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Autore

Sergio Lenci

Anno

1982 -1987

Luogo

Napoli

Tempo di lettura

12 minuti

Colpo alla nuca. Memorie di un sopravvissuto.

Mi avranno imputato di qualcosa? Poi, dopo aver decifrato le zampe di gallina a penna biro di qualche amanuense del tribunale, leggo «parte lesa» e mi tranquillizzo. C’è, comunque, qualcosa che non mi piace in quel biglietto: in qualità di assassino, rapinatore, testimone, parte lesa. È lecito usare lo stesso biglietto per le diverse categorie?

Sul biglietto giallo intestato «La Corte di Assise di Roma», che mi ingiunge di presentarmi il giorno 5 dicembre 1983 alle ore 9.00 del mattino dinanzi alla II sezione, non è indicato alcun indirizzo. Il pezzetto di carta, recapitato per posta, non è molto comprensibile, come quasi tutti gli stampati che la pubblica amministrazione usa per comunicare con i cittadini. Mi si ingiunge di presentarmi nella mia qualità di... (qui la comunicazione a stampa lascia lo spazio perché sia completata la frase a mano, specificando la condizione del destinatario) per cui si ha una certa emozione. Mi avranno imputato di qualcosa? Poi, dopo aver decifrato le zampe di gallina a penna biro di qualche amanuense del tribunale, leggo «parte lesa» e mi tranquillizzo. C’è, comunque, qualcosa che non mi piace in quel biglietto: in qualità di assassino, rapinatore, testimone, parte lesa. È lecito usare lo stesso biglietto per le diverse categorie? Mi viene in mente quella barzelletta delle reclute che, in fila, attendono di marcare visita e il generale, in ispezione, chiede a ognuno il motivo della visita, la cura ricevuta e di esprimere un desiderio. Tutti rispondono: emorroidi, pennellatura, e nulla da chiedere. L’ultimo soldato della lunga fila risponde: mal di gola, pennellatura, cambiare pennello. Ma poi penso alla sindrome della vittima, all’eccessiva attenzione per simili finezze che non si può pretendere in milioni di procedimenti. E poi, in Italia, a Roma, dove in un decennio è stata distrutta una città con i suoi monumenti e i suoi parchi, che significato può avere un modulo per la gente? Dal mio avvocato vengo a sapere il luogo dove si svolgerà il processo: Rebibbia, nuova aula bunker, via S. Basilio. Per essere alle nove del mattino sulla via Tiburtina debbo uscire di casa molto presto a causa del traffico, anche se sono facilitato, perché debbo procedere nel senso inverso alle grosse correnti di auto in arrivo nella città dalla direzione di Tivoli. Mio figlio Ruggero mi accompagna. Con l’avvocato Rossi ci vediamo lì. Un’ora di sofferenza nel caotico traffico del mattino, per coprire circa dieci chilometri. Ricordando il percorso che abitualmente facevo per andare a Rebibbia, quando era in funzione il cantiere del nuovo carcere, ho l’infelice idea di passare dall’antica strada di Casal dei Pazzi, allora ridente campagna dolcemente ondulata, totalmente coltivata, solcata dall’Aniene e da marrane. Filari di pioppi ne scandivano gli appezzamenti come quinte in un palcoscenico. Di quel paesaggio non esiste più niente. Un quartiere enorme vi è stato costruito sopra. Larghe strade che improvvisamente si arrestano non fanno capire né dove si va né da dove si possa uscire dal labirinto. La via Tiburtina è vicina, ma non è facile raggiungerla. Gli edifici del nuovo quartiere sono anodini, quelli per la residenza normale; mostruosi quelli per scuole, mercati e uffici, con gigantesche quanto sproporzionate strutture, talvolta metalliche, pareti vetrate, pareti in vetrocemento. Per uscire dalla valle di Casal dei Pazzi oggi occorre una guida. Non più un albero, nulla che ricordi il paesaggio primitivo, non si vedono più i Monti Tiburtini. Tutti i giorni queste sensazioni: prima il traffico, poi la vista della città sfregiata, dipinta in giallo e rosso, la vista degli alberi morti lungo le strade, delle statue decapitate, delle panchine divelte, rotte, spostate, delle asfaltature di tutti gli spazi che una volta erano a prato, delle bancarelle, degli enormi pullman bar ambulanti, delle roulottes sparse dappertutto (da piazza San Pietro a piazza Navona) mi provocano un’angoscia soffocante. Alla base dell’angoscia è la mia incapacità di spiegarmi il perché di tanto degrado. Perché nessuno, individualmente, fa quel poco che potrebbe per ridurne gli effetti. Capire il comportamento collettivo: un problema di grande portata. Oggi questa angoscia è per me ancora più acuta perché, sullo sfondo dello squallido panorama del quotidiano cittadino, vi è il processo. Io non ho mai partecipato nella mia vita a un processo come parte lesa e ignoro ciò a cui vado incontro.

Allora si pensava che una parte dei detenuti avrebbero potuto svolgere lavori agricoli in un’azienda dell’amministrazione penitenziaria. I detenuti erano, all’epoca del progetto (1959), in gran  parte contadini. Quell’area rappresentava circa un quarto di tutto il lotto di Rebibbia destinato all’edilizia penitenziaria.

L’aula bunker occupa un’area che io ben conosco, un’area in adiacenza, a nord, al complesso penitenziario di Rebibbia. Quando facevo il progetto del nuovo carcere, quell’area non venne usata per il complesso penitenziario perché destinata a «colonia agricola». Allora si pensava che una parte dei detenuti avrebbero potuto svolgere lavori agricoli in un’azienda dell’amministrazione penitenziaria. I detenuti erano, all’epoca del progetto (1959), in gran  parte contadini. Quell’area rappresentava circa un quarto di tutto il lotto di Rebibbia destinato all’edilizia penitenziaria. Un quarto come il quadrante nord-orientale del quadrato maggiore, che costituisce la forma di tutta l’area. Scelta nel 1938 per edificarvi quella che allora veniva definita la «Città penitenziaria» (era l’epoca delle «Città militare - Cecchignola», «Città universitaria»), quando io fui incaricato del progetto (1958), era già stata parzialmente edificata secondo un progetto del 1939, rivisto nel ’41 o ’42. Il mio problema era stato quello di trovare per l’edificazione una orditura tale da essere nello stesso tempo libera dal semplicismo protorazionalista del progetto originario (padiglioni orientati secondo l’asse eliometrico, tutti paralleli), ma organizzata secondo gerarchie di spazi significanti in rapporto alle varie destinazioni degli edifici. Il tutto non contrastante con la parte già costruita. L’area per la colonia agricola doveva rappresentare il completamento del disegno urbanistico. La colonia agricola non fu mai costruita, e certo non sarebbe stata inutile in funzione ergoterapica. Rimase un’area libera e come ogni vuoto urbano privo di controllo, nelle mani, per di più, di una burocrazia alla quale il terrorismo ha dato più potere, più soldi, ma non più cervello, esso viene sprecato alla prima occasione, nel modo più volgare e anche poco utile. Vengono costruite due aule con servizi relativi, in strutture prefabbricate in cemento armato. Il fabbricato viene collocato quasi nel centro dell’area. Le sue dimensioni sono dettate più dalla dimensione dei pezzi prefabbricati che la ditta costruttrice forse già possiede e vende, che non da un’approfondita indagine progettuale. La forma dell’aula, la sua dimensione e collocazione e lo spazio dedicato ai servizi accessori (stanze per i testimoni, spazi per il pubblico, servizi igienici, atrii, ingressi, eccetera) sono tutti sbagliati: troppo piccoli, troppo grandi, troppo lontani, troppo vicini, troppe finestre, troppo poche finestre. Perfino la strada di accesso alla via S. Basilio è fatta in modo che le auto per uscire debbano fare un’impossibile manovra. Ripenso alle mie preoccupazioni di concepire spazi legati al paesaggio e alle preesistenze, nell’ipotesi-speranza di un futuro nel quale tutta l’istituzione avrebbe potuto assumere caratteri di semilibertà, di comunità terapeutica e non solo di deposito di uomini privati di libertà. Messaggi che nessuno ha raccolto e che forse sono il solo di questa città a conoscere. Nessuno ha bisogno di consigli né di indagini storiche quando una legge lo abilita a spendere. Però ricordo maggiore preoccupazione, in tempi non così lontani, per le grandi opere; maggiore discussione ed elaborazione sulle decisioni. Mentre aspetto, in una fila disordinata – mescolato al grosso pubblico formato da parenti e amici degli imputati detenuti e da imputati a piede libero – di poter passare attraverso il posto di controllo (esibizione della tessera di identità, fotocopia della stessa, passaggio al metal-detector), ancora una volta debbo constatare con angoscia quanto la cultura civile del paese si sia imbarbarita. Sono certo che la necessità di costruire aule bunker sia stata occasione per una grossa spesa, non immune da inconvenienti. E mi colpisce l’indifferenza per lo spreco non solo di denaro, ma di territorio. Nella fila parallela, più rapida e ordinata – quella per gli avvocati e la stampa – qualcuno dice: «Quanti processi saranno svolti qui? Due o forse tre e poi questa enorme struttura diventerà inutile o, se destinata ad altri usi, inutilmente complicata e costosa». Ha ragione.

Di tutte le altre parti lese nessuno si costituisce privatamente, come ho fatto io. Si tratta di persone che, anche se ferite o psicologicamente colpite e quindi danneggiate personalmente, non intendono trasformare questa ingiuria subita in una rivendicazione personale. Essi sono capitati nel ruolo della vittima per caso, cioè per il servizio che in quel giorno era stato loro destinato.

Povera Roma, attaccata da tutte le parti, dalla destra e dagli errori della sinistra, incultura e pseudo cultura, terrorismo ed effimero, traffico e archeologia, partite di calcio e balli nei parchi, Massenzioland, Circo Massimoland e il Circo Orfei al Parco dei Daini. Passati i controlli arriviamo, finalmente, nell’aula bunker. Sono le nove e quindici. È ancora vuota, qualche avvocato difensore, diversi carabinieri, mancano la Corte e gli imputati. Nel fondo dell’aula, il pubblico chiacchiera sommessamente. Qualche risata argentina, qualche esclamazione colorita emergono, di tanto in tanto, dal vociare indistinto. Chiacchiero anche io con il mio avvocato, mentre l’aula si va lentamente popolando: avvocati e privati. Scopro che le parti lese sono circa venti. Si tratta di agenti di pubblica sicurezza che sono stati feriti e derubati delle armi, conduttori di autobus dell’Acotral, guardiani di depositi, impiegati dell’Istituto autonomo case popolari. Scopro quindi che tra le parti lese sono stati citati anche i ministeri degli interni e di grazia e giustizia e il comune di Roma, per altrettanti danni arrecati a strutture di loro proprietà dalle bande armate terroriste. Finalmente, verso le 11.00, il processo comincia. Il presidente spiega il ritardato inizio con il ritardato arrivo, da fuori Roma, di alcuni imputati detenuti. Cominciano le eccezioni della difesa, dopo che l’appello degli imputati fa constatare che molti di essi, i più importanti, ritenuti i capi, come Bignami e la Borelli, sono assenti perché coinvolti in altri processi in altre città. Vengono stralciate le posizioni degli imputati assenti. Vi saranno repliche del processo per coloro che oggi non possono essere presenti. Si passa alla costituzione delle parti civili. Altra sorpresa: vi sono soltanto due parti civili. Una è Iacp di Roma, l’altra sono io. Ministeri e comune di Roma sono assenti, nemmeno rappresentati. Di tutte le altre parti lese nessuno si costituisce privatamente, come ho fatto io. Si tratta di persone che, anche se ferite o psicologicamente colpite e quindi danneggiate personalmente, non intendono trasformare questa ingiuria subita in una rivendicazione personale. Essi sono capitati nel ruolo della vittima per caso, cioè per il servizio che in quel giorno era stato loro destinato. Per loro il terrorismo non ha alcun comprensibile significato; il loro timore è che diventi antagonismo personale. L’indennizzo che lo Stato concede alle vittime è sufficiente, per il resto è meglio uscirne al più presto. Il presidente rinvia l’udienza al 31 gennaio 1984. Avverte che la costituzione di parte civile sarà possibile anche alla ripresa del processo, dato che il dibattimento non è ancora cominciato. Me ne torno al mio studio con Ruggero. Mio figlio non è stato ammesso nella parte centrale dell’aula, fra le parti lese. È stato relegato tra il pubblico. È colpito dal comportamento di alcuni, dai loro discorsi: un altro mondo, contro il mondo ufficiale demonizzato e ritenuto responsabile di tutti i mali. Anche se, nel caso specifico, questo mondo ufficiale è rappresentato da impiegati dello Stato e lavoratori autonomi – nessun capitalista, nessun potentato politico – sembra che l’esigenza di odio ne faciliti lo sfogo, senza tante sottigliezze, sui primi simboli che qualcuno addita. La mancata costituzione di parte civile, anzi la completa assenza dei ministeri e del comune di Roma mi turbò. Che cosa voleva dire? Cercavo di immaginarlo o perlomeno di avanzare un’ipotesi: che non si trattasse di una direttiva politica tesa a riassorbire, minimizzare, allontanare, mostrare clemenza, quindi a offrire un guadagno inatteso che si poteva trarre dal terrorismo: consensi e voti alle elezioni? Vi potrebbe essere da parte di settori della sinistra, e anche del Pci, il tacito recupero di uno «specifico rivoluzionario» che, organico della sinistra stessa, con la politica di oggi (di opposizione dura) è più necessario di quanto non lo fosse ieri con le politiche di «compromesso storico» e di «solidarietà»? Questa direttiva potrebbe avere provenienze diverse e, spesso, opposte: ma lo scopo potrebbe essere lo stesso; quello di non perdere voti, di non gonfiare il nemico politico a proprie spese con posizioni giuste, ma impopolari.