Questo sito usa cookie di analytics per raccogliere dati in forma aggregata e cookie di terze parti per migliorare l'esperienza utente.
Leggi l'Informativa Privacy completa.

Logo Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Autore

Sergio Lenci

Anno

1982 -1987

Luogo

Napoli

Tempo di lettura

11 minuti

Colpo alla nuca. Memorie di un sopravvissuto.

Incontro per primo Bignami: un giovane biondo dagli occhi chiari, emiliano. Lo riconosco appena lo vedo, sebbene oggi abbia i capelli un po’ lunghi mentre il giorno dell’attentato li aveva molto corti. È in ottima forma, ben nutrito e ben vestito. Non è agitato, non mostra, nei miei confronti, l’imbarazzo mostrato dagli altri detenuti che ho visitato.

Il giorno 23 febbraio del 1987 vado a Rebibbia per incontrare Maurice Bignami e Ciro Longo, accompagnato da padre Bachelet. I due sono detenuti in quello che un tempo si chiamava Istituto di osservazione della casa penale di Rebibbia, cioè in quella parte del complesso carcerario costruita negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Prima di incontrare i detenuti venimmo immessi negli uffici della direzione e nella stanza del direttore. In quella stanza, ventotto anni fa, partecipai alla prima riunione con gli esponenti del ministero della giustizia e i funzionari del genio civile di Roma per impostare la progettazione del costruendo attiguo nuovo carcere. L’atmosfera è cambiata, l’ambiente no. I mobili sono gli stessi. Le persone sono altre. Allora, nel 1959, vi era un rapporto gerarchico molto più rigido e naturalmente accettato da tutti, oggi vi è un rapporto più sciolto e discorsivo. Allora il direttore del carcere aveva pochi collaboratori (qualche assistente sociale), oggi ve ne sono molti di più e tra di essi vi è un rapporto (per lo meno apparente) di parità professionale. Anche i detenuti non mostrano nei riguardi del direttore, dei vari operatori penitenziari e degli agenti di custodia, quella deferentissima e ossequiosa attitudine che si poteva notare con impressione nel 1959. I detenuti sembrano più rilassati e sereni di un tempo. Per lo meno gli ex terroristi. Questi due giovani sono i personaggi più importanti della mia storia, sia perché tra i capi di Prima linea e sia perché il Bignami comandava il gruppo e il Longo fu quello che si occupò della mia esecuzione. Incontro per primo Bignami: un giovane biondo dagli occhi chiari, emiliano. Lo riconosco appena lo vedo, sebbene oggi abbia i capelli un po’ lunghi mentre il giorno dell’attentato li aveva molto corti. È in ottima forma, ben nutrito e ben vestito. Non è agitato, non mostra, nei miei confronti, l’imbarazzo mostrato dagli altri detenuti che ho visitato. Al contrario, appena ci sediamo, inizia a parlare con disinvoltura. Ha una grande proprietà di linguaggio, un accento emiliano vagamente temperato dalla cadenza romanesca. Ci intratteniamo a parlare per due ore. Una conversazione interessantissima perché svolta con appassionata partecipazione da tutti e due. Bignami mi descrive il suo percorso politico, i suoi rapporti con la sinistra ufficiale (Pci, Lotta continua e Potere operaio) e con i gruppi del Movimento e di Autonomia nonché con le Brigate rosse. Delle diffidenze ideologiche reciproche e anche dei timori e incertezze che caratterizzano anche la loro stagione rivoluzionaria. Mi delinea la situazione ideologica sua e dei suoi compagni di Prima linea di allora, e cioè una fede cieca nel loro compito, che era quello di distruggere questa società ingiusta, nella certezza che, una volta eliminati i soprusi, la bontà innata dell’uomo avrebbe prevalso e concorso a creare una società non più basata sullo scambio, ma sul rapporto fraterno. Come, con i loro metodi, avrebbero potuto eliminare i soprusi è un argomento che Bignami non affronta. L’ideologia non è chiara, un miscuglio di Giansenio e Rousseau condito con il leninismo e lo stalinismo necessari all’azione. Oggi egli non si riconosce più in quello che era allora, né riconosce alcuna validità politica alle posizioni allora assunte. Tiene a sottolineare il fatto che quelle posizioni, con sfumature diverse (solo violenza urbana; lotta armata subito; crudeltà proletaria), erano patrimonio comune, e non segreto, di tutta la sinistra, anche quella ufficiale (Pci) che poi ha preso posizioni duramente contrarie ai terroristi. Del fatto che mi riguarda non dice nulla di nuovo. Il gruppo di Prima linea si occupava di tutto ciò che concerneva la preparazione ed esecuzione degli attentati. I nomi li faceva qualcuno, però, nel caso specifico, Bignami non ricorda chi possa essere stato. Non crede che vi siano stati mandanti, infiltrati e profittatori, ma non ha modo per escluderlo totalmente. Non lo sa e non lo ricorda. Ma perché, gli chiedo, sono stato condannato proprio io? Per quale ragione specifica? Voi che avete curato l’organizzazione e l’esecuzione della sentenza di morte, fino a che punto vi sentivate responsabili della scelta della persona da sopprimere e in che misura dipendevate dalle decisioni di altri della vostra banda? E chi erano costoro? Bignami non mi risponde a tono. Parla di una mia generica notorietà, non ancorata ad alcun fatto specifico che egli possa ricordare. Da quanto dice emerge una strana struttura della strategia

di Prima linea: sembra che il gruppo abbia bisogno dell’azione terroristica soltanto per confermare se stesso come gruppo armato candidato alla direzione del paese. Gli omicidi sarebbero come l’assunzione di una pillola medicinale: non l’identità della singola pillola, ma l’assunzione di un certo numero di esse è curativa.

Il fatto che il Bignami di oggi sconfessi il Bignami di ieri non basta. Perché se cambiamento vi è stato, questo cambiamento rappresenta una opposizione alla situazione precedente, opposizione che, per esserci, non può ignorare e dimenticare il passato, altrimenti a che cosa si opporrebbe?

Mi sembra evidente che Bignami non dica la verità, ma cerchi di accreditare una irrazionalità insita nel terrorismo della quale i singoli terroristi non avrebbero quasi colpa. Prendere la strada del terrorismo per accelerare la rivoluzione comporterebbe questa irrazionalità e non si può discuterne ora, a terrorismo dormiente, perché non vi sarebbero più argomenti. Mi sembra di intravedere nel background di queste affermazioni una concezione mistica e fanatica del fare politica e anche dei rapporti umani. Il fatto che il Bignami di oggi sconfessi il Bignami di ieri non basta. Perché se cambiamento vi è stato, questo cambiamento rappresenta una opposizione alla situazione precedente, opposizione che, per esserci, non può ignorare e dimenticare il passato, altrimenti a che cosa si opporrebbe? Come in tutte le cose, l’unico sistema per capire è quello di ricercare, riordinare, classificare, trovare i nessi, esplicitare tutti i fatti. In mancanza di ciò una «dissociazione» solo psicologica e morale non sembra credibile né utile. Bignami mi dice una cosa che mi interessa molto e che mi ripeterà anche Longo: nelle carceri antiche, dove regna sovrana la promiscuità, vi è meno possibilità di controllo e segregazione da parte del personale di custodia e direttivo; nelle carceri nuove, anche se fatte con maggiori confort per migliorare la vita, si può più facilmente isolare l’individuo. Il trattamento può essere più inumano perché vi è la possibilità di frazionare. Proprio ciò che sembrava un punto di arrivo per il miglioramento dell’ambiente, e cioè la riduzione della popolazione detenuta a piccoli gruppi nell’ambito dei quali concedere maggiori libertà (anche di spazio e di movimento), diventa un fatto negativo. La libertà di movimento può essere negata e rimane la cella individuale non più come tutela della privacy ma come isolamento totale. Questo discorso è molto complesso e non può essere esaurito rapidamente. Se il miglioramento delle condizioni di detenzione passasse attraverso un aumento della promiscuità, come difesa del gruppo di detenuti dall’azione di potere totalizzante dei carcerieri, bisognerebbe pensare, allora, più a riformare i carcerieri che non l’edilizia carceraria. [...]

Longo mi racconta un particolare interessante: egli doveva spararmi due colpi, uno alla nuca e uno alla tempia. Sparato il primo non se la senti di girarmi la testa con le mani per spararmi il secondo alla tempia e allora sparò sulla testa. Il colpo mi passò tra i capelli per uno sbaglio di mira.

Dopo Bignami incontro Ciro Longo: un uomo bruno, alto, con grandi baffi e occhi neri. Non lo riconosco al primo apparire, poi durante la conversazione mi ricordo del suo volto e mi ricordo che tentò di tranquillizzarmi mentre mi legavano, dicendomi che non mi sarebbe stato fatto del male. Longo mi racconta un particolare interessante: egli doveva spararmi due colpi, uno alla nuca e uno alla tempia. Sparato il primo non se la senti di girarmi la testa con le mani per spararmi il secondo alla tempia e allora sparò sulla testa. Il colpo mi passò tra i capelli per uno sbaglio di mira. Mi disse anche che, dopo l’omicidio che credeva di aver commesso, sentì l’amarezza dell’azione e disse al Mutti che avrebbe desiderato non essere mai entrato in quella avventura. Longo mi spiega che il materiale informativo proveniva da varie fonti, anche vecchie. Tutti i vari gruppi extraparlamentari che avevano organizzato azioni anche non omicide, trasmettevano gli appunti e le informazioni prese agli altri, così che sarebbe praticamente impossibile risalire sia alle fonti sia pensare che coloro che hanno dato informazioni le abbiano date per uccidere. Mi dice di credere possibile che io sia stato oggetto di due condanne a morte parallele. Una pronunciata solo a scopo di intimidazione e l’altra eseguita. Tra le due nessun nesso. Anche queste versioni sono possibili, ma non mi convincono. Tutti e due sono meravigliati e non sanno dare una spiegazione del fatto che io non sia stato citato nel processo. I due uomini hanno, oggi, superato i trent’anni e sono diversi da quello che erano a venti. Si pongono quegli interrogativi sulla storia, sull’uomo, sul futuro che allora non si ponevano. Mi sembrano persone sensibili che hanno molto sofferto. Mi rimane, però, un atroce dubbio: che non ci sia anche lo scopo di seppellire tutto definitivamente rendendo il passato così nebuloso e insondabile? C’è qualcosa che mi turba un poco: i due parlano troppo e con troppa disinvoltura, le cose che essi mi dicono coincidono troppo. Sembrano lezioni imparate a memoria. E così si conclude questa ultima occasione dalla quale mi aspettavo qualche informazione. Informazioni dirette i miei due interlocutori non me ne hanno date, ma, indirettamente, mi hanno detto molto. Essi mi hanno confermato tre cose: Primo: la natura della loro organizzazione non era politica, ma solo strumentale. Essi non si sono mai posti il problema di scegliere e decidere su ciò che fosse più opportuno fare, ma solamente di fare qualche cosa. Dal momento che non sanno nulla sulle motivazioni di ciò che fecero, è evidente che qualcun altro avesse questo ruolo. Qualcuno che, però, non compare. Secondo: la linea di comportamento che essi seguono (compresa la Borelli) è identica: si tratta di una linea di condotta discussa e concordata prima e coincidente con atteggiamenti di alcuni politici e giornalisti non incriminati. Terzo: la dissociazione di cui essi si vantano è tutta strumentale alla loro liberazione e non ha nulla di genuino e sincero. Essi non mostrano alcun cedimento della loro metallica condotta anche di fronte alla persona che hanno cercato di uccidere, e con olimpica freddezza teorizzano sugli errori della lotta armata e sulla sua intempestività. Non provano vergogna nel sostenere palesi assurdità: si rivelano contagiati dalla sottocultura civile e politica diffusa nell’Italia di oggi, basata sul machiavello, sulla doppia e tripla verità, sulla furbizia e sulla bugia. La dignità umana e intellettuale sembrano sconosciute.