito nominare Beccaria, ero contraria. Un po’ naïve e in pieno stile pacifista, sostenevo la necessità di un sistema rieducativo invece che punitivo, comunque… Mi chiedo quale collegamento abbia fatto Lucrezia, perché il libro che mi ha portato è Ninna nanna a una mela frullata [1991], Laura de Luca. Il nodo centrale della conversazione era la libertà di scelta. Penso che sua figlia avesse abortito, nonostante fosse cattolica. Il libro si collegava proprio a questo, il valore e l’importanza della persona prima di una potenziale altra vita. Non ricordo esatta- mente l’idea che mi sono fatta del libro, quello che conta è il gesto. La voglia di nutrire una curiosità, prendersi cura di una passione, alimentare la voglia di scoprire. È il lavoro degli insegnanti, dei maestri, delle guide. VEDERE la potenzialità di chi hanno di fronte e mettere loro a disposizione tutti gli strumenti necessari per poter crescere, svilupparsi, espandersi. Allo stesso tempo sapendo dare il giusto spazio, senza forzare o esigere troppo, apprezzare ogni scelta compiuta razionalmente, conseguenza di un’analisi fatta con testa e cuore. Era quello che faceva Lucrezia, ha visto me, come ha visto altre delle mie compagne di classe. Lei era materna, anche se razionale e idealista, come lei stessa si definiva. CI HA INSEGNATO A PENSARE, scavare a fondo nei ragionamenti e andare oltre quello che le parole possono sembrare a prima vista. Ci ha insegnato a soppesare le parole, dare a ognuna il giusto peso e la giusta sfumatura. Tra tutti gli insegnanti, lei era quella che effettivamente metteva in pratica quello che ci raccomandava di fare. Impersonava LA COERENZA tra il dire e il fare. A differenza di Antonio, più pratico, più sfacciato, più diplomatico, più furbo (?) e più, oserei dire doppiogiochista, o semplicemente come verrebbe definito in “gergo aziendale”, (esiste (?)) uno squalo. ROSSO. Ecco perché lui lo associo al rosso. Una delle cose che mi ha insegnato è prendermi quello che IO voglio. SCEGLIERE una direzione e partire in quinta.
Quando ci siamo conosciuti ero in terza superiore, all’ultimo anno di una scuola professionale. Una scelta fatta per convenienza e semplicità non per interesse. Ero lì perché era qualcosa di pratico, semplice, immediato e funzionale. Era una scuola che mi avrebbe permesso di trovare un lavoro un po’ qualsiasi, un lavoro che mi avrebbe permesso di pagare le bollette e l’affitto. Un lavoro da primo piano, per citare E. Nevo, un lavoro per soddisfare i soli bisogni primari, senza tenere conto delle necessità intellettuali che si possono avere. Era una scelta pratica, ormai avevo capito che per quanto mia madre fosse disposta al “sacrificio” per crescere me e mio fratello, non l’avrebbe potuto fare per sempre. Ero convintissima andasse bene, pensavo che mi sarebbe bastato, sarebbe stata abbastanza una vita così, un semplice ripetersi di giorni uguali all’infinito. Non studiavo nemmeno, ascoltavo e basta e me la cavavo così. Ma a casa leggevo sempre. Come dicevo, ancora prima di Antonio mi era capitato tra le mani un libro di O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato [1975], unico libro che ho riletto un paio di volte. Un libro in cui, a un certo punto, l’autrice si domanda di quale sesso sarà quel bambino… Le era stato chiesto di scrivere un semplice articolo sull’aborto, lei ha scritto un libro su una tra le questioni più scottanti e tutt’ora attuali. “Sarai un uomo o una donna? Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma, la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: ‘Ah, se fossi nata uomo!’. Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicare l’assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare pro-la vita, la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba bianca: mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell’Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un’incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo, ESSERE DONNA È così affascinante. È UN’AVVENTURA CHE RICHIEDE UN TALE CORAGGIO, una sfida che non annoia mai.” Ecco, queste sono le parole che mi hanno toccato di più. Nella mia copia del libro ho piegato l’angolino della pagina in cui sono scritte, le ho sottolineate, come promemoria. Sono queste quelle che mi sono rimaste, mi dicono qualcosa, mi toccano da vicino. Allora non perché essere donna fosse un’esperienza personale particolarmente dolorosa e sofferta. Era qualcosa di intuitivo, ma l’avrei CAPITO RAZIONALMENTE più tardi. Che sono ancora incazzata lo posso dire? Esprimere rabbia – rosso – non è ancora abbastanza! Ma non si addice a una donna essere scomposta, dissentire, AVERE UN’OPINIONE! Studiare serve anche a questo, a capire e interpretare, dare il giusto peso e valore a gesti e parole. In un certo senso, avere Antonio come professore mi è servito a trovare l’energia per continuare a studiare, ottenere almeno la maturità. È stato più difficile del previsto, da brava ingenua facevo tutto facile e spontaneo, non tenevo conto delle difficoltà logistiche e della realtà dei fatti. Pensavo di essere una forza della natura e di riuscire a fare tutto, con il sostegno di chi credeva che ce l’avrei fatta, che le capacità per fare una cosa normale per chiunque le avevo. Aveva ragione, su questo, ma non su molte altre cose. Non ho mai voluto sposarmi. Anche se lui non faceva altro che mettere l’accento su quanto sarei stata brava come mamma. Non era il mio sogno, quello di mia cugina probabilmente, di madre, forse, mai il mio. Mi sono sempre vista davanti a libri, a scrivere, raccontare. Da piccola le storie le raccontavo alle vicine di casa e a mio fratello. Da grande ho smesso, perché nella vita bisogna essere pratici, efficienti, calcolare l’utile, essere razionali. Però… In quinta elementare, già qui in Italia, sulla schedina che ci avevano fatto compilare per chiarirci le idee, alla domanda: “Che cosa vuoi fare da grande?”, l’avevo già scritto che volevo fare la giornalista o la fotografa. Una risposta sintetica, due parole scritte in un corsivo un po’ incerto, ma sono ancora lì impresse. Giornalista o fotografa. Due idee che sono LE MIE, due sogni che sono i miei, che mi hanno dato una direzione, anche quando lui mi ha colpita (metaforicamente, perché non ha mai alzato le mani) dicendomi che “tutto quello che sei lo sei grazie a me”. Dopo quelle parole ho passato anni a cercare di DIMOSTRARMI CHE SONO una persona a sé stante, che so pensare, che so prendere decisioni, anche se a volte sono sbagliate. Perché non può essere nor-ma-le dire a qualcuno che tutto quello che è, è solo una conseguenza, che non sarebbe stato altrimenti. Sapevo quello che avrei voluto fare ben prima di in- contrare Antonio, NE HO LE PROVE! Ero nella terza superiore di una scuola professionale. La prassi, per chi era intenzionato a prendere la maturità era di ripetere l’anno nella scuola che si era scelta. Ovviamente lo volevo evitare, ho recuperato tutte le materie che dovevo recuperare, a fatica, perché non mi sono mai presa meriti che non sono miei, ci tengo a sottolinearlo! Sono passata direttamente in quarta, nonostante molti dei miei pro fessori credessero che non ce l’avrei fatta, Lucrezia compresa. Giustamente, lei era una persona più realista di me, con i piedi per terra. È stato faticoso, ma sono riuscita a superare l’anno con la media del sette, contrariamente a quanto tutti credevano. Compreso il direttore della nuova scuola, che mi suggeriva di frequentare un serale… Questo percorso me lo sono dovuta COSTRUIRE da me, ho dovuto un po’ litigare con mia madre, che giustamente avrebbe tratto maggiore beneficio da un aiuto economico che da altri due anni di studio, avrebbe preferito che cominciassi a lavorare subito. In realtà già lo facevo, ogni fine settimana ero in pizzeria a fare la cameriera, non guadagnavo molto, ma bastava a pagare le piccole spese ed essere un po’ indipendente. Quando ho cominciato a vedere Antonio già lavoravo.
12 maggio 2022
Avevo una vita – cit.!
Ancora 2011 Antonio, quello che diceva è che era interessato a me per il mio cervello, per come pensavo. Può essere vero, all’inizio ci credevo. Probabilmente aveva anche delle aspettative su come sarebbero andate le cose, in fondo per me poteva essere un’occasione irripetibile e (imperdonabile) volevo dire imperdibile, dal suo punto di vista. Certo, per una ragazza di provincia sia nel Paese d’origine che in quello di residenza, vale molto l’attenzione di un professore. Soprattutto se non richiesta e non cercata, soprattutto se questo professore sostiene che l’attenzione è dovuta e innescata dall’intelligenza prima ancora che dall’aspetto fisico. Che poi, a me, di essere attraente circondato da idioti non me ne frega niente. La risposta che ancora cerco e non ho avuto dopo tutti questi anni è come mai, pur immaginando, gli altri professori non abbiano fatto niente? Come mai si sono convinti che a me, una ragazzina di diciott’anni ancora ingenua e fiduciosa nel mondo e negli altri, potesse DAV- VE-RO andare bene così? Eppure, qualche domanda, in classe, a tutti quanti è stata fatta… anche se comunque devo un po’ ammettere che, nonostante tutto, Antonio è stato un po’ un colpo di fortuna, ma c’è modo e modo…
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Rimarrò sempre con il dubbio, l’ansia di interessare alle persone solamente per come appaio invece che per quello che ho da dire, per quello che so fare e per quello che posso condividere. Per i colori che posso mostrare. Il terrore di lasciar avvicinare chiunque per paura di non reggere il confronto un’altra volta, per paura di non essere di nuovo abbastanza, per l’ansia di sentirmi di nuovo manipolata e usata. Solo chi ti conosce ti può fare del male. Però, mi piacevo quando ero con lui, non lo posso negare. Ricevere i giusti stimoli e le giuste direzioni è quasi una benedizione, il karma che “kindly nudges you in the right direction when you’re too shy to take up the space you deserve”.⁶