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Tratto da

Il suono della nostalgia

Autore

Mihaela Suman

Tempo di lettura

7 minuti

18 dicembre 2024: Giornata Internazionale dei Migranti

Leggi il mio diario
L'altro esilio
Un Paese che non ho scelto io, ma che ha scelto me, un Paese sempre in guerra, contro cui lottare per non farmi terra.

C’è un esilio Altro, che non riesco a superare, che non so quando ha preso cittadinanza in me, o forse sì, ufficialmente. Ma è come se andasse e tornasse, a sorpresa e a proprio piacimento, un migrante che va e viene, in perenne bilico e sempre a metà, lui in me, io in lui. È a casa nel silenzio, e nei libri. In mezzo alle persone mi vuole tutta per sé, a volte si camuffa tra i risvolti dei petali di un fiore, “guardami”, è come se parlasse nella lingua dei segni e dei simboli, “sono io il tuo mondo, assecondami”. Mi chiama con il linguaggio della bellezza e della poesia, ma è un amante troppo possessivo e asfissiante, a volte. A volte, io bramo il mondo. A volte, il mondo mi respinge, “torna nel silenzio”. Dopo tanti anni, non so rendergli conto, non definirlo, non appartenergli, se non a tratti, se non a metà. Un Paese che non ho scelto io, ma che ha scelto me, un Paese sempre in guerra, contro cui lottare per non farmi terra. A volte, mi faccio terra, radice in terra, stelo sulla radice, fiore sullo stelo, ape sul petalo, polline in aria, raggio di luce che fa rinascere. A volte. Mi trovo nella piazza principale di Roncegno, il paesino del Trentino in cui viviamo, e che non mi piace. Sono appena stata dal medico perché ho un’otite. Tutto è ovattato, sospeso nell’aria che mi circonda, spessa come una coltre: il silenzio. Non sento niente. Ho ventun’anni. Ho cinque anni e sto giocando nel cortile dietro casa. La nonna si affaccia alla finestra e mi chiama, una, due, tre volte e solo allora alzo la testa. “Perché non rispondi alla nonna?” “Non ho sentito.” Convivo con Paolo da un anno e questa sera deve fare il turno di notte per la prima volta. Lavora in una fabbrica dalla quale mi porta le palline di plastica in tre colori diversi e con cui sto facendo un mosaico. Abitiamo in un appartamento al primo piano. Dalla cucina, una bella scala in legno porta alla camera in sottotetto. Ai piedi della scala si trova la caldaia. Faccio fatica ad addormentarmi perché ho paura che la caldaia esploda e io non la senta. Mi troverei imprigionata tra le fiamme. Mi sveglio ed è ancora buio. Sento un rumore come di fiamme, apro gli occhi e da sotto vedo arrivare una intermittente luce arancione. “La caldaia!” – il cuore mi scoppia in gola. Salto giù dal letto disperata e mi affaccio sulle scale. La caldaia è integra. Scendo in cucina incespicando e dalla finestra vedo il rumoroso camion della spazzatura con il lampeggiante arancione acceso. Ho ventidue anni. Ho sette anni e mamma e papà mi hanno portato a provare gli apparecchi perché non sento bene. Il dottore mi mette due cose scomode dietro alle orecchie, non mi piace la sensazione, mi sembra di avere due grosse lucertole fredde ai lati della testa. Andiamo a fare un piccolo giro in strada. È tutto così strano, mi sento spaesata. I suoni sono diversi da prima, anche le voci di mamma e papà sono come se provenissero da un lungo tubo quando mi chiedono: “Come senti, senti bene?”. La città ha dei rumori che prima non aveva, non li conosco questi suoni, mi fanno paura. “Vuoi che compriamo gli apparecchi, senti meglio ora?” mi chiedono, ma io faccio di no con la testa. Rientriamo al negozio e finalmente mi tolgono le lucertole. Di nuovo riconosco la voce dei miei genitori, e sento sollievo mentre dicono che non compriamo gli apparecchi. Le persone parlano. Le guardo parlare. Ridono, si accaldano, gesticolano, si abbracciano. E io non so perché. Le ho viste farlo, stando proprio in mezzo a loro, con loro, ma è come se non ci fosse quel filo che le lega a legare me a loro. E perciò non provo emozioni che provano loro parlandosi, se non di disagio e paura del non avere anch’io quel filo.

Mia madre aveva scoperto il mio diario, ben nascosto nel comodino dentro un grosso libro ritagliato all’interno. Mi sembrava un nascondiglio inespugnabile.

Ho quindici anni, venti, trenta, quaranta. In terza superiore per la seconda volta i miei mi portarono da un audioprotesista e per una settimana ebbi in prova degli apparecchi, quelli che stanno per intero nel cavo uditivo, senza la parte esterna dietro l’orecchio. Li comprammo e li portai per un po’, ben camuffati sotto i miei capelli lunghi e tinti di nero. Sarei morta di vergogna se qualcuno a scuola ne fosse venuto a conoscenza. Preferivo passare per antipatica e quella che se la tira, o strana, piuttosto che per sorda. Dopo un po’ li tolsi, l’angoscia di essere scoperta era troppo grande, e toglierli fu una liberazione. Ora potevo anch’io mettermi i capelli dietro le orecchie con nonchalance, con quel gesto che facevano le mie compagne di classe. La comunicazione con gli altri però restò sempre al solito livello, con o senza apparecchi. Divenni sempre più chiusa, con la nostalgia lacerante per la Bosnia ad accompagnare ogni mio giorno. L’infanzia persa, uno scrigno magico da cui pescare le cose belle, le uniche che avevo. La mia percezione del mondo era tutta spezzettata, quello che succedeva fuori non coincideva con quello che succedeva in me. Le emozioni non avevano un’andatura ondulata né continua, ma erano una riga spezzata che andava su e giù come un Ecg. I discorsi che sentivo erano spezzati, alle frasi mancavano parole intere, le parole perdevano lettere nel loro tragitto dal mondo alle mie orecchie. Tutto era spezzettato. Tutto spezzato. A diciannove anni tornai in Bosnia per viverci. Mia madre aveva scoperto il mio diario, ben nascosto nel comodino dentro un grosso libro ritagliato all’interno. Mi sembrava un nascondiglio inespugnabile. Ci avevo messo diverse ore per ritagliare tutte quelle pagine con un taglierino in modo da ricavare un quadrato vuoto all’interno, dentro cui mettere il diario. Quel pomeriggio ero tornata a casa e i miei mi chiamarono subito “per parlare”. Già mi sentivo male, c’erano strigliate in arrivo. Ma entrando in soggiorno mi si offriva una scena mai vista: mio padre che si asciugava le lacrime con un asciugamano e mia madre con gli occhi arrossati. Avevano letto quel fumetto disegnato da me in cui indirettamente parlavo di suicidio. “Dicci che cosa vuoi”, i loro toni erano completamente arrendevoli. “Tornare in Bosnia.” E ora sono qui, a Banja Luka, a convivere con le amiche. Dopo quel dialogo con i miei, avevo accettato la loro unica richiesta, di finire il quarto anno di ragioneria, scelta di scuola completamente sbagliata. “Si fanno tanti calcoli e perciò avrai meno probabilità di avere dei problemi a causa della lingua.” Peccato che in matematica ero una frana e i miei problemi fossero dovuti non alla lingua, ma all’udito. Ma non lo sapevamo, o non ci pensavamo: avevamo dei problemi ben più grossi.