Autore
Sergio LenciAnno
1982 -1987Luogo
NapoliTempo di lettura
9 minutiColpo alla nuca. Memorie di un sopravvissuto.
Io ero stravolto, fuori dell’ospedale mi sentivo malissimo. All’interno dell’ospedale, infatti, ciascuno recita la sua parte e la mia era quella di un degente che, dopo essere scampato a un pericolo, migliorava gradatamente. Ma fuori ero a contatto con la città viva, con la gente che stava bene e che svolgeva, con l’indifferenza dell’abitudine, le proprie mansioni quotidiane. Ciò che era successo a me non esisteva per gli altri. Passammo per piazza Vittorio e per via dello Statuto: i mercati alimentari pullulavano di gente serena, ignara del mondo di incubo che io mi portavo dentro, intenta a riempire il proprio tempo con vivace gioiosità; urla di venditori, vocìo di avventori, rumori del traffico, movimento delle persone e dei veicoli, i meravigliosi colori dei banchi dei fiori, di quelli del pesce, anche la decrepita sporcizia e l’abbandono nel quale versava tutto l’intorno urbano gridavano vitalità. Dentro di me, oltre ai malesseri fisici, avevo gli scottanti interrogativi del che fare dopo. Il mio futuro si contrapponeva immediatamente a quel pulsare di vita, oltre che come un futuro problematico per il mio lavoro, per il ruolo che avrei potuto svolgere, anche come una previsione di stasi, di noia per separazione dalla vita che avevo svolto prima. Arrivati a casa di mia madre, dove avevo deciso di risiedere per il momento, e licenziata la scorta e gli accompagnatori, rimasi muto nel salotto, seduto su una poltrona, incapace di pensare e di agire. Nei giorni successivi mio fratello mi aiutò a ragionare: poiché mi consigliavano di andarmene dall’Italia e poiché uno dei miei figli si trovava in quel tempo in America per ragioni di studio, decidemmo che lo avrei raggiunto e avrei trascorso qualche mese con lui. Ruggero stava ad Atlanta, e studiava per un master presso il college di architettura del Georgia Institute of Technology. Oltre a mio figlio, ad Atlanta io avevo molti amici perché in passato ero stato professore ospite presso quella scuola di architettura. Così, accompagnato da mio fratello, dopo una decina di giorni partii per New York. Qui restai due giorni. Il professor Fazio di Roma mi aveva consigliato di farmi visitare da uno dei più rinomati neurologi del mondo, che esercitava presso l’ospedale della Cornell University. Telefonai alle sei della sera (ero arrivato da poche ore) all’ospedale, chiedendo del professor Plum. Mi rispose una segretaria che mi chiese il motivo della telefonata e, saputolo, mi disse che avrei potuto avere una visita verso fine luglio. Timidamente, feci presente che mi sarei trattenuto solo due giorni a New York e, per sommi capi, accennai al mio problema fisico. Allora la segretaria mi fece parlare con il professor Plum in persona, il quale, udite le mie ragioni, mi dette appuntamento per l’indomani mattina alle otto. Con mio fratello, di buon’ora, mi avviai verso l’ospedale. I problemi fisici – mancanza di voce, paralisi della faringe e del braccio destro, vertigini, riduzione di vista, mal di testa – acuivano quel senso di estraneità dal mondo che le conseguenze psicologiche dell’attentato provocavano. Dal professor Plum io mi aspettavo una condanna: non c’è nulla da fare, lei resterà in queste condizioni per tutto il resto della sua vita. Fui ricevuto molto puntualmente. L’ospedale era un immenso edificio in stile vagamente neogotico, come sono spesso vaghi i richiami stilistici degli edifici americani. Un ambiente silenzioso e pulito, frequentato da centinaia di infermieri, pazienti, visitatori che erano guidati oltre che da un efficiente servizio di informazioni al piano terra, da un’eccellente segnaletica. Il professor Plum, un uomo magro sulla sessantina, mi ricevette con cortesia e, all’inizio, con un atteggiamento circospetto. Mi lasciò raccontare la mia vicenda, dette uno sguardo alla cicatrice che ho sulla nuca e prima di iniziare la visita mi disse che era necessario vedere una radiografia. Nella fretta della partenza, avevo dimenticato a Roma la mia cartella clinica con le radiografie e tutti gli esami specialistici. Questo sembrò un po’ strano al dottor Plum, che mi inviò al piano di sotto, al reparto radiologia. Mi furono fatte diverse lastre e, dopo mezz’ora, ero di nuovo nel gabinetto di visita del professor Plum. Egli esaminò le lastre del mio cranio sulla lavagna luminosa, in silenzio. Poi si rivolse a me e mi disse che la cosa era talmente enorme da sembrare incredibile. All’inizio, disse, lui stesso aveva dubitato. Il colpo nella mia testa era stato cosi forte e aveva sparso frammenti in una zona cosi vasta del cranio da rendere inspiegabile come io fossi ancora in vita. Il suo atteggiamento verso di me diventò quasi affettuoso. Mi spiegò che molti dei miei sintomi sarebbero, entro certi limiti, regrediti. Altri non si poteva dirlo: per esempio la paralisi al braccio. Un nervo danneggiato, se non è completamente reciso, si ricostituisce alla velocità di circa mezzo millimetro al giorno. Il che voleva dire che, essendoci tra il cervello e il braccio un’ottantina di centimetri, dopo 160 giorni la paralisi sarebbe o regredita oppure sarebbe diventata cronica. Non c’era che da aspettare.
 
Il professor Plum chiamò i suoi assistenti e fece loro una lezione sul mio caso. Le attenzioni di questo medico mi furono di grandissimo conforto, anche psicologico. Egli mi invitò anche a restare negli Stati Uniti: se lo avessi voluto, mi avrebbe trovato lavoro a New York, presso alcuni dei più rinomati architetti dei quali era amico personale. Nel frattempo erano necessarie una convalescenza tranquilla, esercizi fisioterapici e riabilitativi, e distrazione. Tutto questo mi risollevò il morale. Adesso sapevo che potevo contare sull’amicizia di un illustre personaggio che mi avrebbe anche cercato un lavoro, se fosse stato necessario. La cosa mi consolava, anche se capivo benissimo che istallarmi da solo a New York non mi sarebbe stato facile. Per molti mesi dopo l’attentato (e sembra sia comune a tutti i craniolesi) mi era capitato di abbandonarmi con molta facilità al pianto. Mi congedai dal professor Plum piangendo, di tristezza ma anche un po’ di gioia. Mio fratello tornava a Roma e io proseguivo per Atlanta. Mi accompagnò al terminal della Eastern Airlines e attese che mi imbarcassi. Nel recinto di attesa, intravidi un celebre collega di Atlanta che avevo conosciuto anni addietro. Stava in coda alla fila dei passeggeri e lo additai a mio fratello. Mio fratello credette opportuno, dopo che mi fui imbarcato, di avvicinarlo e di chiedergli di badare a me, forse accennandogli alle mie condizioni. Mentre l’aereo cominciava a muoversi, vidi il celebre collega venire nella classe turistica verso di me. Egli mi disse: «Hallo Sergio, everything you need let me know, I am in first class». Scomparve in fretta e non lo rividi più. Ebbi una strana sensazione che al momento non realizzai appieno. Un interesse doveroso nei miei confronti, ma anche l’ansia di distaccarsi. Dopo alcuni mesi questa sensazione sarebbe diventata una certezza: nel paese dei giovani e degli efficienti un uomo di oltre cinquanta anni, menomato, non trova la stessa accoglienza che trovava anni addietro, più giovane e nel pieno delle sue forze.
[...]
Pensavo e attendevo. La sera, con Ruggero o da solo, andavo a cenare da amici e scambiare quattro chiacchiere. Ma soprattutto attendevo qualche nuova dalla scuola di architettura locale. Ma non venne niente. Restai in America dal luglio al dicembre (salvo due ritorni a Roma per pochi giorni, resi indispensabili dalla necessità di rifornimento di denaro che rapidamente si esauriva) e poi vi tornai l’anno successivo. Il dissanguamento economico fu disastroso, tanto che dovetti restituire la casa e convincermi che era meglio tornare definitivamente a Roma. Mai presentarsi invalido o bisognoso di aiuto e soprattutto mai chiedere aiuto, specialmente in America. La parentesi americana fu, però, la mia salvezza fisica e mentale. In America ebbi il tempo e la voglia per le necessarie terapie fisiche. Vissi una pausa della mia esistenza in un luogo dolce e gradevole nel quale avrei voluto vivere da bambino o nel quale avrei voluto crescere i miei bambini per l’equilibrato rapporto con l’ambiente, il verde, per l’intimità della casa, per la calma e il silenzio. E questo lo dico a prescindere da giudizi politici o condanne storiche sui fortunati e i dannati della terra.