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L’inquieto navigare

Autore

Luca Pellegrini

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25 minuti

Decennio 2012-2022

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Marsiglia per il Mogador (Impero di Marocco) e naufragio della Triestina
All’alba il vento cessò, il tempo si fece più bello e mi trovai quasi rimpetto a Perpignano. Il sole al suo levarsi indorava i Pirenei, la costa ridente della Catalogna si disegnava in vaghe serpentine all’ostro ed una leggera brezza a maestro gonfiando le vele della Triestina la faceva scivolare dolcemente sull’azzurre onde che bagnavano la costa di Spagna.
Decembre

 

Senza carico, ma con 50/m franchi in moneta a bordo i quali servir dovevano ad acquistare un carico di pelli (marocchini), d’amandorle, di grane ecc. per conto del mio noleggiatore e ritornar poscia da Mogador a Marsiglia lasciai questa città ai 15 di Dicembre con un tempo perverso ed all’imbrunir della notte, circostanza questa che mi fece correre il pericolo d’incagliare fra gli scogli e le secche che fanno corona verso il Nord all’isolotto d’If, la notte che seguì la mia partenza da Marsiglia non fu certo la più bella di mia vita! Perché assalito da impetuoso vento a scirocco correva rischio di non poter sortire senza malanni dal golfo di Marsiglia.

All’alba il vento cessò, il tempo si fece più bello e mi trovai quasi rimpetto a Perpignano. Il sole al suo levarsi indorava i Pirenei, la costa ridente della Catalogna si disegnava in vaghe serpentine all’ostro ed una leggera brezza a maestro gonfiando le vele della Triestina la faceva scivolare dolcemente sull’azzurre onde che bagnavano la costa di Spagna. Il viaggio da Marsiglia a Gibilterra durò 6 giorni, il tempo si mantenne costantemente bello ed il mio viaggio si poteva paragonare ad una passeggiata lungo la costa di Spagna; favorito dal vento al Nord potei tenermi sempre a brevissima distanza da terra e passai quindi in vista di Tarragona, di Barcellona, di Valenza, di Cartagena, di Alicante, di Malaga, ecc. Radendo la costa europea dove la corrente continua che dall’Atlantico si versa nel Mediterraneo è meno violenta passai lo stretto di Gibilterra e giunsi in vicinanza di Tarifa ai 22 Dicembre. Da qui presi la mia direzione più al mezzogiorno e navigai lungo la costa di Marocco per discendere sino a Mogador.

La catena dell’Atlante che (correndo parallela alla costa del Mediterraneo dall’Est all’Ovest s’avvanza sino al Capo Spartel sull’Oceano ed a Tanger sembra tuffarsi nell’onde) si ripiega da questo punto al Sud-Est per poi, dopo descritta una dolce curva verso il Sud e Sud-Ovest, ricomparire in riva all’Oceano e perdersi nelle sue acque a Mogador, lascia un’immensa pianura fra il mare e le montagne, pianura fertilissima e sulla quale s’elevano molte città e luoghi popolati primo fra i quali è Salè, nido un tempo di pirati ed ora affatto innocua. Vi passai a non molta distanza sicché facile era il distinguere la città di Salè che s’eleva sulla sponda destra o settentrionale del fiume Bu-Ragrag dalla città di Rabat posta sulla riva sinistra di detto fiume. Larace e Mazagan sono due città commerciali del Marocco che non hanno però l’importanza di Mogador.

Correndo con piccoli venti variabili dal Nord al Nord-Ovest lungo la costa d’Africa e quasi sempre in vista della medesima giunsi a scoprire Mogador o per meglio dire il braccio dell’Atlante che là si perde nell’Oceano ai 27 Dicembre. Il vento al Nord cessò rimpiazzato da impetuoso vento a levante che accompagnato da dirotta pioggia m’obbligò bordeggiare 4 giorni interi colle gabbie basse prima di poter afferrare il porto. Giunto all’ultimo del 1836 cioè ai 31 Dicembre ancorai nel porto di Mogador.


 

Confesso che le gentilezze prodigatemi da quel Signore mi fecero parer brevi i 40 lunghi giorni di mia dimora a Mogador
Dal Gennaio 1837 al Luglio 1838 Mogador

 

1837 Gennajo Febbrajo Marzo

 

Di tutte le città dell’impero di Marocco, Mogador è certo la meno antica. Essa venne fondata col nome di Suera nel 1760 dal Sultano Sidi-Muhamed sopra una spiaggia sterile e sabbiosa che separa il mare dalle terre coltivate e se dal settentrione al mezzogiorno non corressero degli scogli a fior d’acqua ed alcuni elevati di qualche metro, forse che la città sarebbe stata indubbiamente ingojata dai flutti che sulla costa di Marocco con orribile fracasso si frangono quando soffiano con costanza i venti dall’occidente.

Il porto di Mogador è formato da un isolotto che ha circa tre miglia di circonferenza e che giace circa un miglio al Sud della città, sicché non sempre è possibile la comunicazione per mare da questa al porto, singolarmente collo spirar dei suaccennati venti occidentali perché bisogna traversar colle imbarcazioni il tratto di mare che divide l’isola dalla città ed esporsi al pericolo d’esser ingojati dai cavalloni che vanno a frangersi sulla costa. I mori possedono per affrontare e superare quegl’immensi marosi barche molto piatte ed altissime alle loro estremità colle quali fanno il tragitto dall’isola alla città e viceversa con qualunque tempo. La veemenza con la quale queste barche vengono sollevate dai marosi senza che nascano malanni fa fremere la prima volta che si azzarda con uno di questi veicoli la traversata dal porto alla città.

La forma della città è regolare, le strade diritte e strette e la sua apparenza non dissimile dalle altre città mussulmane.

Ad eccezione dei pochi edifizj pubblici tutte le case presentano lo stesso aspetto vale a dire pezzi quadrati di muro con una stretta e bassa porticina, solo pertugio praticato in questi quadrilateri coperti da un terrazzo. Le stanze si aprono sul cortile interno e ricevono da questo la luce.

Il maggior mercato o Bazar è chiuso da un porticato che, se anche ha il disavvantaggio di togliere molta luce alle botteghe, offre gradito e ricercato riparo contro i calori eccessivi dell’estate e le ostinate piogge dell’inverno. La popolazione di Mogador si vuole ascenda a 17.000 anime. Mogador è cinta di mura ed ha due porte, la settentrionale e la meridionale che ambi mettono su d’una strada parallela per lungo tratto al mare e dalla quale poi diramansi vie in ogni direzione per l’interno. Sulla parte di mura rivolte al mare venne eretta una batteria a difesa della città, mentre a difesa del porto vennero piantati varj cannoni sull’isola che lo forma. Sull’isola suddetta s’erge un edifizio che offre ricovero alla ristretta guarnigione e nel quale, mi si diceva, vengono rinchiusi talvolta prigionieri di stato ma sempre i delinquenti comuni.

L’impero di Marocco, dai marocchini nominato Magreb-el-aksa (l’estremo occidente) confina al Nord col Mediterraneo, al Nord-Est coll’Algeria, al Sud-Est e al Sud col Saharra ed all’occidente coll’Atlantico. La sua estensione che in causa dell’impossibilità di precisare il suo confine al Sud e Sud-Est varia secondo diversi geografi e viaggiatori da 8.000 fino a 13.000 miglia quadrate, vale a dire da 2.000 a 7.000 miglia quadrate più dell’estensione della nostra Italia e quindi il doppio di essa, non conta che circa 8 1/2 milioni d’abitanti e questi divisi in berberi o scellochi (che possono dirsi gli aborigeni) 3.800.000 mori, 3.500.000 arabi, 750.000 negri schiavi e soldati, 120.000 ebrei, 350.000 cristiani fra i quali alcuni rinnegati. A Mogador hanno loro sede agenti consolari di parecchie nazioni europee. L’Austria non vi era rappresentata direttamente, ma l’agente consolare inglese, signor Trapper (ch’io credo ed ho sempre creduto fosse un ebreo) s’incarica delle faccende anche dei sudditi austriaci e confesso che le gentilezze prodigatemi da quel Signore mi fecero parer brevi i 40 lunghi giorni di mia dimora a Mogador, prescindendo dall’aver io col suo mezzo acquistato delle notizie sul paese che senza l’ajuto di persona da lungo tempo colà dimorante mi sarebbero rimaste ignote




 

In ogni modo il signor Trapper che parlava correntemente il berbero asseriva esser questa la lingua d’un popolo selvaggio senza termini astratti: essa esprime solo ciò che vede e tocca e non possiede neppure congiunzioni come per esempio: e, ma, se, ecc.

I berberi detti anche amazirghi e scellochi dal differente dialetto che parlano sembrano essere i veri discendenti dei numidi, dei romani, e quindi i veri indigeni dell’impero di Marocco. Essi sono bianchi quasi come gli europei, grandi, robusti, ben fatti, valorosi ma gelosi della loro indipendenza, scelgono a loro dimora luoghi inaccessibili sulle pendici dell’Atlante. Vivono allevando mandrie bovine e moltiplicando gli alveari che danno loro ricco raccolto di cera. Sono appassionati per la caccia; il loro fucile che usano lunghissimo e col calcio intarsiato d’avrio e d’argento è il loro più caro arnese. Capelli chiari e scarsa barba costituiscono il carattere loro distintivo. Il principale loro vestito è una specie di blouse senza maniche e, veri trogloditi, abitano non di rado le caverne che la natura ha scavato nei fianchi delle aride loro montagne.

L’imperatore di Marocco esercita un’autorità soltanto nominale sulla maggior parte delle tribù berbere che obbediscono ai loro capi talvolta ereditarj col nome di Marabout ed i quali all’autorità civile e militare uniscono anche il sacerdozio. L’imperatore si serve del loro uffizio lusingandone l’ambizione e la vanità quando si tratta di esigere le contribuzioni da quei feroci montanari. Una trista esperienza ha mostrato agl’imperatori l’inutilità ed il pericolo dei mezzi forzati.

La lingua parlata dai Berberi non ha nessuna analogia né coll’araba, né coll’ebraica; essa è una lingua loro propria ed anche divisa in due dialetti: amazirgo e scelloco. Alcuni viaggiatori vogliono che la loro lingua sia nata dalla punica, altri la vogliono aborigena ed altri vorrebbero cercare nel Sudan e nell’interno dell’Africa le figliazioni di questa lingua. In ogni modo il signor Trapper che parlava correntemente il berbero asseriva esser questa la lingua d’un popolo selvaggio senza termini astratti: essa esprime solo ciò che vede e tocca e non possiede neppure congiunzioni come per esempio: e, ma, se, ecc.

I mori parlano l’arabo misto a voci berbere e latine. Quelli che abitano le provincie settentrionali discendono dai mori cacciati di Spagna dopo la presa di Granata, ma in generale si credono essi stessi discendenti da colonie venute in varie epoche dalla Palestina, dall’Arabia, dalla Fenicia e singolarmente da Cartagine. I mori costituiscono la popolazione agiata, hanno cariche a corte e sono negozianti e come tali sono temuti per la loro perfidia ed avarizia. Tutti i viaggiatori s’accordano nel dir tutto il male possibile del carattere dei mori.

I berberi possedono almeno audacia e risolutezza: i mori al contrario sono vili e pusillanimi, insolenti coi deboli, striscianti coi forti. Degni discendenti de’ cartaginesi non cercano che d’accumular denaro. I mori generalmente sono piccoli, hanno la carnagione d’un bianco smorto ed i capelli neri e lisci. In gioventù ben fatti e snelli ingrassano soverchiamente nell’età matura. Lo stesso dicasi delle donne che a 15 anni angeli di bellezza, a 25 diventano ammassi informi di carne.

Le abitudini del moro agiato sono patriarcali. Il sole lo trova alzato facendo la sua preghiera, beve una tazza di caffè fumando la sua pipa, poi sorte e passeggia o cavalca per qualche ora. A mezzogiorno pranza cibandosi di riso, carne e frutta secche. Il dopopranzo chiacchera e fuma al caffè, poi va alla moschea da dove sorte per andare a cena, poi all’imbrunire si stende sui suoi cuscini e s’abbandona al sonno. Il vestito del moro non è punto dissi mile da quello dei turchi conservatori delle fogge antiche. Gli arabi sono più valorosi e più ospitali dei mori, vestono come gli arabi di Tunisi, ma veri discendenti degli arabi del Yemen vivono sotto tende e pretendono di parlare la lingua del Corano. Pagano tributo all’impe ratore e sono obbligati di fornir vettovaglie alle truppe che passano in vicinanza dei loro villaggi o Duar.

Come nella madre patria terminato il raccolto piegano le tende e vanno in cerca d’un terreno vergine in cui piantarle di nuovo. Ogni Duar ha una tenda per i viaggiatori.

Convien aver vissuto qualche tempo a contatto con questi poveri diavoli di ebrei per farsi un’idea come e quanto la schiavitù possa abbrutire. Lo sguardo d’un ebreo marocchino é irrequieto e lascia travedere il terrore da cui è continuamente travagliato.

Ad onta del disprezzo sotto cui gemono, ad onta delle vessazioni di cui continuamente sono fatti scopo, gli ebrei sono assai numerosi al Marocco. Senza contare il forte tributo annuale che pagano vengono sopracaricati di continue contribuzioni straordinarie. Il diritto anche di portar scarpe viene pagato, benché questa contribuzione non li esoneri dall’obbligo di scalzarle passando dinnanzi una moschea, un santuario, o avanti la casa d’un funzionario pubblico. Non possono vestirsi che di colore oscuro, è loro vietato montare a cavallo, possono soltanto servirsi d’asini e di muli.

Non possono avvicinarsi ad una fontana quando un mussulmano sta bevendo, non è loro permesso di sedere alla presenza d’un vero credente. Possono parlare l’arabo

ma è loro vietato lo studiarlo essendo essi indegni di leggere e scrivere la lingua del Corano. Con tutte queste ed altre angherie sono tollerati e vivono in un quartiere che la notte si chiude sotto la direzione di un Cadì che essi stessi si scelgono, ebreo esso pure, ma sottomesso ad un altro Cadì, moro, nominato dal Sultano. Hanno però il libero esercizio del loro culto e sono estremamente super stiziosi. La lingua da essi parlata è lo spagnuolo perché discendono da quegli ebrei espulsi dalla Spagna in diverse epoche del medio Evo. Nelle montagne però abitano alcune tribù ebree qui venute in epoche anteriori al cristianesimo e che col nome di filistei vivono confusi coi berberi parlando il vero ebreo e non conoscendo altro libro che il vecchio testamento.

Gli ebrei cercano d’indennizzarsi degli oltraggi che soffrono dai mori coll’ingannarli nei traffichi. Per quanto scaltro e di mala fede sia il moro è sempre ingannato nei contratti dall’ebreo. È la sola vendetta che ad esso sia possibile. Gli ebrei dicono: Con los moros o plomo o plata non avendo piombo con cui colpirli devono dare il loro argento, ma sempre il meno possibile, egli è perciò che più ricco è l’ebreo altrettanto povero egli si fa.

Convien aver vissuto qualche tempo a contatto con questi poveri diavoli di ebrei per farsi un’idea come e quanto la schiavitù possa abbrutire. Lo sguardo d’un ebreo marocchino é irrequieto e lascia travedere il terrore da cui è continuamente travagliato.

Quando parla lo fa sottovoce, quando incontra un mussulmano per via s’arresta o svolta come un ladro all’angolo più vicino. Se qualcuno lo guarda affretta il passo e la paura continua da cui è agitato si dipinge sulla sua fisionomia contraendone i muscoli e dando ad essa una deformità del tutto particolare, benché i suoi lineamenti in generale non possan dirsi brutti. Le donne al contrario, forse perché vivono più tranquille, forse perché non esposte come gli uomini a mille insulti, sono bellissime. Vedendo un padre di famiglia seduto in mezzo a figure angeliche si chiede come un uomo assai brutto abbia generato così belle figlie mentre belle, eminentemente belle sono tutte le ebree che ho avuto occasione di vedere a Mogador. Esse hanno occhi neri e nera e ricca la chioma, candidissima la pelle, bella statura e snelle forme, delicati i loro lineamenti e regolare la forma del viso.

Quando sortono, locché arriva assai raramente ed in casi straordinarj perché temono gli oltraggi de’ mussulmani che insultar le posson impunemente, sono imbacuccate in larghi mantelli di tela bruna che nasconde il loro vestito lasciando però scoperto il viso per distinguerle dalle more che sono interamente coperte. Nelle case poi deposto quel brutto e lugubre involto mostrano un vestito pittoresco che dà maggior risalto alle loro bellezze di cui la parte che svelano lascia indovinar quelle che sono nascoste. Portano gonna di color vivace aperta alla parte inferiore e ripiegata ai lati all’insù fin quasi al ginocchio lasciando vedere una gamba fatta al torno e non calzata che va a nascondere un gentil piedino in pantoffola ricamata. Un giubettino di color vivace serrato sul petto da cordoncino d’oro o di seta vela, ma non nasconde il candidissimo e turgido seno ed una specie di giubba ad esso sovraposta aperta sul dinanzi e pendente ai lati copre per metà braccia magnifiche solo velate dalle larghissime maniche della camicia che ad ogni movimento che fanno mostrano scoperto il gomito.

Le eclissi lunari, e più quelle del sole, spargono il terrore fra i mori e porgono occasione a cerimonie superstiziose fra le quali non ultima è quella di accendere fuochi sulle alture e lumi nell’abitato onde rischiarare la via agli altri astri che a causa dell’eclissi si trovano improvvisamente all’oscuro.

Mogador non ha che una sola moschea. In vicinanza di questa è fabbricata la casa che serve d’alloggio all’Iman (sacerdote) ed al Muezzin (inserviente della moschea).Una grande sala però bassissima in questa casa serve di scuola ove i fanciulli a suon di sferza imparano a leggere i versetti del Corano scritti sopra tavolette. Questi versetti devono impararli a memoria e poi copiarli. Ogni scolaro recita ad alta voce il versetto che vuole imparare a memoria e siccome questa recita è simultanea e ogni scolaro recita un altro versetto si può immaginarsi che razza di confusione di voci e di parole ne risulta. Da questa scuola, uguale a tutte le altre dell’impero, gli scolari che si danno alle scienze passano al (la sapienza) a Fez, dove coloro che ne sortono laureati ricevono fra gli altri premj quello assai seducente d’un bel cavallo e d’una bella schiava.

La scienza che si insegna e s’impara con più calore a Fez è l’astronomia. Gli astronomi però non sono che astrologhi, predicano l’avvenire del Sultano e dell’impero come pure dei privati, sono tenuti in gran conto e salgono alle prime cariche a cagione della possibilità che in loro si suppone di leggere nel futuro.

La religione dominante, anzi per meglio dire la sola all’impero del Marocco è la mussulmana, ma il culto è quello predicato da Malek che differisce da quello di Haneff seguito dai Turchi. Questi culti sono gli stessi in quanto a dogmi, ma differiscono nelle cerimonie religiose: mentre i Turchi per esempio pregano con le braccia incrociate sul petto i Marocchini fanno la loro preghiera colle braccia penzoloni. Facendo le giornaliere abluzioni i Turchi principiano dalla punta delle dita e salgono sino al gomito, i Marocchini principiano al gomito e discendono fino alle dita ecc.

Benché la religione mussulmana, tale quale la definisce il Corano, sia semplicissima, senza misteri, senza sacramenti, senza altari le moschee e senza ornamenti ed immagini, pure il cuore del mussulmano che è il solo altare di Dio dà ricetto a mille pratiche, a mille superstizioni che stanno in contraddizione con i precetti del Corano. I mussulmani, per esempio, credono ai santoni benché il Corano non ne faccia menzione. Questi santoni che vivono nel deserto, od almeno discosti assai dall’abitato, si dividono in pazzi idioti (cretini) e questi sono quelli per i quali s’ha la massima venerazione, ed in fanatici. A questa se ne potrebbe aggiungere una terza categoria e sarebbe quella degl’impostori. Tutti questi santoni corrono per le strade seminudi e luridi di schifosissima sporcizia. Non si comprende come i mussulmani che hanno in orrore il porco abbian fatto santi degli uomini più porci dei porci stessi.

Mi si dice che vi sieno anche delle santone e la testimonianza di queste in giudizio sarebbe tanto valida quanto quella di un uomo, mentre la legge domanda la testimonianza di sette donne per pesare quella di un uomo.

La tomba di un santone diventa per consueto scopo d’un pellegrinaggio. Le carovane che col nome di Kafila, quasi traduzione della nostra processione, sono composte d’uomini, donne e fanciulli che montati su cavalli, cammelli, asini ed anco marciando a piedi partono talvolta da lontanissimi villaggi per recarsi ad orare sulla tomba d’un santone che quasi sempre diventa anche inviolabile asilo di malfattori.

Tra le pratiche superstiziose la più generale è quella che spinge i Marocchini al momento che le biade cominciano a germogliare a mettere fra le braccia d’una contadina un gran fantoccio rappresentante una donna che vestito dei più bei ornamenti lo porta processionalmente per le campagne in mezzo alle grida, che non sono canti, di tutta la popolazione del villaggio. La donna che porta il fantoccio precede la processione correndo da forsennata, ma deve cedere il suo fardello, voglia o non voglia, alla prima donna che la raggiunge e così di mano in mano sicché questa processione diventa un continuo correre ed azzuffarsi fino a che l’ultima portatrice del fantoccio rientra nel villaggio.

Le eclissi lunari, e più quelle del sole, spargono il terrore fra i mori e porgono occasione a cerimonie superstiziose fra le quali non ultima è quella di accendere fuochi sulle alture e lumi nell’abitato onde rischiarare la via agli altri astri che a causa dell’eclissi si trovano improvvisamente all’oscuro.

Nell’impero di Marocco il sultano è tutto. Egli è capo spirituale, autocrate temporale, legislatore ecc. In certi giorni stabiliti ascolta personalmente le lagnanze dei suoi sudditi e la sentenza irrevocabile trova pronta esecuzione appena pronunziata.

Nelle provincie i governatori hanno tutti i poteri meno quello di far eseguire, anzi neppur decretare, la pena di morte la quale può essere soltanto dall’imperatore pronunziata. I magistrati non hanno né cancelleria, né impiegati subalterni, né molto meno scritturali. Essi stanno a certe ore del giorno accosciati o sull’uscio o nell’atrio delle loro abitazioni, si ascoltano le querele e su due piedi si emana la sentenza. Lo stesso succede nei casi criminali. Il delinquente viene condotto dinnanzi al muhetesib (capo di polizia) da cui viene ascoltato e condannato. Anche in casi di gravi trasgressioni criminali i ricchi se la cavano con danaro, ma i poveri devono pagare col loro corpo. Le percosse vengono applicate secondo la gravezza del fallo sulle natiche, sulla pancia e sotto le piante. In nessun caso il numero delle percosse può oltrepassare 999. Siccome l’uomo non può esercitare l’uffizio di aguzzino e bastonatore sulle donne così è una femmina che batte le delinquenti. Essa è chiamata Ahrifa (la tollerante?), e si serve come l’aguzzino d’un nerbo di bue che dicono osfil. L’imperatore risiede a Fez, a Marocco ed a Mequinez.

In quest’ultima città che sembra esser la sua prediletta tiene egli i suoi tesori e si pretende aver egli favolosa quantità di metallo monetato. E difatti se si riflette che le rendite dello Stato ascendono da 20 a 25 milioni di franchi, che gl’impiegati son pochi e mal pagati o del tutto senza paga, che non si mantiene armata permanente e che per il mantenimento della sua corte il Sultano non consuma neppure le sue rendite private, non reca meravi glia se le somme raccolte negli scrigni dell’Imperatore di cui egli solo ha le chiavi ascendono a parecchie centinaja di milioni di franchi.

La moneta d’oro principale dell’impero di Marocco è la Butaka (padre della forza) da cui forse deriva la nostra voce patacca o che nasce da questa e vale franchi 10, la moneta principale d’argento è il mitzakel e vale franchi 3. La moneta di rame è il musuno e vale 10 centesimi. Il valore delle monete d’oro e d’argento non è sempre lo stesso e l’esportazione n’è severamente vietata.

La corte dell’imperatore si compone d’un Visir che è sempre un letterato e d’alcuni segretarj ai quali si domanda soltanto una bella scrittura. Come dissi impiegati ve ne sono pochi, ministri nessuno. Alcuni ufficiali per il servizio esterno del Serraglio.

Alcuni eunuchi per il servizio interno. Un al-zepit, gran scudiere; un el-cahar, cacciatore; un seliktar, porta sciabola; un cheket, porta orologio; un medico, un ar majuolo, due astronomi, tre imani ai quali incombe l’obbligo di far le preghiere per l’imperatore; cinque ufficiali di bocca che devono assaggiare tutte le vivande a lui presentate e dodici paggi compongono la sua corte alla quale sono da aggiungersi alcune altre cariche il di cui titolo solo basta a provare il grado di civilizzazione di questa corte. Questi sono gli sciabolatori, gli strozzatori, gli ammazzatori di S.M. marocchina che sono anche sempre gli ufficiali della poca truppa che forma la sua guardia.

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Le pagine del diario di Luca Pellegrini fotografate da Luigi Burroni
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Le pagine del diario di Luca Pellegrini fotografate da Luigi Burroni