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Autore

Dora Klein

Anno

1983 -1989

Luogo

Polonia

Tempo di lettura

12 minuti

1936-1945 vita di una donna ebrea in Italia

A chi importava ancora la salute delle deportate? Che lavorassero al meglio e non dessero fastidio a nessuno.

[…] Ad un certo momento invece il cielo si deterse, l'aria sembrò purificata, ed ebbe inizio la demolizione dei forni crematori e lo spegnimento delle camere a gas. I carnefici, nell'estremo tentativo di farla franca, cercarono di sbarazzare il terreno dei macabri strumenti di cui si erano serviti per lunghi anni. In questo clima incandescente il progetto di lager-modello a Budy era bell'e morto e sepolto; le mie prestazioni mediche si stavano immiserendo giorno per giorno. A chi importava ancora la salute delle deportate? Che lavorassero al meglio e non dessero fastidio a nessuno. Quel vecchio della Wehrmacht, l'ultimo assistente sanitario, non faceva che cercare conforto ovunque potesse trovarlo: pure presso di me. "Per lei" - affermava sconsolato "esiste la speranza di una nuova vita se riuscirà a sopravvivere, ma io sarò Kaputt in ogni modo". Ma quando l'armata sovietica si trovava ormai a pochi chilometri da Auschwitz, e le pallottole sembrava fischiassero sopra le nostre teste, accadde la cosa più inattesa, insensata ed assurda che ci si potesse attendere. Tutti i deportati, uomini e donne di Auschwitz-Birkenau e dei vari distaccamenti vennero ammassati incolonnati per cinque e a ritmo battente fatti uscire dai reticolati. L'intero lager di Auschwitz fu evacuato.

 

In pochi - si salvano

 

Nei blocchi, nei Revier, sulla nuda terra furono lasciati coloro che non si reggevano in piedi, gli ammalati gravi, i moribondi, tutti destinati a morte inesorabile per fame e per freddo. Correva l'anno 1945, quello stesso che segnò la fine del conflitto, ma noi a quell'epoca subivamo i rigori del mese di gennaio, il più freddo dell'inverno polacco. Per la maggior parte degli abbandonati era andata proprio così: morti, stecchiti, assiderati, disintegrati. Ma non per tutti: a volte l'istinto vitale supera ogni pessimistica previsione. Al loro ingresso nel lager di Auschwitz, i soldati sovietici sbalorditi e commossi al pari dei militari alleati che varcavano altri reticolati dei campi di sterminio, avevano trovato in mezzo a tanti cadaveri qualcuno che si muoveva in cerca di un bulbo, di una radice celati sotto la fitta coltre di neve, oppure di un pezzo di legno o di un fiammifero per ripararsi dal gelo. Essi furono soccorsi e salvati.

Pareva una allucinante migrazione dei dannati dell'Europa intera da un lager all'altro, su territori ancora occupati dai tedeschi.

La marcia della morte


All'approssimarsi delle armate alleate che stringevano la Germania in una morsa dall'est all'ovest, venivano progressivamente evacuati tutti i campi di concentramento nei pressi delle linee di combattimento. Pareva una allucinante migrazione dei dannati dell'Europa intera da un lager all'altro, su territori ancora occupati dai tedeschi. Questa forzata rincorsa in cui gli SS non facevano che spronare avanti, sempre in avanti, un popolo di disperati, miserevoli straccioni, verrà definita in seguito "La marcia della morte". E tale essa fu, non solo per il mai definito numero di cadaveri disseminati lungo le strade, ma per l'intima convinzione delle vittime che alla conclusione dell'interminabile vagare null'altro le attendeva che il proprio annientamento. A posteriori avrei saputo quando i proiettori di Auschwitz si erano accesi per l'ultima volta: il 18 gennaio del 1945, e dal buio del campo emersero i Posten con i loro cani, mentre noi, rigorosamente incolonnate, oltrepassammo i cancelli dei reticolati. Al momento del nostro arrivo a destinazione, che per noi di Budy fu il lager di Belsen, una voce dentro di me mi avvertì che si trattava del giorno del mio compleanno, il 25 gennaio, appunto. […]

 
La Marcia della Morte. Mi ripeto mille volte: cammina... cammina, ancora qualche metro, ancora un po' di strada, fino a quando? Ad un certo momento mi accorgo di gridare: "no, non voglio, non posso più!"

[…] Tra gli innumerevoli, allucinanti trasporti, quello delle deportate di Auschwitz fu il più lungo, avendo dovuto attraversare in diagonale la Germania intera, e precisamente da Sud-Est (Auschwitz) a Nord-Ovest, ai confini con l'Olanda (Belsen). Per quanto avessi tentato anche in quel frangente di ricorrere come per il passato all'estraniazione da me stessa, il terrore, la prostrazione, la fame , e più ancora la sete colpivano con tanta immediatezza da non concedermi fuoriuscite psicologiche di sorta. Finchè avrò vita non cesserò di stupirmi di come sono uscita indenne da quell'incubo che fu per tutte noi - La Marcia della Morte. Mi ripeto mille volte: cammina... cammina, ancora qualche metro, ancora un po' di strada, fino a quando? Ad un certo momento mi accorgo di gridare: "no, non voglio, non posso più!" Ed è allora che due giovani ucraine mi abbrancano fortemente trascinandomi in avanti giusto quel po' da offrirmi un attimo di tregua e per costringermi, se non voglio rimanere un peso morto per loro, a riprendere di nuovo a muovere le gambe. Ad un certo momento, mentre ci trovavamo a poca distanza da un capannone arrivò il tanto invocato "Alt", l'ordine di fermarci. Ci buttammo sulla paglia gialla e spigolosa che ci sembrò allora il più tenero dei giacigli. Ma appena fummo in grado di assaporare un po ' di beneficio un contrordine diabolico ci scosse nel dormiveglia: "Aufstehen, wieder gehen". Oh! sì, quella volta piansi, singhiozzando forte e senza ritegno: le lacrime rotolavano bagnando il viso e scorrevano ad inondare le strisce della giacca da lager. Non meno estenuanti furono i percorsi fatti nei vagoni merce: noi stipate all'inverosimile, costrette a turno ad accucciarci per stendere le gambe. In uno di tali vagoni una parte dello spazio fu "requisito" da un paio di SS che trovarono di loro gradimento sfruttarlo per giochi amorosi con le detenute disponibili. Si sa, esseri ignobili, infami non mancano mai laddove c 'è un nemico, un invasore, un aggressore , a qualunque latitudine e longitudine. Anche in questa estrema occasione le ucraine mi soccorsero, quasi mi protessero; senza il loro generoso sostegno non avrei forse potuto narrare questa storia. Stranamente, durante tutto il nostro peregrinare mai abbiamo scorto il viso di un tedesco, nè ai bordi delle strade, nè sulle vie delle città e dei paesi, e ciò conferiva alla Germania e alle terre da essa occupate l'aspetto di un luogo disabitato o addirittura deserto. […]

 

 
"E’ tornata la mamma"

[…]

Il traguardo

 

Ed ecco approssimarsi il momento del fatidico traguardo, in cui null'altro conta che ritrovare mia figlia e B. sani e salvi. Il mio sesto senso, sempre vigile e confortante, mi suggerisce anche in questo frangente di non lasciarmi sopraffare da un eccessivo allarmismo. Tuttavia numerosi dubbi e perplessità si agitano dentro di me. I più assillanti riguardano ovviamente il modo in cui sarei stata accolta dai miei cari nei primi istanti della mia apparizione. Come avrebbe reagito mia figlia alla ricomparsa della madre di cui conservava - se conservava - un ricordo alquanto vago e sfumato? Quella madre assente in una fase così importante della vita come i primi giorni di scuola e delle inevitabili difficoltà legate ad essa. Oltretutto io, ligia ai miei principi pedagogici, non le avevo fornito alcun elemento preparatorio per affrontare l'esordio scolastico, come si usa di solito. Ma a quei tempi, ancora parecchio distanti dalla caccia da parte dei nazisti, era difficile immaginare cirostanze in cui non mi sarebbe stato concesso di accompagnare mia figlia il primo giorno a scuola e darle un bacio di buon augurio. Ora mi trovo come per incanto sulla soglia di casa, ove spero ardentemente di incontrare mia figlia e, se il caso benevolo lo vuole, anche B. Nonostante l'intima trepidazione riesco con uno sforzo notevole a raggiungere una padronanza più apparente che reale e una calma solo a fior di pelle. Salgo velocemente i pochi gradini che conducono alla porta e con un breve, abile gesto, (ricordo di altri tempi) giro la ma­niglia, oltrepasso un tratto di corridoio ed eccomi all'interno dell'ampia cucina. Come succede presso molte famiglie la cucina rappresenta il luogo centrale dell'intero abitato. Il posto ove, oltre a preparare e consumare i pasti, si comunica tra i componenti, si scambiano pensieri, si prendono decisioni, maturano progetti e, ovviamente, si incontrano e si scontrano opinioni e propositi. Proprio qui era stata di certo presa la decisione di accogliere mia figlia. I mobili sono chiari, molto più piacevoli del rimanente della casa, tinello compreso, che denotano invece una cronologia affatto recente. Nel momento in cui sto per fare i primi passi la cucina è inondata di luce, le superfici dei mobili rifrangono con generosità i raggi del sole mattutino. Ad un tratto al centro della stanza scorgo B. intento a con­sumare la colazione. Sul tavolo, a portata dello sguardo è posato ben in vista un giornale,  piegato in due, appoggiato a qualcosa che non si vede. B. veste in borghese: indossa un paio di pantaloni e una camicia con maniche rimboccate. Il lieve rumore dei miei passi distoglie B. dalla lettura; scorgendomi si alza di scatto per venirmi incontro. Ci abbracciamo. Ma è    un abbraccio più formale che un vero slancio amoroso. In quel momento però non ci faccio neppur caso, trepidante e ansiosa come sono di sentir notizie di nostra figlia. "Sta bene" - mi tranquillizza B. - "fra poco la vedrai".

E mentre mi rassicura sulla sorte della bambina, il suo sguardo scruta il mio volto e poi mano scivola sull'intera mia persona . "Ti trovo bene" - osserva - sorpreso evidentemente della veridicità di tale affermazione. Sta di fatto che il soddisfacente aspetto della donna che gli sta di fronte contrasta con le voci vaghe, ma insistenti sugli orrori perpetrati dai nazisti e con il deplorevole stato di salute dei pochi reduci dalla Germania. "Sono trascorsi tre mesi dalla mia liberazione" – rammento -  quasi dovessi di fronte a lui giustificarmi di qualcosa. Ma di quali assurdi peccati credo di dovermi discolpare in questo momento? Degli stessi immagino, che con l'avanzare di settimane, mesi e anni mi faranno sentire come imputata per       essermi salvata  a fronte di milioni di altri totalmente sommersi. (I sommersi e i salvati - Primo Levi). Ci saranno in avvenire vari motivi, tra i quali, non ultimo, un intimo pudore, per cui questi stati d 'animo a B. non saranno mai confessati. Come egli aveva annunciato mia figlia non tarda a fare capo­lino tra noi in cucina. La guardo sbalordita, faccio quasi fatica a riconoscerla: da bambina graziosa e rotondetta si è trasformata in una ragazzina esile, alquanto alta per la sua età. B. si volta verso di lei e con voce anche troppo neutra annuncia: "E’ tornata la mamma". Non è certo nelle sue intenzioni, ma questo ruvido annuncio di colora di un tono falsato, come se la mia assenza fosse causata da un lungo viaggio o da una insolita vacanza, a cui avevo posto fine per ritornare finalmente a casa.

 

"Sai mamma, non avevo mai creduto alle cose che dicevano, avevo sempre sperato di averti ancora vicina".

Tra madre e figlia

 

Mia figlia, imbarazzata e intimidita, rimane per qualche istante ferma al suo posto. Intuisco quanto sia difficile per lei, dopo una separazione durata poco meno di due anni, evocare d'un tratto la mia immagine. Ma dopo pochi attimi di esitazione essa si dirige lentamente verso di me, mentre anch'io le vado incontro. Ci stringiamo in silenzio, quasi fossimo impedite a sciogliere la commozione in parole adeguate.  Sbaglierebbe però chi si aspettasse tra madre e figlia una scena melodrammatica, patetica, un diluvio di lacrime e di gesti strazianti. Non avviene nulla di simile. L'incontro si svolge in maniera riservata, discreta, quasi prudente. Una cosa è indubbia: occorre concedere un intervallo alla bambina, ma anche a me, per dar modo ad entrambe di riacquistare poco alla volta un minimo di confidenza così bruscamente interrotta. Sono dovuti passare i giorni di fine estate e quelli del primo autunno perchè mia figlia pronunciasse la frase che avrei così fortemente voluto udire al momento del mio ritorno: "Sai mamma, non avevo mai creduto alle cose che dicevano, avevo sempre sperato di averti ancora vicina".

Dora Klein
Dora Klein.
Dora Klein 2
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