Autore
Dora KleinAnno
1983 -1989Luogo
PoloniaTempo di lettura
9 minuti e 30 secondi1936-1945 vita di una donna ebrea in Italia
[…] Un Posten (guardia SS) mi aveva accompagnato alla baracca di smistamento ove, in mezzo al solito squallore, tutto mi sembrò un po' meno terrificante. Tolti gli stracci di cui ero coperta, indossai la regolamentare uniforme zebrata con la stella gialla di Davide sul petto, un paio di scarpe alla meglio, un fazzoletto in testa: stavo per diventare una comune "Haftling" (prigioniera) ebrea tra la moltitudine delle mie simili. In quel luogo trascorsi circa due settimane, vissute come nel nulla. Di giorno trasportavo insieme alle altre dei sassi con una sgangherata carriola da un posto all'altro, per poi senza scopo alcuno riportarli quasi al punto di partenza. Verso sera invece era compito mio strofinare con “Mitigal” corpi  di  donne  affette  da  scabbia, piaga  endemica  in tutti i lager corpi  di  donne  affette  da  scabbia, piaga  endemica  in tutti i lager nazisti. Questa funzione era considerata privilegiata perchè legata alle attività sanitarie. Un giorno, improvvisamente, risuonarono tra le mura del blocco due numeri: quello di una ebrea romena e il mio.  Con il consueto pungolo "schnell, schnell" siamo introdotte in una specie di stamberga, ove due ufficiali SS ci chiesero di confermare la nostra qualifica professionale. Quello fu senza dubbio l'attimo cruciale della mia vita nel lager, perlomeno per il tempo trascorso ad Auschwitz. Con gesto istantaneo tolsi dal vestito ove lo custodivo il mio certificato di laurea sottoponendolo alla verifica degli SS. Questo documento produsse una sorprendente impressione sui due. L'università di Bologna, nota in tutto il mondo, e l'enfatica dicitura: laureata in "medicina e chirurgia" fecero il resto. Era facile accorgersi dell'interesse suscitato in quei due seguaci di Hitler da quel pezzo di carta sottoposto ai loro sguardi. E non c'era nulla da obiettare:  i timbri e le relative intestazioni erano stampati al posto giusto, senza prestarsi ad equivoci di sorta. Con il prolungarsi della mia attività nei campi di concentramento avrei appreso che non poche donne avevano cercato di spacciarsi per medichesse. Lo tentavano quasi tutte quelle che nella vita normale avevano avuto contatto anche minimo con l 'arte medica. Le infermiere in prima fila, seguivano le mogli e le figlie dei medici e forse pure le loro lontane parenti. Il caso mio era diverso, più unico che raro negli annali dei lager tedeschi . Di esclamazioni sul tipo "Santi Numi" o simili dovevano essere improntate le confidenze che i due si scambiavano a voce bassa, non nascondendo un pizzico di ammirazione per la mia previdente manovra. Non solo fui scelta io tra le due, ma fui subito gratificata con il titolo di Arztin (dottoressa), il che mi lasciò allibita dalla sorpresa. Dopo le tensioni delle settimane precedenti finalmente potei rilassarmi un po' e un fuggevole sorriso fece capolino sulle mie labbra.
 
... verso Budy
Mi fu assegnata un 'altra uniforme con le identiche striscie grigio-blu e la stella di Davide sul petto, un paio di scarpe, il tutto più conforme alle mie dimensioni e, con il Posten appresso, via in cammino! […]
[…]
Quando mi fu assegnato il ruolo di medico a Budy, trovai già installato nell'angolo della stanza il letto-castello a tre piani, di cui occupai il più basso.
Nei letti superiori sarebbero state in seguito sistemate altre due deportate: una dentista di origine francese e la sua assistente, una giovane tedesca, unica superstite di una numerosa famiglia. La diciottenne Hanzi aveva un volto da vera tedesca-ariana: bionda, occhi cerulei, carnagione lattea come raramente capita tra gli ebrei. Il trauma subito aveva provocato una singolare deformazione del suo corpo, cresciuto grande e grosso come fosse stato dilatato dalla lacerazione affettiva per la perdita dei propri congiunti. Inoltre era afflitta da enuresi notturna irrimediabile. Più di una volta, noi dai letti sottostanti subivamo in pietoso silenzio le conseguenze di quella inconsapevole incontinenza di urina.
Col tempo, come ricompensa, le fu offerto quel lavoro di assistenza, certamente ambito da molte altre.
Aver introdotto anche una "Zahnarztin" (dentista) nel piccolo insignificante distaccamento di Budy, non segnalato neppure sulle mappe riproducenti la totalità di quei luoghi luttuosi, rientrava nello strampalato, demenziale pianò cui accennai in precedenza.
L'ambulatorio dentistico comunque era utilizzato anche da detenute di altri lager. Le due donne vi si recavano insieme al Komando del blocco e rientravano di sera con esso, affiancate dai Posten con gli immancabili cani lupo. […]
[…] Mi commuove ancora il ricordo del rientro delle donne dai campi; mi risuona il loro passo cadenzato sul ritmo delle canzoni popolari russe, polacche, e talvolta yiddish, che si udivano in lontananza, mentre esse si attardavano ancora. I Posten, come al solito, affiancavano la colonna con i cani lupo, ma sia gli uomini che gli animali si guardavano bene dall'intervenire, e marciavano anche essi al ritmo scandito dai canti delle sorvegliate. Persino Janka, la ragazza polacca di 13 anni caduta nelle maglie delle SS in una delle solite retate, troppo giovane per sopportare la fatica fisica e la solitudine affettiva, appariva più calma; aveva smesso di bagnare il letto di notte e di invocare inutilmente: "mamma, mamma mia!" Anche Larissa, la giovane ucraina dal volto malinconico, sembrava aprirsi ad un sorriso che metteva in evidenza due fossette nelle guancie del viso tondo e rendeva i suoi occhi scuri due fessure oblique. Larissa proveniva da una famiglia relativamente agiata di Kiev. Prima della deportazione godeva di buona salute, era stata premiata per i voli di paracadutista, ma da quando l'avevano rinchiusa nel lager soffriva di crisi di tipo epilettico. Già sotto la dirigenza della Borman ero riuscita a sottrarre Larissa alla pesante fatica dei campi, ottenendo che le fosse assegnato il compito delle pulizie interne del blocco. Quando la giovane sentiva l'approssimarsi della crisi che la gettava in uno stato di prostrazione profonda si rifugiava al Revier, ove solo con il contatto delle mani cercavo di supplire alla terapia più adeguata, ammesso ne esistesse una altrove. Il vincolo che ci legava non fu solo quello tra medico e ammalata, ma un'amicizia preziosa, inconsueta in un luogo ove questo sentimento, seppure nasceva, si esauriva nel breve spazio di un mattino. Da Larissa, come pure da altre, mi erano giunti frammenti di vita dell'URSS, da me allora neppure sospettati. Larissa, ad esempio, si era sposata giovanissima, più per imposizione dei genitori che per volontà propria. "Se riesco a salvarmi" - soleva dire - "non tornerò a vivere con mio marito e ciò non per colpa di lui, ma perchè vorrei rimanere ancora libera, libera come un uccellino nel bosco."
Oh, nostalgia delle patrie foreste!
Come suonavano straordinarie queste parole in un luogo ove di libertà non esisteva neppure la più pallida ombra, anzi sarebbe stato severamente vietato il solo agognarla. Nel caotico comporsi e scomporsi delle nostre file negli ultimi drammatici momenti di Auschwitz, i nostri destini si   sarebbero divisi; per parte mia non avrei mai scordato la giovane, fragile amica lontana e neppure rinunciato completamente all’idea di ricevere quei vasetti di miele squisito che essa aveva promesso di mandarmi in Italia se per buona sorte fossimo sopravvissute entrambe. Anch'io ovviamente mi lasciai cullare dalle lusinghe del momento, ne rimasi investita però solo fino ad un certo punto. Dopotutto io non stavo aspettando, come le russe, l'arrivo del patrio esercito, nè mi trovavo, come le polacche, sulla mia terra. Tuttavia quelli erano giorni in cui intrecciai un dialogo con la vita precedente. Prima che il chiarore dell'alba facesse fuggire le ultime stelle mi attardavo un attimo fuori della baracca e fissandone una le confidavo:
 
"stella, brillante mia
stellina
trasmetti un pensiero
alla mia bambina."
 
E poi subito dopo mi affrettavo verso i Komandos schierati ormai per il "Zehl-Appel”, ove mi aspettava il non facile compito quotidiano: sistemare il "Block-Schonung". Era quello un gruppo di prigioniere con vari malesseri, non in grado di andare nei campi a lavorare. Compito affatto semplice il mio, quello di conciliare le ferree leggi del lager ("qui non siamo in un sanatorio" - mi ammonivano le sorveglianti SS) con i mali delle donne e decidere a colpo d'occhio quale di loro esentare e a quale rifiutare tale concessione. Devo ammettere che le ucraine erano spesso delle simulatrici di talento. Talvolta, quando il gruppo si presentava troppo popolato, intavolavo in quei pochi minuti dei discorsi che ora potranno sembrare grotteschi, improbabili e soprattutto irreali: "Vi prego - dicevo - "Vi prego, per il bene di quelle che soffrono veramente, riducete il numero, altrimenti la SS vi manderà tutte nei campi." Erano quasi sempre parole gettate al vento, finchè ascoltando certi colpi di tosse troppo cavernosi per essere veri e osservando atteggiamenti pietosamente curvi, mi toccava ricorrere ad un pizzico di energia: "Tu si - e tu no". E Dio solo sa le volte in cui il mio così sommario giudizio medico era indovinato oppure no.
Le ucraine però in fondo capivano la mia posizione  e non mi serbarono mai rancori; conoscevano bene il modo brutale in cui queste "scelte" accadevano a Birkenau e altrove.